UN
RACCONTO
Giuseppe
Prezzolini
Era,
quella figura di prete, alta e solenne, e stava guardando dal
pulpito i suoi fedeli come un capitano le sue truppe in piazza
d’armi. La sua piazza d’armi era la chiesa del
villaggio d’Altobrè. Sotto la cima dominava il
colle e la pianura. Il Bassobrè era la cittadina dove
risiedeva il Municipio, la posta, il telegrafo, i carabinieri
o i negozi di mode. Altobrè era conservatore; Bassobrè mezzo
anarchico più che comunista.
Seduto entro il pulpito, il prete aspettava che tutti fossero
ai loro posti e non si udisse più strascicare di piedi
e di sedie, anzi nemmeno soffiate di naso. Tutti sapevano che
il padre non diceva parola finché tutto non fosse
quieto rispettando la parola del Signore. Se qualcuno arrivava
in ritardo,
il padre interrompeva la predica ed aspettava nella sua coffa
in silenzio; e quel ritardatario era seguito dallo sguardo
di tanti che si voltavano a guardarlo; una punizione peggiore
di
un rimprovero o di una allusione.
Quello storico giorno, dopo l’usata preghiera al Signore
che gli desse le parole adatte alle intenzioni del suo animo,
ed alla intelligenza del suo pubblico, Don Luigi iniziò con
una breve affermazione: “Siamo tutti fratelli”. Tutti,
non soltanto quelli del villaggio di sopra, della cittadina di
sotto, della capitale lontana, ma del mondo intero. Siamo fratelli
dei cittadini che parlano una lingua o un dialetto diverso, di
quelli che hanno la pelle di color nero, o giallo, o marrone,
di quelli che eran venuti come vincitori e conquistatori. E poi
di quelli che sono d’un altro partito, e poi di quelli
che seguono un’altra religione più antica o più moderna
del sublime sacrificio di Gesù; ed anche di quei disgraziati
che in nulla credono.
Fra quelli che non mancavano mai alle prediche del parroco
c’era
Feligetto, che tutti sapevano era il suo preferito.
Feligetto era il figlio di ignoti che quattordici anni prima
l’avevan lasciato appena nato una notte alla porta della
chiesa, ed era stato allevato per carità del Municipio
e di qualche possidente, dopo che un rappresentante dello Stato
gli aveva imposto, forse per disprezzo o per incoscienza, il
cognome di Ignoti. Feligetto Ignoti nacque con nulla, e si fece
una fama come il più intelligente delle scuole che
frequentava per obbligo, ma che sorpassava sempre per le
sue letture. Spesso
correggeva il maestro, con molto rispetto, alzando il ditino.
Il parroco l’aveva preso a ben volere e l’aveva scelto
come chierico, e dopo qualche anno, di lezioni private e gratuite,
fra cui il latino parlato, l’aveva nominato suo aiuto e
chierico in capo, responsabile dei poveri arredi che avevano
in sacristia e servivano nelle cerimonie più consuete
come i matrimoni, i funerali, le feste del Santo patrono. Era
intelligente, era preciso, era prontissimo. Capiva, ancor prima
di essere comandato, che cosa il parroco desiderava. Aveva presto
conosciuto l’esistenza di una Biblioteca Pubblica ed ottenuto
il prestito con la garanzia del suo patrono. Consumava i libri
uno dopo l’altro.
Quasi unico fra i ragazzi lombardi egli era biondo di capelli
e di una carnagione bianchissima e delicata come quella di
una donna.
Quel giorno gli uscì presto dalle labbra il soggetto
di cui voleva fare della predica. Parlava come se fosse un
santo,
e tale lo sentivano i suoi parrocchiani.
Era un parroco modello: preciso nell’ora delle funzioni,
frequentatore dei suoi parrocchiani malati, confortevole
con le famiglie dei morti, e teneva la porta del suo alloggio
sempre
aperta per chi voleva consigli. Tutti gli volevano bene e
specialmente Feligetto gli era affezionato.
“
Siamo tutti fratelli”. Da quella altezza, parlò con
la solita calma e precisione. Non c’era una parola,
non una frase che i suoi parrocchiani non potessero intendere,
ed
a quasi tutti, anche, muoveva il cuore oltre che la mente.
Toccava le loro intime faccende. Ricco di confessioni, ma
naturalmente
senza fare nomi, descriveva con frasi taglienti gli arcani
amori, le vergogne palesi, i mercati ignobili, le liti fraterne,
la
disobbedienza agli anziani, la superbia dei ricchi, la rivolta
dei poveri, il furto dei commercianti. Si divertiva a fare
dei piccoli ritratti nei quali ognuno riconosceva se stesso,
o pensava
a quello che sapeva del vicino.
Le case del paesetto erano separate da una strada maggiore,
come due grandi stazioni telefoniche comunicanti fra casa
e casa;
e finivano in due porte medioevali, che gli automobilisti
maledivano. Ogni comare conosceva quello che faceva il vicino,
le sue liti
casalinghe, le sue vanità, le sue traversie, le sue giornate
di fortuna, le sue aspirazioni, e le sue delusioni, i propositi
d’ingrandimento o le polverizzazioni delle attese.
Servendosi di questo materiale greggio e frantumato dalla
vergogna delle confessioni, il parroco poteva padroneggiare
come un
mago quella congrega ereditaria di gente minuscola, parte
paziente e parte impaziente, che finiva quasi tutta per cercare
nello
sfogo del confessionale e nella liberazione dell’assoluzione
condizionale una certa pace dal rimorso degli errori e talora
degli orrori nella loro intimità. Che mai aveva sentito
Padre Luigi! Viveva fuori del mondo, non andava a visitare nessuno
dei signori che possedevano ville e terre, semmai li aspettava
come gli altri dentro la grata; e quante ne aveva sapute, e a
poco alla volta; quando aveva imparato del come “si vive
nel mondo”. Anche lui da novizio aveva avuto delle tentazioni,
che aveva attribuito al demonio, e più tardi aveva represso.
Ma dietro quella grata, quante ingrate sorprese, anche per un
uomo sui quarant’anni come lui. Gli pareva che oramai non
avrebbe avuto più nulla da imparare degli uomini.
Gli pareva che la sua conoscenza sorpassasse quella dei Manuali
per
i confessori che dalla Controriforma in poi erano stati pubblicati.
Il parroco gli era molto affezionato e qualche volta si rimproverava
certe intimità di parole e più d’una volta
una conversazione prolungata che gli pareva ingiustizia verso
gli altri meno dotati di lui. Non sapeva resistere alla sua speranza
che sarebbe stato un giorno un credente capace di morire per
la Chiesa. “Ce n’è tanto bisogno!” si
ripeteva dentro di sé il parroco, guardando il suo pubblico
dove le teste nere e bionde non spesseggiavano fra le grigie
e le bianche. Poi ripensando a quante volte aveva abbracciato
e baciato quel garzoncello alla fine delle loro conversazioni
in latino e di dottrina e di storia sacra, sentiva dentro di
sé un tormento come se forse quella fosse un’industria
del diavolo che aveva prolungato quegli abbracci e quei baci
fraterni. Quante volte aveva carezzato d’estate le
sue braccia nude lodando la sua pelle.
Ma in fondo a queste riflessioni e confessioni restava intatto
un nucleo di disprezzo per l’umanità. Eccettuava
il suo Feligetto, che evidentemente Iddio gli aveva voluto porre
accanto, come la sua consolazione della mediocrità umana,
e che nel futuro avrebbe brillato per l’ingegno e per la
difesa della Fede. Con lui avevano esaminato i libri più pregiati
di negazione della religione ed erano soddisfatti degli errori
che vi avevan trovato. Ma alle volte gli veniva fuor dalle labbra
qualche riflessione: “Fra tutta questa marmaglia che io
conosco ho trovato soltanto un’anima pura. Fra tutti questi
ignoranti, che io in fondo amo perché è piacevole
vederli lottare con il diavolo e riuscir qualche volta a vincerlo,
desiderei di trovare qualche cosa di straordinario. Da vent’anni
che il vescovo mi mandò qui non mi è mai capitato
di avere avuto la confessione di un bel delitto. Un delitto con
i fiocchi. Per usare una di quelle particelle moderne che i contemporanei
rubarono ai Romani, avrei avuto, non oso dire una contentezza,
ma certamente una soddisfazione di poter sentir in confessione
qualche superpeccato. Alle volte, nelle mie preghiere mi rivolgo
al Signore e Gli domando perché mi ha creato per così piccolo
tribunale? Avrei voluto esser un grande santo; ma come si fa
ad esserlo con dei piccoli peccatori, che si contentano del furto
campestre, del mescolar di carte d’accordo col compare,
dell’adulterio, del frodare il dazio, o del picchiar la
moglie, del bestemmiare, magari senza intenzione d’offesa,
la nostra Santa Vergine Madre... Che cosa mi rimane? Quel briccone
che buttò dell’inchiostro nell’acqua benedetta
e tutti i parrocchiani n’ebbero le mani e le fronti annerite...
Mi piacerebbe qualche peccato sul serio, che avesse avvelenato
la suocera per ereditarne i beni, o che so io? Un brigante che,
dopo anni di sequestri e di furti alle automobili e alle ferrovie,
come si legge nei giornali, si fosse pentito al sentirmi parlare
e avesse abbandonato il suo covo e fosse venuto proprio in casa
mia come nei romanzi di Victor Hugo... Signore, fammi compiere
con la tua forza un miracolo, a qualunque costo... Ti offro le
mie membra, il mio spirito, e persino il mio onore... Retribuiscimi
anche con la maggior umiliazione del mondo: che si creda e si
dica che ti ho rinnegato perché leggo troppo...”.
Ora proprio in quel giorno, proprio alla fine dell’ora
della predica di don Luigi, quando la gente usciva dalla chiesa
e stata formando dei gruppi che commentavano quelle belle parole
di fraternità che il parroco aveva con tanta arte e convinzione
lanciato sul suo pubblico, si udì uno scoppio fragoroso.
A quell’appello alla comunità degli uomini, tutti
nati dalla stessa creazione e quindi, sia pur lontanamente, parenti,
era stato risposto con una bomba lanciata in mezzo alla folla,
ed aveva fatto un massacro. Si udivano grida di aiuto dei feriti,
si vedevano cadaveri distesi nelle pose più insolite per
terra, brandelli di membra attaccate agli alberi che avevano
perso tutte le loro foglie come se un vento le avesse strappate;
e come impazziti, parenti che cercavano i loro cari, e bambini
in cerca dei loro padri, o padri in cerca dei loro bambini. Il
massacro era stato organizzato con l’orologio alla mano.
Un’auto era stata vista arrivare.
Feligetto, il più sveglio di tutti, l’aveva vista
depositare davanti al portale della chiesa un pacco e partire.
Aveva notato la direzione e la strada che avevano preso quei
distruttori di vite. Si era impadronito di una motocicletta depositata
per caso nella piazza e li aveva inseguiti. Li aveva raggiunti.
ma più in là, pochi chilometri più in là,
il suo cadavere fu trovato, colpito da parecchi colpi di rivoltella.
I briganti avevano capito di esser stati scoperti, e avevano
voluto togliere il testimonio di mezzo. L’augurio di
Don Luigi per il suo prediletto si era avverato.
Egli era morto per la Chiesa, per la giustizia, per l’umanità.
Don Luigi fu l’ultimo a presentarsi, perché voleva
esser sicuro che nessuno fosse rimasto in chiesa per compiere
altri massacri. Piangeva. Era la prima volta che i parrocchiani
l’avevano visto piangere. Piangeva per il massacro?
Piangeva per Feligetto? Nessuno potrebbe dirlo. Ma certamente
si ricordava
di aver ripetuto dei passi di San Paolo che aveva citato
in chiesa: Beati quelli che vi perseguitano; benediteli e non li maledite...
Non rendete ad alcuno il male per il male... Non fate le vostre
vendette, cari miei, anzi date luogo all’ira, perciocché è scritto: – A
me la vendetta, io renderò la retribuzione – dice
il Signore... Vinci il male con il bene...”.
Ma Don Luigi non era quello che poco prima aveva predicato
il perdono del Male, e la correzione del Male con il Bene.
Non era
più il capitano che guarda le sue truppe obbedienti, era
davanti a qualche cosa che le confessioni dei suoi parrocchiani
non gli avevano rivelato”. Doveva indovinare.
Arrivavano intanto i pompieri, poi i carabinieri, poi le
ambulanze e i dottori che s’eran potuti trovare.
Don Luigi senti d’un tratto risorgere la sua missione.
Fu di qui e di là amministrando assoluzioni, ungendo fronti,
dicendo parole di conforto ai parenti dei morti. Faceva il suo
dovere. Però, dentro di sé portava l’immagine
di Feligetto. Che cosa sarà accaduto di Feligetto? In
un momento ebbe la forza di chiedere: “Dov’è Feligetto?”.
Gli risposero: “Non lo sappiamo bene. Corse dietro a quella
automobile che portò la bomba”. Il cuore di Don
Luigi dette un balzo. La sua creatura, la sua speranza... e finalmente
gli viene alla bocca quello che era nel suo cuore: “Il
mio amore”. In quel momento finale aveva scoperto il segreto
della sua vita intima, neppur a se stesso confessato. Il mistero
di quella ammirazione delle braccia dalla pelle bianca e delicata,
che così teneramente aveva a volte carezzato, alle volte
baciato, senza accorgersi di quel che faceva. Feligetto! Dove
sarà? Feligetto era fuori del mondo del desiderio. Feligetto
era morto per far arrestare, per vendicare il massacro dei suoi
compagni di scuola, dei suoi concittadini, dei suoi benefattori.
Ma per Don Luigi, Feligetto era un’altra cosa che non sapeva
spiegare, perché era superiore a tutto quello che
aveva sentito nella sua vita. Era la prima volta che si accorgeva
di
esser un uomo, e non un superuomo. Aveva per la prima volta
la prova che esiste un superpeccato. Era la prima volta
che la sua preghiera era stata esaudita.
Tutto quel che pensiamo nella vita, tutto quello che desideriamo è possibile.
Il mondo è un baraccone dove si entra con pochi soldi
per vedersi trasformati da uno specchio e per godere un istante
l’illusione dell’eternità.
Ho saputo che Don Luigi lasciò la parrocchia, si fece
frate d’un ordine severo sperando di trovar sollievo a
quel giorno che gli aveva rivelato di che cosa è possibile
l’uomo, ed a meditare sopra il problema se dobbiamo
punire coloro che offendono i partecipi alla nostra vita
terrena.
Fu deciso che la buca aperta da quella bomba non sarebbe mai
stata colmata; ma circondata da un muretto, tutti i visitatori
avrebbero potuto vederla e legger la lapide:
In questo luogo con infame artificio furono uccise il giorno
10 ottobre 1080, 13 persone e feriti 75 innocenti, colpevoli
soltanto di aver frequentato una chiesa e d’aver meditato
sulla fraternità degli uomini. I colpevoli furono invano
inseguiti da Feligetto Ignoti che coraggiosamente li inseguì,
ma non poté fermarli. Il suo nome significa coraggio e
sacrificio. Inchinatevi alla sua memoria.
Nella
sua lunghissima attività giornalistica e letteraria
Giuseppe Prezzolini non si era mai preso
il gusto di scrivere un racconto. La voglia gli è venuta
all’età di
98 anni (è morto nel 1982, a Lugano, poco dopo il
suo centesimo compleanno). Questo racconto rappresenta un “esordio” assolutamente
inatteso, pubblicato allora sul giornale “Il Resto
del Carlino”.
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