IL
MANCATO RITORNO
Il
mito dell’esilio e le sue demistificazioni nell’opera
di Milan Kundera
Ilaria
Vitali
Topografia dell’emigrazione
Avvicinandosi ad un autore come Milan Kundera è legittimo
porsi delle domande: domande sulla sua “doppia” appartenenza,
sulla delicata questione dell’esilio, sulla sua condizione
di émigré proveniente da un paese occupato, stabilitosi
in Francia verso la metà degli anni settanta. A queste
questioni se ne aggiungono altre, questioni filologiche: l’abbandono
della lingua madre, il ceco, e la scelta del francese, questioni
ancora più sentite nell’opera di un autore che
ha sempre mostrato un grande interesse nei confronti della “parola” e
che ha fatto della riflessione sulla lingua non solo una tecnica
narrativa, ma il punto di partenza della riflessione e dell’interrogazione
esistenziale. In cosa consiste dunque la vita di un émigré,
soprattutto quando si tratta di uno scrittore? Che cosa s’intende
con il termine “esilio” al di là del mito
o dell’accezione comune? È possibile tracciare
una topografia del romanzo legata all’emigrazione di
grandi autori come Nabokov, Rushdie e altri, che con le loro
opere hanno ampliato orizzonti e confini di letterature e culture
diverse da quelle di origine?
Sono questioni complesse e delicate a cui non abbiamo la presunzione
di dare una risposta univoca. Un dato appare tuttavia evidente:
con i loro spostamenti sulla cartina geo-politica, questi autori
hanno disegnato una loro personale topografia della letteratura
mondiale, tracciando con i loro percorsi evolutivi, la storia
del romanzo così come la intende Kundera, ovvero “la
mappa dell’esistenza umana”.
Lo scrittore, che non è per Kundera né storico
né profeta, ma piuttosto esploratore dell’esistenza,
si appresta dunque a tracciare la sua personale carta esistenziale.
Questa particolare topografia sarà oggetto d’analisi
in questo studio.
Vivere in-between
Nella storia della letteratura mondiale sono molti gli scrittori
che hanno vissuto la problematica condizione dell’entre-deux,
ovvero la condizione di coloro che hanno fatto l’esperienza
di due realtà culturali e linguistiche diverse e hanno
trasposto questa esperienza sul piano letterario.
Per concentrarsi solo sulla Francia, oltre a Kundera occorrerebbe
citare numerosi émigré provenienti da paesi diversi,
fagocitati dalla cultura del pays d’accueil: Emil Cioran,
Eugène Ionesco, Michel del Castillo, Tzvetan Todorov,
per limitarsi solo ai più celebri.
Ma cosa significa esattamente vivere l’entre-deux?
Prendendo a prestito l’immagine di una poesia di Kafka,
Hana Pichova, nel suo studio comparato tra Kundera e Nabokov,
The Art of Memory in exilei, definisce gli autori émigrés come
figure-ponte, sospese tra le sponde di due realtà diverse,
che hanno fatto, in modi diversi, esperienza di entrambe.
Tuttavia non bisogna lasciarsi ingannare dall’apparenza
rassicurante di questa immagine, che può divenire facilmente
l’oggetto di una dis-lettura : come Pichova stessa sottolinea,
al contrario di ciò che il termine “ponte” sembra
suggerire a prima vista, l’esperienza di due paesi non
diviene automaticamente garanzia di successo nell’operazione
di collegamento tra i due. Bisogna infatti ricordare che lo
stesso tentativo di collegamento nella poesia di Kafka è tentativo
fallito, che non provoca altro che un effetto di rottura, perdita,
frustrazione.
È
tuttavia necessario riconoscere la complessità del tema,
senza limitarsi agli aspetti negativi: come Kundera stesso
ha affermato, “the experience of living in a number of
countries is an enormous boon for a writer”: solo il
cambiamento di prospettiva, linguistica e culturale, permette
la comprensione e compenetrazione della realtà nella
sua complessità. Vivere “in-between”, ovvero
sospesi tra due realtà diverse, non comporta dunque
solo lati negativi, ma può indurre ad una maggiore consapevolezza.
Viene così a crearsi una doppia definizione di esilio:
non solo luogo doloroso, ma anche terra di libertà narrativa
e linguistica di cui nutrire l’opera letteraria. L’esilio
può essere trasformato in carta vincente, strumento
di analisi che consente uno sguardo lucido e permette l’opera
di demistificazione di ogni verità imposta. Come sostiene
Hana Pichovaii l’émigré acquisisce
una polivalenza esistenziale che gli consente di effettuare
operazioni di collegamento
e scambio: diviene figura-ponte tra culture e realtà diverse,
capace di apportare ad entrambe elementi di novità.
La prospettiva dell’émigré diviene così caleidoscopica,
nel senso originario della parola (dal greco kalos=bello, eidos=forma
e skopein=vedere): dalla visione multiforme e sfaccettata nasce
dunque la capacità di creare belle immagini.
La vita “entre-deux” si caratterizza infatti per l’assenza
di una verità univoca e imposta: ad ogni immagine cristallizzata viene
sostituita quella versatile offerta dall’osservazione da punti di vista
diversi.
Tutta l’opera di Kundera sembra infatti avere lo scopo di dichiarare l’assenza
di une vérité univoque:
La
Vérité totalitaire exclut la relativité,
le doute, l'interrogation et elle ne peut donc jamais se
concilier avec ce que j'appellerais l'esprit du roman.iii |
Una volta che la frontière è stata oltrepassata,
tutto ciò che resta è una verità “in-between”,
verità multipla e sfaccettata (brillantemente tradotta
da Hana Pichova nell’immagine del caleidoscopio), che
non può accettare i limiti e confini di una Verità Assoluta.
Dobbiamo riconoscere che il percorso che termina con l’emigrazione è vissuto
da numerosi scrittori come esperienza traumatica.iv D’altro
canto, non possiamo non considerare gli atouts degli scrittori émigrés che possono gioire di un punto d’osservazione doppio,
o multiplo, che può a volte divenire caleidoscopico.
L’esperienza dell’esilio resta problematica: secondo
le parole dell’émigré ceco Jaroslav Hutka,
l’esilio può dare l’illusione di una rinascita,
questa volta, tuttavia, senza la spensieratezza dell’infanzia.v
La dislettura : un’ossessione kunderiana
Vivere in un paese diverso, essere a stretto contatto con
una realtà multiculturale, costringe lo scrittore a
confrontarsi direttamente con i problemi comunicativi. Questa
riflessione si esplica nei romanzi di Milan Kundera attraverso
un esame attento e lucido dell’interpretazione del messaggio
linguistico, ovvero della lettura e della sua controparte,
la dislettura. Questi due lati del fenomeno interpretativo
sono focalizzati in due momenti topici della produzione kunderiana,
il “piccolo dizionario di parole fraintese”, terza
parte de L’Insoutenable légèreté de
l’être, che analizza le incomprensioni e i fraintendimenti
nella comunicazione umana, e il “dizionario intimo”,
il saggio di “Soixante-treize mots” in cui l’autore
risolve a suo modo i complicati rapporti tra parola e cosa.
Forse è qui utile ricordare che a influenzare lo scrittore
in questo “travail de définition” sono state
senza dubbio le “cattive” interpretazioni e i fraintendimenti
apparsi in “occidente” all’uscita dei suoi
primi romanzi, come è noto La plaisanterievi.
La prima ricezione di Kundera è stata infatti guidata
dal contesto politico ceco ed è nata così sotto
il peso schiacciante della lettura politicizzata: Kundera è etichettato
fin dall’inizio come autore dissidente e, quel che è peggio,
la sua dissidenza è considerata come garanzia di autenticità.
Lo dimostrano gli innumerevoli articoli pubblicati all’uscita
del primo romanzo di Kundera, Zert, in traduzione
francese,
La plaisanterievii.
Autori politicamente schierati e culturalmente influenti come
Sartre e Aragon non faranno che incoraggiare questo tipo di
(dis)letture, inserendo i primi romanzi di Kundera, soprattutto
La plaisanterie, nel quadro della “littérature
de dénonciation”.
Forse è utile ricordare che le circostanze di pubblicazione
del romanzo hanno avuto un peso importante nella sua ricezione:
la prima edizione francese de La plaisanterie appare infatti
i primi giorni di settembre del 1968, solamente qualche settimana
dopo l’occupazione sovietica della Cecoslovacchia.
E dunque scontato che la lettura politica sarà la prima
ad imporsi, basti pensare al modo in cui La plaisanterie è presentato
al pubblico francese : “La Plaisanterie. Un
roman-témoignage
sur la Tchécoslovaquie des années «staliniennes»viii.”
E ancora : « Roman idéologique par excellence.
L’écriture et l’action n’y représentent
que peu de chose.ix» Senza dimenticare la prefazione
di Aragon per l’edizione del 1968, che preferisce parlare
della recente occupazione sovietica piuttosto che delle caratteristiche
intrinseche del romanzo di Kundera.x
Possiamo dunque capire l’odio dell’autore per ogni
lettura politicizzata, capace, a volte, di distruggere l’azione
del romanzo, così come lo stile dello scrittore.
Lo scrittore stesso confessava in un entretien apparso su The
New York Times del 1984:
If
I write a love story, and there are three lines about Stalin
in that story, people will talk about the three lines and
forget the rest, or read the rest for its political implications
or as a metaphor for politics.xi |
A partire dagli anni ottanta, la critica cercherà di
cambiare la propria prospettiva d’analisi, ma i fraintendimenti
interpretativi de La Plaisanterie avranno ormai profondamente
segnato Kundera, che per evitare l’eccessiva influenza
della Storia nei suoi romanzi, si impegna sempre più a
sottolineare il suo uso limitato degli eventi storici nella
narrazione – atteggiamento che sarà definito da
Jocelyn Maixent come « réalisme parcimonieuxxii» – fino
ad affermare il suo totale disprezzo per la « peinture
de l’époque ».
Questa repulsione si traduce nei romanzi successivi a La
Plaisanterie attraverso una « économie maximale » degli
avvenimenti storici: il romanziere non vuole dare peso alla
loro portata politico-storico-sociale, se non in quanto « laboratoire
d’observation de l’existence humaine ».
Dal mito dell’esilio all’esilio liberatore
Il termine esilio nell’accezione comune evoca naturalmente
il concetto di allontanamento e di soggiorno forzato in un
paese straniero. In realtà, non si tratta che di una
delle molteplici sfaccettature del termine, spesso oggetto
di un processo di semplificazione. Per diversi scrittori émigré il
termine non si carica infatti solamente di elementi negativi. È il
caso di Kundera che affronta il tema distruggendo il mito sovrano
dell’attaccamento al paese natio e della malinconia dettata
dall’impossibilità del ritorno.
Tracciando una mappa del percorso evolutivo di Kundera, è necessario
sottolineare che lo scrittore non fu mai costretto ufficialmente
all’esilio : non è che nel 1975, dopo l’eliminazione
dei suoi romanzi dalle librerie e biblioteche, che viene lasciato “libero” di
partire per occupare temporaneamente la cattedra di lettere
all’Università di Rennes. Nel primo romanzo scritto
in esilio, Le livre du rire et de l’oubli, si percepisce
il dolore dell’émigré, la nostalgia per
il paese perduto : nel mélange tra personaggi fittizzi
e reali, tra avvenimenti storici e inventati, il lettore intravede
il dolore dello scrittore da poco allontanatosi dal paese natale,
unito alla nostalgia per una Praga del passato, sospesa tra
sogno e realtà. In un passaggio successivo del romanzo,
Kundera racchiude il concetto dell’abbandono del paese
natale nell’immagine del “cerchio magico”,
un cerchio che si richiude su se stesso, una volta che lo scrittore
si è allontanato. La forza centrifuga allontana inesorabilmente
l’émigré dal suo paese: la vita nel paese
natale è “cerchio magico”, rete protettiva,
autosufficiente e a se stante, immagine della sicurezza, della
continuità e della completezza, che ha in se stessa
e per se stessa ragion d’essere. L’immagine del
cerchio suggerisce quella dei pianeti, trattenuti al loro sole
dalla forza centripeta. Per un processo metonimico la persona
che se ne allontana diviene une météorite arrachée,
e non potrà più rientrare nel cerchio.
Il tema dell’esilio, unito a quello della caduta, lungi
dal richiudersi su se stesso, ritorna in molti altri romanzi,
per esempio L’insoutenable légèreté de
l’être, in cui vediamo sostituirsi al cerchio magico
lo “spazio vuoto”, unico spazio offerto dal nuovo
paese, e troviamo un nuovo sviluppo dello stesso tema: l’esilio
vissuto come caduta.
L’esilio rimane dunque luogo di abbandono per eccellenza?
Nell’ultima parte de Le livre du rire et de l’oubli si incomincia a percepire un cambiamento di prospettiva. Il
protagonista di quest’ultima parte, Jan, diviene infatti
tristemente consapevole del carattere illusorio del suo attaccamento
alla patria. Lo stesso distacco è ripreso nei romanzi
a seguire, in maniera indubitabile ne L’insoutenable
légèreté de l’être, nell’atteggiamento
iper-critico di Sabina verso altri esuli suoi compatrioti,
con i quali non ritiene di avere alcun punto in comune.
Ciò che si sta via via disegnando in modo sempre più evidente è dunque
un allontanamento dal paese d’origine, accompagnato ad
un nuovo atteggiamento nei confronti dell’esilio. I romanzi
che seguono Le livre du rire et de l’oubli, riflettono
infatti la nuova consapevolezza dell’autore.
L’ebbrezza degli apolidi
È nel 1979, subito dopo la pubblicazione de Le
Livre du rire et de l’oubli, che Kundera è privato della
cittadinanza cecoslovacca e si trova così a sperimentare
l’ebbrezza degli apolidi, ebbrezza che trova il suo specchio
nella produzione romanzesca dell’autore. Improvvisamente
sciolto dalle aspettative di un pubblico immediato, Kundera
sperimenta una nuova liberta narrativa. Di questa liberazione
improvvisa parla in un incontro con Ian McEwan:
The
idea of a French public, though, or the public of every
country other than my own, was something abstract, something
unknown. Paradoxically, this turned out to be liberating.
Your immediate public has its demands, its tastes; it exerts
an influence on you without your being aware of it. The
public annoys you too, especially in a small country, because
all of a sudden it knows you. So in the two novels I wrote
after being banned I felt very free. I was free from censorship
because I was no longer being published in my own country,
and there was no longer pressure from the public.xiii |
L’allontanamento da un pubblico immediato si traduce
altresì con un distacco emotivo rispetto agli avvenimenti
che segnano il paese natale, donando all’autore uno sguardo
più lucido e rigoroso e una capacità di analisi
maggiore, che trova il suo riscontro in una prosa disincantata
e asciutta.
Praga diviene “l’altro paese”xiv.
Al distacco che produce l’improvvisa libertà narrativa,
si aggiunge poi ciò che Julia Kristeva definisce “insolite
libération du langagexv” : senza
gli obblighi comunicativi e i tabù linguistici che imbrigliavano
le parole della lingua natale, lo scrittore émigré diviene
un interlocuteur intrépide, capace di audacie
linguistiche imprevedibili, che coinvolgono la sfera emotiva
fino a raggiungere
il suo fulcro, l’erotismo. Ma questa sorta di leggerezza
della parola non tarda a mostrare il suo rovescio insostenibile. “La
langue étrangère” continua Kristeva “demeure
une langue artificielle – une algèbre, du solfège –,
et il faut l’autorité d’un génie
ou d’un artiste pour créer en elle autre chose
que des redondances factices.xvi”
L’opinione è condivisa dallo stesso Kundera, che,
nella sua “arithmétique de l’émigration” descrive
come l’abbandono del paese natale possa generare un effetto
di vuoto che, per poter essere colmato, richiede tutta l’astuzia
dello scrittore:
[…]
pour un romancier, pour un compositeur, s’éloigner
du lieu auquel son imagination, ses obsessions, donc ses
thèmes fondamentaux sont liés pourrait causer
une sorte de déchirure. Il doit mobiliser toutes
ses forces, toute sa ruse d’artiste pour transformer
les désavantages en atouts.xvii |
Dalle considerazioni fino ad ora fatte sul termine “esilio”,
ciò che emerge non è dunque una definizione lineare,
ma al contrario un quadro complesso, anamorfico, à facettes
multiples. Se da un lato ciò che affiora è un’evidente
effet de distanciation che rende possibile una libertà narrativa
e linguistica importante di cui nutrire l’opera letteraria,
dall’altro non può non emergere il temuto effet
de vide i cui svantaggi possono essere trasformati in carte
vincenti solo a patto di essere provvisti di genio artistico.
Vediamo in che modo Kundera ha sfruttato e sviluppato la sua
esperienza:
J’ai
compris seulement plus tard que le communisme me montrait,
dans une version hyperbolisée ou caricaturale, les
traits communs du monde moderne. […] De ce point
de vue, l’expérience du communisme m’apparaît
comme une excellente introduction au monde moderne en général
; elle m’a rendu plus sensible aux phénomènes
absurdes qu’on est prêt à percevoir,
ici, comme une innocente banalité ou comme un attribut
nécessaire de la Sainte Démocratie.xviii |
Ecco dunque Praga trasformarsi in un laboratorio che mostra
in modo iperbolico gli onnipresenti problemi dell’esistenza
umana : l’esperienza dell’esilio, dopo la nostalgia
così evidente in Le livre du rire et de l’oubli, è stata
anch’essa trasformata in atelier littéraire.
L’epopea del Non-Ritorno
Il tentativo kunderiano di superare l’effet de vide passa anche per la demistificazione del tema sacro dell’esilio:
con il suo celebre scetticismo e l’ironia sferzante,
che non lascia spazio a facili drammatizzazioni, l’autore
cerca di sfatare il mito, tracciando con il suo ultimo romanzo,
L’Ignorance, l’ultima tappa di un viaggio polimorfo,
che parte dal suggestivo mito del Grande Ritorno in patria,
per arrivare all’affermazione radicale della sua impossibilità.
L’ignoranza di Milan Kundera è una vera e propria « epopea
del non-ritorno ».
La trama sfrutta il tema – caro alla letteratura francofona – del
ritorno al paese natale, che non tarda a trasformarsi in retour
raté: la storia è infatti quella di due émigré cechi
che, dopo la caduta del rideau de fer, fanno ritorno a Praga
per scoprire di esservi divenuti totalmente estranei. La presa
di coscienza sarà diversa per entrambi, per entrambi
sottilmente crudele: l’ironia sferzante di Kundera non
lascia scampo, né spazio a maschere lacrimevoli. Letta
nel suo insieme, l’opera di Kundera ci mostra così un
viaggio che parte da una presunta “Festa del ritorno” per
arrivare all’affermazione di un ritorno mancato o semplicemente
impossibile. Se già L’insoutenable légèreté de
l’être affermava l’impossibilità dell’eterno
ritorno nietzscheano, L’Ignorance, sottolinea l’impossibilità del
ritorno tout court.
Il tema è comune a molti autori francofoni, ma l’abilità di
Kundera sta nel gioco di specchi che costruisce con il suo
particolare stile narrativo. Come negli altri suoi romanzi,
Kundera sfrutta qui la tecnica del contrappunto romanzesco,
mutuato dal linguaggio musicale, che consiste nel sovrapporre
diverse linee narrative, per fonderle in un’intricata
struttura polifonica. Ne emergono le molteplici voci di una
realtà sfaccettata e instabile, che non può più essere
narrata in modo lineare.
Il risultato è un romanzo di impatto immediato, in cui
le diverse linee narrative si fondono in un orchestrazione
perfetta. Immediata è anche la presa di coscienza dell’impossibilità del
ritorno.
Non si tratta tuttavia di un’impossibilità carica
di elementi altamente drammatici.
L’esilio, luogo doloroso per eccellenza, viene infatti
smembrato e trasformato dall’ironia caustica di Kundera.
Per demistificare i topoi della nostalgia dell’émigré e
dell’esilio distruttore, Kundera si serve di un’idea
di Vera Linhartová, poetessa ceca « aux semelles
de vent » émigrée in Francia, viaggiatrice, « nomade »,
che esprime una visione del tutto singolare dell’esilio.
La sua posizione provocatrice e allo stesso tempo lucidissima è ripresa
da Kundera in un articolo apparso su Le Monde il 7
maggio 1994, sotto il titolo “L’exil libérateur” nel
quale l’autore affermava “Lo scrittore è prima
di tutto un uomo libero, e l’obbligo di preservare la
sua indipendenza da ogni costrizione supera qualsiasi altra
considerazionexix”. In questo articolo Kundera
sembra davvero appropriarsi delle parole di Linartova : la
libertà dello
scrittore nei suoi movimenti (geografici, linguistici, letterari)
insieme alla distruzione del mito “sacro” dell’esilio,
sono in effetti temi centrali nella sua opera. La volontà estrema
di libertà e indipendenza, unita ai vantaggi apportati
dal cambiamento di prospettiva, era già presente in
altri articoli e interviste rilasciate da Kundera, che già nel
1980, dichiarava a Philip Roth: “For a writer, the experience
of living in a number of countries is an enormous boon. You
can only understand the world if you see it from several sides.xx”
Nel suo saggio sulla persistenza della memoria in esilio, Hana
Pichova ha spinto ancora più lontano l’idea di
polivalenza e moltiplicità di visione : secondo le parole
di Pichova, ogni émigré gode di una visione vantaggiosa,
la cui doppia coscienza permette una visione multipla e multiforme,
ossia una sopra-visione.
Sarebbe dunque estremamente riduttivo considerare l’esilio
solamente come “luogo doloroso”.
Tutte le dichiarazioni di Kundera si muovono dunque nella stessa
direzione, quella di sfatare i topoi letterari iper-sfruttati
a vantaggio di una libertà narrativa, creativa, artistica
tout court, che superi i limitanti orizzonti delle distinzioni
fatte in base all’appartenenza geografica o geopolitica.
Rifiutando la romantica idea dello scrittore dissidente, Kundera
vuole sottolineare anche la propria volontà di trascendere
e sormontare i ristretti confini delle letterature nazionali,
per proclamare la sua appartenenza alla cultura europea.
Quale patria per lo scrittore émigré?
Come lo stesso Kundera ha affermato, solo il cambiamento
di prospettiva permette la comprensione della realtà nella
sua complessità.
Vivere “in-between”, non comporta dunque necessariamente
solo lati negativi, e può indurre al contrario ad una
maggiore consapevolezza esistenziale. Il nostro percorso nella
complicata topografia dell’emigrazione, ci ha portato
a delineare una doppia definizione di esilio: non solo luogo
doloroso per antonomasia, ma anche terra di libertà narrativa
e linguistica di cui nutrire l’opera letteraria stessa.
L’esilio è così trasformato in strumento
di analisi che consente uno sguardo lucido e disincantato sulla
realtà e agevola l’opera di demistificazione di
falsi miti e verità imposte.
La vita “entre-deux” si caratterizza proprio per l’assenza
di una verità univoca e imposta: ad ogni immagine cristallizzata della
realtà ne viene sostituita una nuova e versatile, frutto dell’osservazione
da prospettive e punti di vista originali. Come scrive Hana Pichovaxxi, l’émigré acquisisce
una polivalenza esistenziale che gli consente di effettuare operazioni di collegamento
e scambio: egli è figura-ponte tra culture e realtà diverse, capace
di apportare ad entrambe elementi di novità. In questo senso la prospettiva
dell’émigré diviene caleidoscopica, nel senso originario
della parola.
Se l’attaccamento ancestrale al paese natio è sfumato, confondendosi
con il nuovo legame dell’émigré al pays d’accueil,
quale patria resta, dunque, allo scrittore émigré?
Il nostro studio si chiude sulla definizione di appartenenza che ci è data
dallo stesso Kundera: con il percorso tracciato dalla sua opera, l’autore
finisce per affermare un singolare “chez-soi” che non si trova nelle
carte topografiche, ma piuttosto nell’universo del romanzo, definito dall’autore “la
sua unica vera patria”. Così come Kundera lo concepisce, il romanzo è infatti
l’espressione più profonda dell’arte europea, una lente d’ingrandimento
che evidenzia i fenomeni storici e sociali e finisce per disegnare “la
carte de l’existence humaine”xxii.
In esilio, Kundera disegna per se stesso la sua terra d’appartenenza, ricavandola
tra le pagine dei grandi romanzi europei. Leonardo Sciascia ha scritto “il
nome di uno scrittore, il titolo di un libro, possono a volte, e per alcuni,
suonare come quello di una patria”.
Quale patria, dunque, per lo scrittore émigré? La risposta di Kundera è banale
quanto veritiera. Nessun’altra patria all’infuori dell’eredità di
Cervantes.xxiii
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