IMAAN
Ubax
Cristina Ali-Farah
Come
bianchi frammenti sparsi dall’irruenza del mare sulla
costa, spuntano gli edifici somali, candide mura di città litoranea.
La spiaggia farinosa, periodicamente sommersa dall’alta
marea, cela meravigliosi e variopinti indizi di vita marina.
Fanciulli esili e bruni scrutano i misteri del mare.
Attendono pazientemente il granchio sbucare dalla sabbia rovente.
Osservano abbandonate dall’ultima onda piccole lucertole
azzurre. Ma la gioia è al culmine quando il mare si ritira
per molti chilometri e a piedi si raggiungono piccoli scogli
emersi colmi di spugne multicolori e di conchiglie abitate. Talvolta
imprigionato in una fessura scoprono un piccolo acquario...il
mare è un’inesauribile fonte di vita.
E avanza rapido, ricopre tutto, tiepido e olioso: ragazzi, è ora
di tornare a casa, giocheremo a pallone domani. Il tramonto,
viola rosso giallo arancio verde indaco porpora e azzurro sorprende
i più piccoli che si affrettano verso casa nell’inutile
tentativo di trovare una pozzanghera d’acqua dolce per
liberarsi dal sale marino. Invano le madri constatando il gusto
salato della loro pelle, preannunciano mostruose apparizioni
di demoni marini o di sirene crudeli.
L’acqua marina è ormai nel loro sangue e lo spirito
liquefatto non resiste al richiamo del mare... mare vita...mare
morte... Speculatori arrivano anche a Mogadiscio.
Infranta la barriera corallina per costruire un nuovo ed inutile
porto, inaugurato un moderno macello sulla spiaggia, sede di
macabri riti automatizzati che convogliano il sangue in direzione
della Mecca. Odore di mare, odore di libertà: la baia è presto
covo di piccoli e voraci squali. Tardi ci persuademmo di averla
persa per sempre, dopo mesi che il mare restituiva corpi martoriati
o membra amputate. Allora terribili e improbabili demoni ripopolarono
le acque del mare. Maestose onde si infrangono su macilenti e
muschiosi edifici... ora sembrano braccia protese... Non voglio
venire mare, non sei più tu mare-vita, mare-madre, ti
riconosco, sei mare-morte.
Squamosa
la tua pelle impregnata di salsedine, mentre inebetita osservavi
il castello proibito. Con il capo inclinato: occhi di gazzella,
bocca di petalo, ti dissi che appartenevi alla terra ma tu
sorridesti.
E leggevo le tenere frasi che lasciavi ai passanti sui bianchi
muri di calce.
Imaan, sognavi con il principe triste di abitare il castello
del porto, e vedevi con occhi lucenti le grandi finestre scavate
da cui irrompevano i raggi abbaglianti. Le pareti tinte d’azzurro
e l’acquario rotondo popolato da sirene e meduse. Un
giorno, per caso, incrociasti quegli occhi umidi e bruni.
Chiedevi alla piccola venditrice un fresco ghiacciolo di latte.
Un sordo odor di carbone permeava il sapore dell’aria.
E tu scorgesti quel viso, tra tanti simili e stanchi, quel
viso tenero e adulto su un corpo che adulto non era.
Passarono allora degli anni nei quali entrambi cresceste, e in
un giorno di quelli infernali in un campo di polvere e sassi,
lo vedesti rincorrere forte, una calza riempita di stracci. Era
bello fermarsi a guardare dei giovani alti e potenti giocare
con tanto fervore una simile partita di calcio.
Infine prendesti coraggio e garbata e sottile ti apprestasti
al principe triste.
Allora con voce ritmata cominciò a narrarti una storia,
una storia antica e paurosa, una storia di quelle che sempre,
nelle notti umide e scure, si usa raccontare per gioco, seduti
sulla stuoia di paglia. Giungeste la sera profonda su un ampio
terrazzo marino. In tempi recenti e migliori era stato di un
albergo elegante che per noncuranza e abbandono era ora ammuffito
e cadente. Nel freddo cemento poroso, una vasta e quadrata piscina
brillava di bianco riflesso. E da un sipario strappato, un ampia
farfalla di stracci, spiccò un volo malfermo sparendo
nella luna dorata. Chinato con lampada in mano un vecchio ossuto
e possente cercava con i piedi in ammollo rari esemplari marini.
E voi continuavate a parlare, a narrarvi degli anni infelici
vissuti soli e lontani.
Ricordo i pomeriggi assolati in cui all’ombra di un sasso,
con fare umile e schivo scrivevi le lettere scarne su un bianco
foglio rigato. Ma prima che tu lo pensassi, con testa colma e
fervente, ti chiedeva ( il principe triste) se rimandavi la lezione
a domani. Con più pazienza avrebbe ripetuto, con voce
limpida e forte i suoni dei simboli oscuri.
Ma accadde un giorno per caso, che con mano forte e insicura,
provasse su un foglio biancastro a copiare un grillo parlante.
E con suo grande stupore, si accorse battendo le mani che era
identico al primo. Allora con occhi raggianti, narrò (
povera Imaan!) la storia del fratello scultore, a cui il padre
ottuso e ignorante aveva interdetto l’amore.
Anche nel giusto Corano era proibito copiare quello che Allah
di creare aveva finito da poco. Ma l’artista nobile e solo
non visse abbastanza per dirlo, che Dio quantunque ci sia, tra
il cielo e l’arcobaleno, non può che guardare con
gioia degli esseri miseri e brevi, tentare con simile amore guardare
le cose del mondo. E questo perché un triste giorno, di
festa di buio di rabbia, con indosso la camicia migliore e il
brillante orologio saudita, ad un vecchio ponte del porto, con
gli amici del suo quartiere, decise di andare a pescare. Ma le
pietre marce e insicure, cedettero al misero peso, e nell’acqua
scura e nebbiosa trascinarono i poveri corpi. Al fragile principe
triste il mare non restituì che parte, del fratello
scultore.
Al polso, pulsante e intatto spiccava l’orologio saudita.
E siccome nei giorni di festa, amava portarselo in giro, decise
il padre blasfemo di lasciarglielo in fondo alla tomba. Ironica
e crudelissima sorte, ché in vita mai ebbe un orario,
mentr’ora il tic tac ossessivo, l’ accompagna ben
oltre la morte. Imaan sensibile e oscura, udì il triste
racconto, mentre con mente insicura pensava al gesso scolpito.
E vedeva il pesante pontile crollare addosso ai ragazzi, e
le onde crudeli e violente aggrapparsi ai teneri polsi. Ma
tanto
ossessivo il pensiero, che finì con l’impazzire.
Impazzì per la furia del mare, perché con tanta
veemenza nella sua vita irrompeva.
Fu così che fuggiasca e in delirio, la vidi con mano tremante,
portare alle morbide labbra pugni di sabbia marina e terra del
povero orto. Non lo fece per ammalarsi e morire, ma per far parte
del mondo dei boschi, trasformarsi in un fragile fiore e protendere
alla luce solare le membra umide e vive. Ma capitò che
con la terra inavvertitamente ingoiasse un seme.
Ubax
Cristina Ali-Farah è nata a Verona nel 1973
da padre somalo e madre italiana.
È
vissuta a Mogadiscio dal 1976 al 1991, quando è stata
costretta a fuggire a causa della guerra civile scoppiata
nel paese. Si è trasferita per alcuni anni a Pècs,
in Ungheria, e in seguito a Verona. Dal 1997 vive stabilmente
a Roma, dove si è laureata in Lettere presso l’Università La
Sapienza.
Lavora da diversi anni come mediatrice culturale presso numerosi
istituti scolastici e organizza corsi di formazione rivolti
ad educatori. Le varie attività svolte ruotano soprattutto
intorno al tema del racconto e a quelli della letteratura
postcoloniale e della migrazione.
Ha lavorato come operatrice in due centri ludico-educativi
per bambini e adolescenti nella favela di Sapopemba a São
Paulo, in Brasile.
Si è occupata della redazione degli Atti della Quattordicesima
edizione degli Incontri internazionali di Castiglioncello, "Il
bambino s/confinato" (10/11/12 maggio 2002).
Negli ultimi anni collabora con il dipartimento di linguistica
dell’Università di Roma Tre, che realizza studi
sulla linguistica somala, ed attualmente si raccogliendo
e rielaborando interviste rivolte a donne straniere che abitano
a Roma.
Ha pubblicato alcuni racconti nella rivista "Caffè" e
in diverse antologie.
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