UN
VERO BIRYANI
Ardashir
Vakil
Era
un sabato sera, la settimana prima di Pasqua. La casa era vuota,
non avevo niente da fare, né un posto dove andare, né nessuno
da vedere. Questo breve momento di vuoto nella mia vita si
verificava grazie ad una rara combinazione di diversi fattori.
Mia moglie aveva portato i bambini a passare la notte da sua
madre, mia madre era andata nella Repubblica Ceca per un viaggio
di due settimane e la nostra inquilina era andata dai suoi
genitori a Bristol.
Devo dire, innanzi tutto, che ho una vita piuttosto impegnata
ed intensa. Troppo intensa. Vivo in una casa grande con altre
sei persone: mia moglie, i miei tre figli, tutti sotto i sette
anni, mia madre e un’inquilina che occupa il seminterrato.
Da poco mia moglie, donna dotata di un’eccessiva dose di
compassione, ha permesso a Linda, la nostra baby-sitter, di sistemarsi
per alcuni mesi nel mio studio, fino a quando si sarà ripresa
dallo shock subito per essersi separata da un marito violento.
La mia rabbia iniziale è stata sedata dal rapporto che
Linda ha con i nostri figli, dai pranzi deliziosi che prepara
e dal suo desiderio di ricambiare la nostra gentilezza accudendo
i bambini ben oltre l’orario di lavoro. Adesso ci sono
dei giorni in cui sento una punta di gelosia quando li sento
giocare tutti e quattro attorno alla vasca da bagno.
Mi guadagno da vivere scrivendo di affari esteri. Sono considerato
un esperto del subcontinente indiano e un conoscitore del Vicino
Oriente. Un giornale nazionale mi paga per curare e scrivere
dei pezzi per la loro pagina di notizie internazionali. Posso
fare l’orario che voglio, basta che io vada in ufficio
tutti i giorni. Quando mi capita qualche momento libero, butto
giù qualcosa sul mio blocco degli appunti, delle frasi
che spero un giorno si combineranno a formare un romanzo. Mia
moglie è capo dipartimento di inglese in un Istituto Superiore
caotico e sovraffollato ad Islington. Lavora a tutte le ore del
giorno nel tentativo disperato di tenersi alla pari con tutti
i cambiamenti del Programma Didattico Nazionale e per prevenire
le richieste degli Ispettori dell’OFSTED1. Anche quando
sogna non smette mai di preoccuparsi per il suo lavoro, promettendo
a se stessa, e minacciando me, di abbandonare ben presto l’insegnamento
per riqualificarsi o come avvocato o come giardiniere dei paesaggi.
I bambini sono ovunque nella nostra vita; creature che fanno
riflettere, sono come pepite d’oro che vanno ripulite e
pesate alla fine di una dura giornata di lavoro. Devono essere
lavati ed educati, bisogna dedicargli mille attenzioni e amarli,
danno un senso a tutto, ma rendono tutto il resto impossibile.
Soltanto un accenno a mia madre, una donna indiana Goan con un
approccio peripatetico ed autocratico, sostiene che i suoi nipoti
hanno bisogno della sua presenza (o forse bisognerebbe dire dei
suoi “presenti”) a casa, anche se non si trova mai
quando ce n’è maggiormente bisogno ed è sempre
lì a sostenere i suoi diritti come patriarca della famiglia.
Naturalmente i soldi non sono omai abbastanza per quello che
si vorrebbe fare: qualche cambiamento in casa, cacciar fuori
l’inquilina o comprare a mia madre un appartamento vicino
a noi. In una vita diversa saremmo stati banchieri e ci saremmo
goduti delle costose vacanze e avremmo avuto del personale pagato
bene e che si sarebbe accollato tutti i nostri oneri più gravosi.
Fin troppo spesso in questi giorni faccio un sogno ad occhi aperti
nel quale al bivio avrei scelto la via che portava a diventare
un finanziere della City o un banchiere. Come sarebbe stata la
mia vita se fossi entrato a far parte della Morgan Grenfell alla
fine dell’università, come hanno fatto molti miei
compagni di scuola? Quelli che lavorano per Arthur Andersen,
Nomura e Pepsi, quelli che hanno una vita a un solo binario,
un appartamento perfetto, senza figli e che si fanno quattro
periodi di vacanza all’anno.
Mi viene da paragonare la nostra vita famigliare ad una barca
instabile, con una vela rattoppata ed un secchio per vuotare
l’acqua che entra a fiotti dalle falle dello scafo. Ci
passiamo il secchio l’un l’altro e vuotiamo fuori
il mare. Nell’acqua ci sono degli oggetti di vitale importanza
che galleggiano verso di noi, come se fossero su quei nastri
da trasporto che si usano in certi giochi televisivi. Dobbiamo
cercare di arraffare dalle onde quello che possiamo e non disperarci
troppo quando delle opportunità d’oro si perdono
e scompaiono nella nostra scia. A volte, insonne nel cuore della
notte, vorrei gettare via il secchio, lasciar passare tutte le
cose essenziali e far affondare la barca già nell’acqua
scura; ma poi guardo il viso dei bambini, quando ridono e quando
ti fanno piangere e devo tener duro. Continuo a vuotare l’acqua,
a raccogliere, a vogare pagaiare e ad avanzare, in un modo o
nell’altro, nell’acqua torbida.
Di tanto in tanto esce il sole, le onde lambiscono dolcemente
i fianchi dello scafo, qualcuno trova la falla e la ripara, gli
altri vanno a farsi una nuotata, tu ammaini la vela stanca e
smetti di preoccuparti per i relitti che ti sono passati accanto.
Te ne stai nel mezzo del nulla e l’unica cosa che può fare è sedere
e fissare il vuoto.
Quel sabato sera d’aprile, una serata stranamente tiepida,
era proprio quello che ero seriamente intenzionato a fare. Mia
moglie, i miei figli, mia madre, se ne erano andati tutti per
una giornata intera. Mentre me ne stavo seduto lì ingannando
il tempo passando dai giornali del week-end ai canali televisivi,
cominciai a sentirmi sempre più inquieto, irritato con
me stesso perché mi sentivo inquieto, e arrabbiato con
me stesso perché stavo sprecando delle preziose ore di
vuoto. Non volevo vedere nessuno. Intrattenere una conversazione
mi pareva uno sforzo eccessivo. Non avevo voglia di stare a casa
a vedere la tele. Pensai di ascoltare un po’ di musica,
ma mi pareva che niente fosse adatto al mio stato d’animo.
O forse era il mio stato d’animo che non era adatto per
niente? Cercai un film dentro al quale rifugiarmi per un paio
d’ore. Il film che volevo vedere lo davano nel West End,
ma solo all’idea di trascinare le mie ossa per il lungo
tunnel della stazione della metropolitana mi sentii improvvisamente
stanco. Una voce insistente dal fondo della mia mente mi diceva: “Che
noioso sei, dovresti uscire e andare in qualche locale, o cercare
una festa o telefonare a un amico per andare al pub”. Peggio
ancora, un amico mi aveva invitato alla sua festa di compleanno
in un bar a Soho, ma non me la sentivo proprio. Mi pareva che
sarebbe stata una serata da cinema.
Dopo aver preso questa decisione, la cosa da fare subito dopo
era procurami qualcosa da mangiare. Scartabellai tra i vari menù dei
take-away fino a trovare il ristorante che stavo cercando. Ordinai
un biryani che dovevo andarmi a prendere io. Ho trascorso dei
periodi della mia infanzia nell’India occidentale che mi
hanno lasciato una predilezione a vita per il curry piccante
e le spezie intense. Purtroppo il novanta per cento dei ristoranti
e take-away indiani a Londra servono del cibo pessimo. Sono gestiti
tutti da bengalesi del Bangladesh che hanno colonizzato il business
della ristorazione negli anni cinquanta come i Tamils hanno colonizzato
quello dei chioschi delle stazioni di servizio e i Gujaratis
quello dei negozietti. In questi ristoranti è tutto a
base di un’unica salsa al curry che è uno schifoso
miscuglio color cacca di coloranti, spezie stantie e cipolle
stracotte. La carne, che spacciano per agnello, pollo o pesce,
viene bollita fino a farle sputare fuori tutta l’anima,
viene cotta in pentole separate e poi aggiunta a questa salsa
insipida e torbida. Se uno vuole un curry piccante, ci aggiungono
semplicemente una polverina rossa e dei peperoncini chilly verdi
e lo chiamano vindaloo, per il korma fanno una copertura di crema,
pomodori e una manciata di coriandolo moscio per fare il roghan
josh , noce di cocco o ananas per quello che loro chiamano Kashmiri
o Himalayan. Mia nonna, una Goan, si gira ancora nella tomba
per colpa di un disgustoso vindaloo che ha mangiato una volta
in un ristorante di Kensington. “E la cosa peggiore” starà dicendo
con la sua imperiosa intonazione indiana, “è che
quello stupido cameriere ha avuto il coraggio di chiamarlo vindullu” protendendo
in fuori le labbra a sottolineare l’accento scorretto sulla
prima sillaba. Ripete le parole che l’hanno offesa, “pollo
vindullu, chi ha mai sentito parlare di un piatto simile? Il
vindaaloo si fa solo con il maiale e dovrebbe essere piccante
e agro al modo in cui lo faceva la mia cuoca, Mary, che macinava
il masala in un tegame di terracotta e faceva cucinare il maiale
fino a che la carne non era quasi sciolta”.
Una volta feci un servizio per una di quelle riviste patinate
sui ristoranti indiani nella capitale e scoprii che l’unico
cibo indiano decente si trova a Southall, o in un paio di ristoranti
rimasti nei pressi di Brick Lane dove vanno a mangiare le persone
del luogo, nei locali vegetariani thali economici come quello
che c’è a Drummond Street o nei due o tre ristoranti
alla moda mostruosamente cari che si trovano in centro. A parte
questi, facendo un’attenta ricerca si può trovare
un locale occasionale che serve autentici curry ad una folla
indigena.
Jashan, a Turnpike Lane, è uno di questo posti. Il loro
biryani è fatto come dovrebbe essere fatto un biryani,
non un riso nero untuoso accompagnato da una salsa al curry che
non ha niente a che vedere con il nome che porta. Il birmani è un
pilaf che proviene dall’antica città indiana di
Hyderabad; una mescolanza delicata di agnello speziato cucinato
nello yogurt cui viene aggiunto, nella fase finale di cottura,
del riso allo zafferano il tutto coperto con delle cipolle caramellate
e delle scaglie di mandorle tostate. In India viene rifinito,
in occasione di matrimoni importanti, con dell’essenza
di petali di rose e ricoperto con una sottile foglia d’oro
o d’argento commestibile.
Controllai a che ora iniziava il film. Avevo un’ora e un
quarto di tempo per andare a prendermi il cibo e mangiarlo. Uscendo
di casa prelevai una banconota da venti sterline dalla mia scrivania
e me la infilai nella tasca posteriore dei jeans. Ci vogliono
dieci minuti in macchina per arrivare a Turnpike Lane, e lungo
la strada mi sentivo ancora un po’ depresso, pensavo alla
partita che avrei dovuto vincere nel campo di squash quel pomeriggio,
al mio romanzo che languiva in uno stato di prematuro disordine,
pensavo a quel famoso scrittore di cui avevo letto sul giornale
e del tipo di persona che avrei potuto essere se solo avessi
smesso di essere così pigro. Parcheggiai in una strada
laterale e camminai lungo la strada principale passando gli empori
di gioielleria e di sari illuminati vivacemente di giallo, verde
e rosso sgargiante, i cash and carry aperti ventiquattr’ore
con i sacchi da dieci chili di riso spezzato, i posti per le
telefonate internazionali (un minuto per la Nigeria 52 pence,
55 per Taiwan, 62 per lo Zaire), i negozi che noleggiano apparecchi
televisivi e video, le agenzie di viaggio, il Kebab Palace, il
Bangla Bazar, i take-away e le erboristerie cinesi, i ristoranti
indiani e la facciata dell’Haringey Racial Equality Centre
con l’intonaco che cade a pezzi. Qui, in una via, sono
raggruppati i negozi che raccontano la storia delle loro comunità.
Alle otto di sera di un sabato gli affari andavano a gonfie vele.
Il traffico si spostava avanti in un ingorgo lento. Talvolta
invidiavo i lavoratori dei cash and carry che passano la maggior
parte della loro vita dietro a una cassa. Invidiavo loro la fermezza
di propositi e la semplicità di vita. Natale, Pasqua,
agosto o Santo Stefano non faceva differenza alcuna per loro
fintanto che i soldi continuavano ad ammonticchiarsi sotto il
letto.
Entrai nel ristorante e mi trovai in mezzo ad una folla di clienti
in attesa, stipati tra un piccolo banco e alcuni posti fissi
che formavano una strettoia a collo di bottiglia all’ingresso
di questo ristorante lungo e profondo. La stanza si estendeva
in uno spazio ampio pieno di tavole piuttosto eleganti e sedie
imbottite con le pareti e le tovaglie color crema. Non c’era
alla parete carta da pareti scura e lanuginosa e nemmeno figure
luccicati di tigri o del Taj Mahal. La maggior parte dei tavoli
erano occupati da indiani benestanti. Donne in sari, uomini in
comode camicie di cotone e vestito, con amici e figli che avrebbero
potuto venir fuori da un film Hindi proiettato al Cinema Curzon
riaperto da poco nei paraggi di Duchektt Common. Probabilmente
venivano da qualche grande casa nella periferia molto più a
nord di qui. Sapevano come godersi le serate. Non come me; trasandato
e sciatto con i jeans neri sporchi, le scarpe da ginnastica consumate,
una massa di capelli troppo lunghi e spettinati, la barba non
fatta, che aspettavo imbronciato la mia cena composta da un piatto
unico nel suo contenitore d’alluminio.
Dietro al banco c’erano due camerieri che servivano da
bere, prendevano gli ordini e preparavano il conto. Ansioso di
andarmene da quel luogo affollato, chiesi se era pronto quello
che avevo ordinato. L’uomo dietro il banco tirò fuori
la ricevuta. Io misi una mano nella tasca posteriore per prendere
la banconota da venti sterline che al momento mi parve di non
trovare, ma quando tirai fuori la mano dalla tasca vidi i soldi
che cadevano a terra. Mi chinai per raccoglierli da dove erano
caduti, sul tappeto tra il mio piede destro e la scarpa dell’uomo
accanto a me, ma mentre mi chinavo, fui sorpreso nel vedere che
la mia banconota da venti sterline si era trasformata in due
banconote da venti sterline ripiegate insieme. Mi rialzai con
i soldi e vidi accanto a me un cameriere con il fifì nero,
un paio di occhiali quadrati fuori moda e il viso ossuto dalla
carnagione molto scura che fissava i soldi che avevo in mano.
Guardò a terra, mise una mano nella tasca della camicia,
tirò fuoir delle carte e mentre eseguiva nervosamente
questi movimenti mi disse in tono piuttosto tranquillo, “Quei
soldi sono miei”. “No davvero!” dissi incontrando
il suo sguardo. “Ho messo una mano nella tasca posteriore
per tirare fuori i soldi e sono caduti per terra,” ripetendo
il movimento mentre parlavo per avvalorare la mia versione dei
fatti, ma anche per controllare che la banconota da venti non
mi fosse rimasta in tasca.
Il cameriere, il cui viso mi ricordava il vecchio servitore dei
miei nonni, un uomo che era stato con loro trent’anni di
una gentilezza senza uguali, mi disse piuttosto secco: “Quei
soldi sono miei, glielo assicuro baba, ho messo la mano in tasca,
così, e ho tirato fuori dei foglietti e i soldi sono caduti.
Sono sicuro che sono i miei perché li ho appena vinti
alla lotteria. Ho vinto cinquanta sterline, mezz’ora fa
e ho prelevato i soldi dalla ricevitoria prima di venire a lavorare.” Si
guardava intorno cercando qualcuno che confermasse la sua versione,
alzò la testa verso un collega che stava dall’altra
parte del banco. L’uomo al quale si era rivolto sembrò perplesso.
Non aveva nessuna intenzione di farsi coinvolgere, ma la gente
dietro ed attorno a noi, sì. Non potevano fare a meno
di sentire quanto stava succedendo.
Il mio avversario estrasse la matrice del biglietto della lotteria
e disse indignato: “Guardi qua signore, le faccio vedere,
questa è la ricevuta della lotteria”. Non degnai
il foglietto di uno sguardo, ma ripetei la mia versione deciso. “Ho
perso questi soldi per terra. E comunque,” aggiunsi, “se
lei ha vinto cinquanta sterline alla lotteria, com’è che
qui ce ne sono quaranta?” Era lo scaccomatto che mi dava
un vantaggio decisivo. Avevo i soldi in tasca. E non mi pareva
che quest’uomo mi avrebbe picchiato e messo a terra per
prendersi i soldi. Era vecchio e minuto e occupava l’ultimo
gradino della scala gerarchica dei camerieri. Non riuscivo ad
ammettere che all’inizio avevo solo venti sterline. “Le
dico che ho tirato fuori i soldi dalla tasca e sono sicuro che
sono i miei.” Ripetei. Poi mi trovai a dire “Ne prenda
venti lei, io terrò gli altri venti e facciamola finita
con questa storia”. Pensavo che avremmo iniziato una discussione
lunghissima. Quanto meno già mi vedevo buttato fuori dal
ristorante e il mio biryani, da acquolina in bocca, lasciato
a raffreddare sul banco. Ci fu una breve pausa, un punto morto,
mentre si frugava in tutte le tasche e rivolgendosi a me e a
tutti gli astanti che stavano con le orecchie tese, mise fuori
il palmo della mano e disse, con un tono che non ammetteva repliche: “Quei
soldi sono miei”.
“
No, non è vero.”
Mi chiesi se avrebbe chiamato il direttore. Non mi aspettavo
la sua prossima mossa. “D’accordo, se li tenga allora,
si tenga i soldi.” Disse agitando le mani disdegnoso, come
se le banconote fossero state sporche, intoccabili. Poi mi voltò le
spalle e parve drizzarsi il colletto e scartabellare tra delle
carte. Mi aspettavo che mi buttasse fuori dal ristorante o che
mi gridasse “Prenditi le tue quaranta sterline e va via.
Ladro bastardo.” Mi sentivo già trionfante e colpevole
al tempo stesso. Trionfante perché avevo vinto la mia
battaglia con tanta facilità e colpevole per lo stesso
motivo, perché avevo vinto contro un uomo il cui premio
della lotteria si trovava forse ora in tasca mia. A questo punto,
mentre aspettavo, incerto sul da farsi, il cameriere si girò di
scatto, e parlando con voce professionale, come se non fosse
successo proprio niente, chiese: “Si signore, cosa aveva
ordinato?”.
“
Riso,” risposi nervosamente.
“
Riso e che altro?”
“
Biryani,” farfugliai, “biryani di agnello.” L’uomo
si mise rapidamente in azione. Gridò a uno dei camerieri
dietro al banco. Gli prese la ricevuta dalle mani, la appallottolò e
la gettò con sdegno nel cestino della spazzatura. Venne
fuori dalla cucina un sacchetto di carta marrone. Me lo diede
in silenzio; il viso era serio e preoccupato, non arrabbiato.
Poi si voltò e chiese alla persona successiva, “il
signore desidera?” Afferrai imbarazzato i manici sottili
del sacchetto e mi allontanai di soppiatto.
Andando verso casa, ripensavo sconcertato al modo in cui quest’uomo
minuto, avvizzito, occhialuto aveva recuperato il suo sangue
freddo. Chiunque altro, qualsiasi altro attempato signore avrebbe
sollevato un polverone, forse mi avrebbe colpito in piena faccia
per i problemi che stavo causando. Un altro tipo di persona,
un tipo come me, forse avrebbe lasciato perdere i soldi per poi
disperarsi per settimane per la perdita di denaro. Quest’uomo,
un uomo con dei bambini, un uomo che lavorava il sabato sera
per dar da mangiare ai suoi figli, un uomo col viso lucido, ossuto
e buffo, che gesticolava con le mani e con gli occhi incavati,
coinvolto in una discussione futile aveva voltato le spalle a
questa e a me, si era ricomposto e aveva deciso di andare avanti
con la vita. Vita e lavoro e forse tranquillità d’animo.
Queste erano le cose importanti. Tanti presi…tanti spesi!
Ripercorsi Turrnpike Lane, oltrepassai le luci dei negozi, i
marciapiedi pieni di immondizia, le luci al neon del Paradise
Bar, pensando che non ero neanche degno dello sprezzo di quest’uomo.
Io che avevo tenuto nascosta una parte della verità e
che stavo ancora cercando di giustificare ad alta voce il mio
comportamento: “Com’è possibile che i soldi
miei e i suoi siano caduti a terra nello stesso momento? Io avevo
sicuramente i soldi in tasca, non possono essere spariti. Forse
avevo due banconote incollate tra loro sulla scrivania, chi lo
sa? Comunque adesso sono più ricco,” dissi a me
stesso. Questo mi sollevò un poco. Gli dei parevano sorridermi
nel mio giorno di riposo.
Inghiottii il mio biryani davanti alla televisione. Era buono
ma lo avrei apprezzato di più in un’altra giornata.
Non è solo una questione del gusto del cibo, ma lo stato
d’animo e il ritmo con cui si mangia. Mi infilai un maglione
verde e andai velocemente alla macchina per arrivare in tempo
per il film. Era una notte buia, ma la macchina era illuminata
su un lato da un lampione arancione. Mentre stavo per sedermi,
dalla tappezzeria a trama fitta vidi che mi fissava una banconota
piegata da venti sterline ornata dai capelli scarruffati color
porpora di Michael Faraday. Infilai i soldi nella tasca dei pantaloni
insieme al bottino che mi ero malamente guadagnato poco prima
quella sera stessa e mi avviai lungo Camden Road per andare a
vedere il film.
Naturalmente
ci sono diversi tipi di furto. La lotteria, dicono alcuni giornalisti, è un
modo per derubare poveri e sciocchi; c’è gente
che ruba alle assicurazioni facendo false dichiarazioni; quando
arrivai a Londra la prima volta, architettai un sistema speciale
per evitare di pagare il biglietto intero sulla metropolitana
che prendevo tutti i giorni, senza provare il minimo scrupolo.
Andavo piuttosto orgoglioso del mio piano fino a che non mi
hanno preso. Ancora oggi di quando in quando mi prendo la soddisfazione
di non pagare il pranzo che consumo alla caffetteria del giornale
dove lavoro. Loro sono in debito con me per tutte le ore di
straordinario massacrante che mi sono fatto. Ma nell’istante
in cui vidi la mia errabonda banconota da venti sterline, non
ci pensai su due volte, ero certo come di morire che avrei
restituito le quaranta sterline al loro legittimo proprietario.
Non ero certo io il tipo che avrebbe privato un vecchio cameriere
del Bangladesh, un sabato sera, in un ristorante di Turnpike
Lane, della sua vincita alla lotteria, per quanto filosoficamente
avesse preso la perdita. Può anche darsi forse che fossi
ansioso di dimostrargli la mia onestà? Il film finì alle
undici e dieci. Avevo ancora abbastanza tempo per fare il percorso
di venti minuti in macchina fino al ristorante per restituire
i soldi all’uomo. Il cinema era pieno, ma io avevo prenotato
il biglietto. La metà di una coppia che si sbaciucchiava
era seduta al mio posto nell’ultima fila. Chiesi loro
di spostarsi nei posti loro assegnati accanto alla colonna
nell’angolo in fondo. The Truman Show fu deludente. Forse
perché volevo vedere un film di vita vera. Volevo una
storia che mi facesse credere. Volevo una storia che mi trascinasse
al suo centro. Mi piacque la scena finale dove Truman veleggia
fino al limite del suo mondo fasullo e va a sbattere con la
prua dell’imbarcazione contro la parete interna del globo.
Alle undici e un quarto davano Buffalo ’66, che avrei
probabilmente guardato se non avessi avuto una missione da
compiere, e non mi volevo far distrarre. Domani sarebbe stato
troppo tardi.
Quando giunsi al ristorante era ancora per metà pieno
di avventori satolli che sospiravano e si stiracchiavano. Chiesi
del cameriere con gli occhiali. “Sì, è qui,
ma perché lo vuole?” disse il giovane pinguino dietro
al banco.
“
Voglio dargli dei soldi,” dissi godendomi lo sguardo incredulo
che si dipingeva sulla faccia del pinguino. Qualcun altro andò in
cucina a cercarlo. Non riuscii a capire il nome del mio uomo.
Attesi e l’uomo dietro la banco continuava a guardarmi “Arriva,
non si preoccupi,” disse uno di loro. “Tipico dell’India,” pensai, “tutti
ti rassicurano senza avere la più pallida idea se quello
che dicono è vero o meno”.
Il mio uomo venne avanti d’improvviso fino al centro del
ristorante. Non c’era segno d’attesa sul suo volto,
né parve riconoscermi. “Sì,” chiese, “posso
servirla?” Aveva ancora lo stesso sguardo perplesso e comico.
Mi sembrò che da quando me ne ero andato fino ad ora fossero
successe molte cose in questo ristorante.
“
Mi dispiace, ho commesso un errore prima”, dissi estraendo
le due banconote da venti sterline, “aveva ragione lei,
questi soldi sono suoi.”
“
No, no, no,” disse respingendo i soldi e indietreggiando
come se avesse voluto immergersi in qualche occupazione, uno
di quei lavori che tengono occupati i camerieri all’infinito. “E’ tutto
a posto, non si deve preoccupare.”
“
Ma, sono suoi,” balbettai, “deve prenderli”,
pensando per tutto il tempo, se non li vuole, forse li dovrei
tenere. Mostrai di nuovo le banconote, “sono suoi, non è così?”
Questa volta, grato e raggiante, si fece avanti e mi prese i
soldi dalle mani, come una folata di vento che li avesse fatti
volare via dal palmo della mia mano. “Grazie, grazie, grazie
per aver rifatto tutta questa strada,” ripeté scotendo
la testa da una parte all’altra e rimettendosi rapidamente
i soldi nella tasca della camicia. “Prego,” disse
facendo cenno verso una delle poltroncine fissate alla parete, “prego,
si sieda. Cosa prende? Vuole qualcosa da bere, una birra?”
“
D’accordo, una birra. Mi dispiace per la confusione di
prima,” dissi cercando una conferma. L’uomo sorrise
e ripeté le stesse parole, “La prego, non si preoccupi”.
Poi chiese al cameriere che ci stava fissando da dietro al banco
di versarmi una birra. Il barista cominciò a versare una
mezza pinta di Kingfhisher al che il mio munifico creditore,
con un tempismo meravigliosamente comico, esclamò in hindi “Dagliene
una pinta, per Dio!”. Non avevo voglia di bere una vasca
di lager, ma non mi sentivo neanche di interrompere questo strano
rituale di generosità. Una parte di me stava ancora pensando: “perché uno
dovrebbe rifiutare i soldi che gli sono legittimamente dovuti?”.
Domandai, tanto per fare conversazione, “Com’è stato
il lavoro stasera, duro?”.
“
Non mi importa,” disse sorridendo malizioso, battendosi
con la mano la tasca dove aveva messo i soldi. “Questa è la
mia serata fortunata.” Nel frattempo continuava il suo
lavoro, riordinando tovaglioli e sottaceti. “Fortunata”?
Cosa intendeva dire con “serata fortunata”? Quei
soldi che gli avevo restituito erano suoi. Cosa aveva a che fare
la fortuna con tutto questo? Trangugiai la birra, lasciando l’ultimo
quarto per far vedere che non ero un ingordo. “Bene, arrivederci
allora,” dissi cercando di distrarlo dalle sue pulizie.
“
Grazie mille, eh, grazie mille,” ripeté stringendomi
la mano.
Ripercorrendo per la quarta volta Turnpike Lane quella sera risi
forte. Era lo sguardo di stupore sul volto dei due camerieri
dietro al banco che mi faceva ridere. Il vecchio cameriere che
li rimproverava perché erano stati avari con la quantità della
birra e lo sguardo sorpreso che seguiva il movimento della mia
faccia, con la barba da fare, che si immergeva ed emergeva dal
bicchiere gratis di birra. Alla fine rimasi con la strana impressione
della riluttanza dimostrata dal mio cameriere nel riprendersi
i suoi soldi. Mi venne in mente di quando ero in India e guardavo
le facce serene dei viaggiatori, accovacciati nella polvere ad
aspettare con calma l’autobus che era in ritardo di tre
ore. Mi fece pensare con affetto a quest’angolo di India
nel nord di Londra. Mi fece pensare alla mia vita, sempre alla
ricerca di qualche cosa che non c’era, nel desiderio di
qualcosa di meglio, inseguendo i rimpianti. Capii che quell’uomo
mi aveva dimostrato il perdono, che ora ero io che dovevo perdonare
me stesso e risvegliarmi dal torpore, come la linfa negli alberi
a primavera. Avevo voglia di ridere. Per un uomo che riusciva
così facilmente a venire a patti con una perdita e per
il quale allo stesso modo, la vincita non rappresentava un gran
che. Un uomo simile non poteva essere derubato né da me
né dalla lotteria né da nessun altro. Volevo conservare
un po’ di quello che mi aveva dimostrato. L’indomani,
quando il resto della mia famiglia fosse tornato a casa e fossimo
risaliti tutti nella nostra barca instabile, domattina, con la
vela rattoppata e il remo vecchio, i bambini capricciosi, i miei
averi sciupati e sparpagliati a terra e i nostri problemi sempre
incombenti, volevo prendere una parte di quest’uomo e portarla
con me in un taschino interno.
Note:
1) Office for Standard in Education: un’organizzazione che valuta i livelli
di preparazione nelle scuole facendo delle visite periodiche (N.d.T.)
(Tratto
da Riti di Primavera – nuovi racconti londinesi Centroscuola
Edizioni, Mantova, 2000. Traduzione a cura di Marta Colombini.)
Ardashir
Vakil è nato a Bombay. Il
suo primo romanzo, Beach Boy, ha vinto il Betty Trask Award nel
1997 ed è stato nominato per il Whitebread First Novel Award.
Vive a Londra e insegna Inglese in una scuola della città.
.
Precedente Successivo
Copertina
|