SCRIVERE IN VERSI
Gabriella
Sica
( – Nota
alla nuova edizione, Roma 17 gennaio 2003 –)
Questo
libro sulla metrica non ha come fine la metrica, ma la persona.
Ce ne sono tanti di trattati: io ho solo cercato di rendere
più umana la metrica, perché apprendendo i rudimenti
di questa scienza voi lettori possiate giungere più facilmente
e più attrezzati a riconoscere la vera scienza che è la
poesia e a considerare la poesia come una delle cose più umane.
Non ho scritto questo libro per gli studiosi e gli esperti,
ma per gli amanti della poesia e per i giovani. La lettura
di una poesia cambia non il mondo, ma la nostra vita, anche
soltanto un po’. Il fatto che risvegli una memoria, illumini
una situazione, crei un pensiero o un turbamento trascina comunque
ad un piccolo cambiamento, porta in noi lettori un piccolo
annuncio. Ci prende del tempo, ma ce lo restituisce più ricco.
Scrivere in versi non è un libro divulgativo sugli argomenti metrici e
per lo studio formale, tecnico della poesia. Forse è unico nel suo genere,
e un po’ eretico. Così come, oggi, è scandaloso nutrire un
atto di fiducia verso il lettore, scandaloso ogni sforzo per comunicare pensieri
e sentimenti, per costruire dove la tendenza e il vanto sono per il distruggere.
Nello scriverlo sono stata mossa più dall’amore per la poesia che
da interesse filologico o troppo tecnico, dalla mia voglia di essere chiara e
semplice. Mi sono sforzata di avere un certo tatto lessicale perché la
lettura fosse più semplice e accogliente: non volevo abusare di alcun
potere didattico per quanto piccolo. Volevo che ci fossero tutte le informazioni
necessarie, ma che queste giungessero al lettore con lo stile, a me caro, della
familiarità.
Del resto non c’è un modo di spiegare una poesia, né si potrà mai
spiegarla del tutto. Quando fu chiesto a Schumann di spiegare un suo brano musicale
complesso, egli si limitò a mettersi al pianoforte per suonarlo ancora.
Ma per suonare aveva studiato, perché non c’è poesia senza
studio. E lo studio serve a ridiventare semplici, a togliere più che ad
aggiungere, a eliminare la ruggine dall’anima per renderla più leggera.
Allora, la poesia, come la musica, si fonda su un’aritmetica segreta dell’anima
che non sa di contare. Quando scrivo un verso, io vado a orecchio e non so più niente
di regole. E se ne comincio uno, non mi rimane che affidarmi a Dio per finirlo.
Così come un lettore, conosciute le regole, dovrà dimenticarle
per leggere davvero una poesia. E lo stesso Aldo Menichetti, illustre metricista
italiano, a proposito di sineresi e dieresi, che sono le cose metriche più difficili,
scrive che si tratta pur sempre di norme metriche molto discutibili e sfuggenti
e che ogni poeta può interpretare a modo suo, facendone licenza poetica.
Alla fine, i poeti hanno sempre fatto la dieresi dove più aggrada loro,
anche se i filologi si accapigliano per accaparrarsi la maggiore “scientificità” possibile.
Essere in dieresi con il mondo, questo sì mi parrebbe peccato più grave.
Del resto non riesco a sentirmi maestro neanche un po’, troppo occupata
come sono a essere un discepolo della vita e fare errori tutti i giorni e scontare
debolezze. Tuttavia questo è il mio libro più “educativo”.
L'ho scritto per i giovani, d’età o per spirito, e, per una volta,
anche per i miei studenti e pensando a loro, non per fare concorsi. Quando è uscito
nella primavera del 1996, forse è sembrato a qualcuno “facile”,
ma, adesso, a distanza di sette anni, in un’università trasformata
dalla riforma, è diventato probabilmente più impegnativo. Ma spero
che sia comunque un aiuto ad affrontare una materia da sempre considerata ostica.
Perché non sia fine a stessa, ma una strada per arrivare alla poesia.
A rileggerlo, c’erano nel libro alcune reticenze, di tipo tecnico e a volte
perfino sintattiche, per necessità e per la mia predisposizione alla brevità.
E c’era una scelta di fondo: nell’affrontare le forme della tradizione
mi sono limitata a seguire il canone metrico del Canzoniere, il libro caro da
portare con sé tutta la vita. Francesco Petrarca mi ha guidato, presenza
invisibile e costante, e sempre mi ha accompagnato con il suo amore per gli antichi
nel cuore e il suo ordinamento nel giardino della poesia.
Perché un’altra caratteristica del libro è la continuità che
ho voluto privilegiare e sostenere tra il passato e il presente, tra gli antichi
e i moderni. Senza frapporre muri e distanze. Infatti ho esposto gli aspetti
delle forme metriche, che ho descritto così come si sono disposte lungo
lo scorrere dei secoli, dalle origini ad oggi. Il Novecento non è stato
il secolo egocentrico e chiuso in sé, come viene a volte presentato. Il
passato è comunque il contemporaneo, e rivive in nuove e vitali forme,
anche ai nostri giorni. Inoltre, per mantenere questa continuità, in questa
edizione aggiornata e ampliata di Scrivere in versi, ho aggiunto un capitolo,
Sul metro nuovo: all’alba di un secolo. Un capitolo difficile, che altri
potrebbero svolgere. Perché la poesia degli ultimi venti, venticinque
anni, a cavallo dei due secoli, continua a rimanere un mondo sommerso e inesplorato;
le voci poetiche, sebbene già chiare ed evidenti, non sempre sono riconosciute,
anche perché è complicato districarsi tra le varie tensioni “comunali” in
cui sembrano versare la nuova poesia e i diversi e confusi orientamenti critici.
Tra i lettori della precedente edizione, con mio grande stupore, ha suscitato
curiosità e interesse imprevisto una figura della mia infanzia viterbese,
Palma Frattarolo, la pastora contadina che recitava Dante e Tasso a memoria come
esercizio di respirazione e di vita. Sebbene ne facessi appena un cenno nelle
pagine del libro dedicate alla poesia popolare, la sua presenza si deve essere
fatta sentire anche nelle altre pagine, a portare suoni che scardinano e vibrano
in profondità, nella mente e nella memoria. Deve aver incantato quella
figura appartenente a un’Italia scomparsa eppure estremamente reale, come
quei mondi che diventano concreti, fatti di materia, generati dai poeti del passato.
Una figura che, nell’immaginazione, si è fatta vera, come quella
di altri pastori, di altri coltivatori di grano e ulivi, come il verso d’un
uccello o il fruscio di un bosco. Come le idee che diventano vere e toccano nell’immagine
concreta.
Sono passati sette anni dalla pubblicazione di Scrivere in versi, anni di rivoluzioni
tecnologiche. Si sono improvvisamente diffuse le poesie brevi e fulminanti inviate
in sms e che appaiono sui display dei cellulari, poesie ancora in rima dove cuore
torna a fare rima con amore. Le immagini e i suoni sembrano avere il sopravvento,
e si fa strada l’illusione che la poesia possa trasformarsi in visione,
le parole in immagini o suoni. Eppure l’euforia delle nuove tecnologie è già finita
ed è ormai evidente che internet è solo uno strumento e non la
salvezza. Il rilievo telematico della poesia non ha modificato la forza della
poesia su carta, ma anzi l’ha rafforzata, ha solo trovato nuove vie di
diffusione rapida e globale, anche quando i versi rivendicano una radice geografica
e spirituale.
Sono passati dunque sette anni. Noi siamo sempre al nostro posto, ubbidienti.
Ma sono stati anni difficili. La guerra è ripresa o è continuata
più aggressiva che mai in molti paesi, poveri e ricchi, e si è insinuata
in modo più sottile ma come sempre distruttivo in moltissime famiglie.
Il nuovo secolo, anzi, il nuovo millennio sembra aver presentato all’alba
e in modo spettacolare il suo annuncio di morte con il crollo delle torri di
New York e i muri che si sono di nuovo alzati, come se il passato non avesse
lasciato alcun insegnamento, e ogni rinascimento spirituale si dovesse sempre
rinviare e sempre aspettare e sperare. Eppure per me, che già ero oltre
il mezzo del cammino della mia vita, sono stati anni febbrili di lavoro e di
libri pubblicati.
Mentre sto licenziando questa nuova edizione, il rigore invernale è al
suo apice. E soffiano anche venti di guerra. L’esistenza pare dispersa
in frammenti che solo l’eroismo quotidiano permette di ricucire almeno
per qualche ora. La solidarietà culturale e spirituale è sempre
di più un sogno della giovinezza e più preziose sono le persone
che si amano. I compagni di strada non ci sono più, o almeno così sembra,
alcuni scomparsi anche se mai dal nostro cuore, altri occupati dalla famosa vita.
Per me è ancora un “inverno dello scrivere nemico”, stranamente
somigliante alla stessa stagione del 1995 in cui lavoravo a questo libro: due
inverni come i poli estremi di una separazione lentissima e sofferta e ancora
da consumare. E tuttavia un inverno mai della gioia nemico e dell’amore
per il mio tempo. Non ho più intorno bambini che balbettano, e a cui di
più somiglia la parola di Dio, ma ne sento l’eco viva. E mi regalano
ora la loro meravigliosa serenità e fanciullezza.
Nonostante il gelo, i fiori stanno spuntando, in anticipo sui tempi. Anche i
mandorli sono già in fiore. E mi accorgo che oggi, per una dolce coincidenza, è sant’Antonio
e mi piace festeggiare, come sempre, mio padre Antonio, alla cui memoria già prima
avevo dedicato questo libro più “serio” degli altri; e mi
piace festeggiare anche gli altri Antonio della mia “catena”. Dal
gelo di quest’inverno nasceranno altri fiori, dalla brina dei rami le gemme
e, come sempre, la primavera con le foglie verdi, con le sue nuove voci.
(da
Scrivere in versi - Metrica e poesia, Nuova edizione, Milano,
Il Saggiatore, 2003)
Gabriella
Sica è uno dei poeti protagonisti degli
ultimi venticinque anni della poesia italiana. Poesie
familiari,
vincitore del premio Camaiore, è il suo ultimo libro
di poesia, uscito da Fazi editore alla fine del 2001, dopo
La famosa vita (1986), Vicolo del Bologna (1992) e Poesie
bambine (1996). I suoi studi sulla poesia sono nel volume
Sia dato credito all'invisibile. Prose e saggi (Marsilio,
2000).
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