UN VERO BIRYANI

Ardashir Vakil

Era un sabato sera, la settimana prima di Pasqua. La casa era vuota, non avevo niente da fare, né un posto dove andare, né nessuno da vedere. Questo breve momento di vuoto nella mia vita si verificava grazie ad una rara combinazione di diversi fattori. Mia moglie aveva portato i bambini a passare la notte da sua madre, mia madre era andata nella Repubblica Ceca per un viaggio di due settimane e la nostra inquilina era andata dai suoi genitori a Bristol.
Devo dire, innanzi tutto, che ho una vita piuttosto impegnata ed intensa. Troppo intensa. Vivo in una casa grande con altre sei persone: mia moglie, i miei tre figli, tutti sotto i sette anni, mia madre e un’inquilina che occupa il seminterrato. Da poco mia moglie, donna dotata di un’eccessiva dose di compassione, ha permesso a Linda, la nostra baby-sitter, di sistemarsi per alcuni mesi nel mio studio, fino a quando si sarà ripresa dallo shock subito per essersi separata da un marito violento. La mia rabbia iniziale è stata sedata dal rapporto che Linda ha con i nostri figli, dai pranzi deliziosi che prepara e dal suo desiderio di ricambiare la nostra gentilezza accudendo i bambini ben oltre l’orario di lavoro. Adesso ci sono dei giorni in cui sento una punta di gelosia quando li sento giocare tutti e quattro attorno alla vasca da bagno.
Mi guadagno da vivere scrivendo di affari esteri. Sono considerato un esperto del subcontinente indiano e un conoscitore del Vicino Oriente. Un giornale nazionale mi paga per curare e scrivere dei pezzi per la loro pagina di notizie internazionali. Posso fare l’orario che voglio, basta che io vada in ufficio tutti i giorni. Quando mi capita qualche momento libero, butto giù qualcosa sul mio blocco degli appunti, delle frasi che spero un giorno si combineranno a formare un romanzo. Mia moglie è capo dipartimento di inglese in un Istituto Superiore caotico e sovraffollato ad Islington. Lavora a tutte le ore del giorno nel tentativo disperato di tenersi alla pari con tutti i cambiamenti del Programma Didattico Nazionale e per prevenire le richieste degli Ispettori dell’OFSTED1. Anche quando sogna non smette mai di preoccuparsi per il suo lavoro, promettendo a se stessa, e minacciando me, di abbandonare ben presto l’insegnamento per riqualificarsi o come avvocato o come giardiniere dei paesaggi. I bambini sono ovunque nella nostra vita; creature che fanno riflettere, sono come pepite d’oro che vanno ripulite e pesate alla fine di una dura giornata di lavoro. Devono essere lavati ed educati, bisogna dedicargli mille attenzioni e amarli, danno un senso a tutto, ma rendono tutto il resto impossibile.
Soltanto un accenno a mia madre, una donna indiana Goan con un approccio peripatetico ed autocratico, sostiene che i suoi nipoti hanno bisogno della sua presenza (o forse bisognerebbe dire dei suoi “presenti”) a casa, anche se non si trova mai quando ce n’è maggiormente bisogno ed è sempre lì a sostenere i suoi diritti come patriarca della famiglia.
Naturalmente i soldi non sono omai abbastanza per quello che si vorrebbe fare: qualche cambiamento in casa, cacciar fuori l’inquilina o comprare a mia madre un appartamento vicino a noi. In una vita diversa saremmo stati banchieri e ci saremmo goduti delle costose vacanze e avremmo avuto del personale pagato bene e che si sarebbe accollato tutti i nostri oneri più gravosi. Fin troppo spesso in questi giorni faccio un sogno ad occhi aperti nel quale al bivio avrei scelto la via che portava a diventare un finanziere della City o un banchiere. Come sarebbe stata la mia vita se fossi entrato a far parte della Morgan Grenfell alla fine dell’università, come hanno fatto molti miei compagni di scuola? Quelli che lavorano per Arthur Andersen, Nomura e Pepsi, quelli che hanno una vita a un solo binario, un appartamento perfetto, senza figli e che si fanno quattro periodi di vacanza all’anno.
Mi viene da paragonare la nostra vita famigliare ad una barca instabile, con una vela rattoppata ed un secchio per vuotare l’acqua che entra a fiotti dalle falle dello scafo. Ci passiamo il secchio l’un l’altro e vuotiamo fuori il mare. Nell’acqua ci sono degli oggetti di vitale importanza che galleggiano verso di noi, come se fossero su quei nastri da trasporto che si usano in certi giochi televisivi. Dobbiamo cercare di arraffare dalle onde quello che possiamo e non disperarci troppo quando delle opportunità d’oro si perdono e scompaiono nella nostra scia. A volte, insonne nel cuore della notte, vorrei gettare via il secchio, lasciar passare tutte le cose essenziali e far affondare la barca già nell’acqua scura; ma poi guardo il viso dei bambini, quando ridono e quando ti fanno piangere e devo tener duro. Continuo a vuotare l’acqua, a raccogliere, a vogare pagaiare e ad avanzare, in un modo o nell’altro, nell’acqua torbida.
Di tanto in tanto esce il sole, le onde lambiscono dolcemente i fianchi dello scafo, qualcuno trova la falla e la ripara, gli altri vanno a farsi una nuotata, tu ammaini la vela stanca e smetti di preoccuparti per i relitti che ti sono passati accanto. Te ne stai nel mezzo del nulla e l’unica cosa che può fare è sedere e fissare il vuoto.
Quel sabato sera d’aprile, una serata stranamente tiepida, era proprio quello che ero seriamente intenzionato a fare. Mia moglie, i miei figli, mia madre, se ne erano andati tutti per una giornata intera. Mentre me ne stavo seduto lì ingannando il tempo passando dai giornali del week-end ai canali televisivi, cominciai a sentirmi sempre più inquieto, irritato con me stesso perché mi sentivo inquieto, e arrabbiato con me stesso perché stavo sprecando delle preziose ore di vuoto. Non volevo vedere nessuno. Intrattenere una conversazione mi pareva uno sforzo eccessivo. Non avevo voglia di stare a casa a vedere la tele. Pensai di ascoltare un po’ di musica, ma mi pareva che niente fosse adatto al mio stato d’animo. O forse era il mio stato d’animo che non era adatto per niente? Cercai un film dentro al quale rifugiarmi per un paio d’ore. Il film che volevo vedere lo davano nel West End, ma solo all’idea di trascinare le mie ossa per il lungo tunnel della stazione della metropolitana mi sentii improvvisamente stanco. Una voce insistente dal fondo della mia mente mi diceva: “Che noioso sei, dovresti uscire e andare in qualche locale, o cercare una festa o telefonare a un amico per andare al pub”. Peggio ancora, un amico mi aveva invitato alla sua festa di compleanno in un bar a Soho, ma non me la sentivo proprio. Mi pareva che sarebbe stata una serata da cinema.
Dopo aver preso questa decisione, la cosa da fare subito dopo era procurami qualcosa da mangiare. Scartabellai tra i vari menù dei take-away fino a trovare il ristorante che stavo cercando. Ordinai un biryani che dovevo andarmi a prendere io. Ho trascorso dei periodi della mia infanzia nell’India occidentale che mi hanno lasciato una predilezione a vita per il curry piccante e le spezie intense. Purtroppo il novanta per cento dei ristoranti e take-away indiani a Londra servono del cibo pessimo. Sono gestiti tutti da bengalesi del Bangladesh che hanno colonizzato il business della ristorazione negli anni cinquanta come i Tamils hanno colonizzato quello dei chioschi delle stazioni di servizio e i Gujaratis quello dei negozietti. In questi ristoranti è tutto a base di un’unica salsa al curry che è uno schifoso miscuglio color cacca di coloranti, spezie stantie e cipolle stracotte. La carne, che spacciano per agnello, pollo o pesce, viene bollita fino a farle sputare fuori tutta l’anima, viene cotta in pentole separate e poi aggiunta a questa salsa insipida e torbida. Se uno vuole un curry piccante, ci aggiungono semplicemente una polverina rossa e dei peperoncini chilly verdi e lo chiamano vindaloo, per il korma fanno una copertura di crema, pomodori e una manciata di coriandolo moscio per fare il roghan josh , noce di cocco o ananas per quello che loro chiamano Kashmiri o Himalayan. Mia nonna, una Goan, si gira ancora nella tomba per colpa di un disgustoso vindaloo che ha mangiato una volta in un ristorante di Kensington. “E la cosa peggiore” starà dicendo con la sua imperiosa intonazione indiana, “è che quello stupido cameriere ha avuto il coraggio di chiamarlo vindullu” protendendo in fuori le labbra a sottolineare l’accento scorretto sulla prima sillaba. Ripete le parole che l’hanno offesa, “pollo vindullu, chi ha mai sentito parlare di un piatto simile? Il vindaaloo si fa solo con il maiale e dovrebbe essere piccante e agro al modo in cui lo faceva la mia cuoca, Mary, che macinava il masala in un tegame di terracotta e faceva cucinare il maiale fino a che la carne non era quasi sciolta”.
Una volta feci un servizio per una di quelle riviste patinate sui ristoranti indiani nella capitale e scoprii che l’unico cibo indiano decente si trova a Southall, o in un paio di ristoranti rimasti nei pressi di Brick Lane dove vanno a mangiare le persone del luogo, nei locali vegetariani thali economici come quello che c’è a Drummond Street o nei due o tre ristoranti alla moda mostruosamente cari che si trovano in centro. A parte questi, facendo un’attenta ricerca si può trovare un locale occasionale che serve autentici curry ad una folla indigena.
Jashan, a Turnpike Lane, è uno di questo posti. Il loro biryani è fatto come dovrebbe essere fatto un biryani, non un riso nero untuoso accompagnato da una salsa al curry che non ha niente a che vedere con il nome che porta. Il birmani è un pilaf che proviene dall’antica città indiana di Hyderabad; una mescolanza delicata di agnello speziato cucinato nello yogurt cui viene aggiunto, nella fase finale di cottura, del riso allo zafferano il tutto coperto con delle cipolle caramellate e delle scaglie di mandorle tostate. In India viene rifinito, in occasione di matrimoni importanti, con dell’essenza di petali di rose e ricoperto con una sottile foglia d’oro o d’argento commestibile.
Controllai a che ora iniziava il film. Avevo un’ora e un quarto di tempo per andare a prendermi il cibo e mangiarlo. Uscendo di casa prelevai una banconota da venti sterline dalla mia scrivania e me la infilai nella tasca posteriore dei jeans. Ci vogliono dieci minuti in macchina per arrivare a Turnpike Lane, e lungo la strada mi sentivo ancora un po’ depresso, pensavo alla partita che avrei dovuto vincere nel campo di squash quel pomeriggio, al mio romanzo che languiva in uno stato di prematuro disordine, pensavo a quel famoso scrittore di cui avevo letto sul giornale e del tipo di persona che avrei potuto essere se solo avessi smesso di essere così pigro. Parcheggiai in una strada laterale e camminai lungo la strada principale passando gli empori di gioielleria e di sari illuminati vivacemente di giallo, verde e rosso sgargiante, i cash and carry aperti ventiquattr’ore con i sacchi da dieci chili di riso spezzato, i posti per le telefonate internazionali (un minuto per la Nigeria 52 pence, 55 per Taiwan, 62 per lo Zaire), i negozi che noleggiano apparecchi televisivi e video, le agenzie di viaggio, il Kebab Palace, il Bangla Bazar, i take-away e le erboristerie cinesi, i ristoranti indiani e la facciata dell’Haringey Racial Equality Centre con l’intonaco che cade a pezzi. Qui, in una via, sono raggruppati i negozi che raccontano la storia delle loro comunità. Alle otto di sera di un sabato gli affari andavano a gonfie vele. Il traffico si spostava avanti in un ingorgo lento. Talvolta invidiavo i lavoratori dei cash and carry che passano la maggior parte della loro vita dietro a una cassa. Invidiavo loro la fermezza di propositi e la semplicità di vita. Natale, Pasqua, agosto o Santo Stefano non faceva differenza alcuna per loro fintanto che i soldi continuavano ad ammonticchiarsi sotto il letto.
Entrai nel ristorante e mi trovai in mezzo ad una folla di clienti in attesa, stipati tra un piccolo banco e alcuni posti fissi che formavano una strettoia a collo di bottiglia all’ingresso di questo ristorante lungo e profondo. La stanza si estendeva in uno spazio ampio pieno di tavole piuttosto eleganti e sedie imbottite con le pareti e le tovaglie color crema. Non c’era alla parete carta da pareti scura e lanuginosa e nemmeno figure luccicati di tigri o del Taj Mahal. La maggior parte dei tavoli erano occupati da indiani benestanti. Donne in sari, uomini in comode camicie di cotone e vestito, con amici e figli che avrebbero potuto venir fuori da un film Hindi proiettato al Cinema Curzon riaperto da poco nei paraggi di Duchektt Common. Probabilmente venivano da qualche grande casa nella periferia molto più a nord di qui. Sapevano come godersi le serate. Non come me; trasandato e sciatto con i jeans neri sporchi, le scarpe da ginnastica consumate, una massa di capelli troppo lunghi e spettinati, la barba non fatta, che aspettavo imbronciato la mia cena composta da un piatto unico nel suo contenitore d’alluminio.
Dietro al banco c’erano due camerieri che servivano da bere, prendevano gli ordini e preparavano il conto. Ansioso di andarmene da quel luogo affollato, chiesi se era pronto quello che avevo ordinato. L’uomo dietro il banco tirò fuori la ricevuta. Io misi una mano nella tasca posteriore per prendere la banconota da venti sterline che al momento mi parve di non trovare, ma quando tirai fuori la mano dalla tasca vidi i soldi che cadevano a terra. Mi chinai per raccoglierli da dove erano caduti, sul tappeto tra il mio piede destro e la scarpa dell’uomo accanto a me, ma mentre mi chinavo, fui sorpreso nel vedere che la mia banconota da venti sterline si era trasformata in due banconote da venti sterline ripiegate insieme. Mi rialzai con i soldi e vidi accanto a me un cameriere con il fifì nero, un paio di occhiali quadrati fuori moda e il viso ossuto dalla carnagione molto scura che fissava i soldi che avevo in mano. Guardò a terra, mise una mano nella tasca della camicia, tirò fuoir delle carte e mentre eseguiva nervosamente questi movimenti mi disse in tono piuttosto tranquillo, “Quei soldi sono miei”. “No davvero!” dissi incontrando il suo sguardo. “Ho messo una mano nella tasca posteriore per tirare fuori i soldi e sono caduti per terra,” ripetendo il movimento mentre parlavo per avvalorare la mia versione dei fatti, ma anche per controllare che la banconota da venti non mi fosse rimasta in tasca.
Il cameriere, il cui viso mi ricordava il vecchio servitore dei miei nonni, un uomo che era stato con loro trent’anni di una gentilezza senza uguali, mi disse piuttosto secco: “Quei soldi sono miei, glielo assicuro baba, ho messo la mano in tasca, così, e ho tirato fuori dei foglietti e i soldi sono caduti. Sono sicuro che sono i miei perché li ho appena vinti alla lotteria. Ho vinto cinquanta sterline, mezz’ora fa e ho prelevato i soldi dalla ricevitoria prima di venire a lavorare.” Si guardava intorno cercando qualcuno che confermasse la sua versione, alzò la testa verso un collega che stava dall’altra parte del banco. L’uomo al quale si era rivolto sembrò perplesso. Non aveva nessuna intenzione di farsi coinvolgere, ma la gente dietro ed attorno a noi, sì. Non potevano fare a meno di sentire quanto stava succedendo.
Il mio avversario estrasse la matrice del biglietto della lotteria e disse indignato: “Guardi qua signore, le faccio vedere, questa è la ricevuta della lotteria”. Non degnai il foglietto di uno sguardo, ma ripetei la mia versione deciso. “Ho perso questi soldi per terra. E comunque,” aggiunsi, “se lei ha vinto cinquanta sterline alla lotteria, com’è che qui ce ne sono quaranta?” Era lo scaccomatto che mi dava un vantaggio decisivo. Avevo i soldi in tasca. E non mi pareva che quest’uomo mi avrebbe picchiato e messo a terra per prendersi i soldi. Era vecchio e minuto e occupava l’ultimo gradino della scala gerarchica dei camerieri. Non riuscivo ad ammettere che all’inizio avevo solo venti sterline. “Le dico che ho tirato fuori i soldi dalla tasca e sono sicuro che sono i miei.” Ripetei. Poi mi trovai a dire “Ne prenda venti lei, io terrò gli altri venti e facciamola finita con questa storia”. Pensavo che avremmo iniziato una discussione lunghissima. Quanto meno già mi vedevo buttato fuori dal ristorante e il mio biryani, da acquolina in bocca, lasciato a raffreddare sul banco. Ci fu una breve pausa, un punto morto, mentre si frugava in tutte le tasche e rivolgendosi a me e a tutti gli astanti che stavano con le orecchie tese, mise fuori il palmo della mano e disse, con un tono che non ammetteva repliche: “Quei soldi sono miei”.
“ No, non è vero.”
Mi chiesi se avrebbe chiamato il direttore. Non mi aspettavo la sua prossima mossa. “D’accordo, se li tenga allora, si tenga i soldi.” Disse agitando le mani disdegnoso, come se le banconote fossero state sporche, intoccabili. Poi mi voltò le spalle e parve drizzarsi il colletto e scartabellare tra delle carte. Mi aspettavo che mi buttasse fuori dal ristorante o che mi gridasse “Prenditi le tue quaranta sterline e va via. Ladro bastardo.” Mi sentivo già trionfante e colpevole al tempo stesso. Trionfante perché avevo vinto la mia battaglia con tanta facilità e colpevole per lo stesso motivo, perché avevo vinto contro un uomo il cui premio della lotteria si trovava forse ora in tasca mia. A questo punto, mentre aspettavo, incerto sul da farsi, il cameriere si girò di scatto, e parlando con voce professionale, come se non fosse successo proprio niente, chiese: “Si signore, cosa aveva ordinato?”.
“ Riso,” risposi nervosamente.
“ Riso e che altro?”
“ Biryani,” farfugliai, “biryani di agnello.” L’uomo si mise rapidamente in azione. Gridò a uno dei camerieri dietro al banco. Gli prese la ricevuta dalle mani, la appallottolò e la gettò con sdegno nel cestino della spazzatura. Venne fuori dalla cucina un sacchetto di carta marrone. Me lo diede in silenzio; il viso era serio e preoccupato, non arrabbiato. Poi si voltò e chiese alla persona successiva, “il signore desidera?” Afferrai imbarazzato i manici sottili del sacchetto e mi allontanai di soppiatto.
Andando verso casa, ripensavo sconcertato al modo in cui quest’uomo minuto, avvizzito, occhialuto aveva recuperato il suo sangue freddo. Chiunque altro, qualsiasi altro attempato signore avrebbe sollevato un polverone, forse mi avrebbe colpito in piena faccia per i problemi che stavo causando. Un altro tipo di persona, un tipo come me, forse avrebbe lasciato perdere i soldi per poi disperarsi per settimane per la perdita di denaro. Quest’uomo, un uomo con dei bambini, un uomo che lavorava il sabato sera per dar da mangiare ai suoi figli, un uomo col viso lucido, ossuto e buffo, che gesticolava con le mani e con gli occhi incavati, coinvolto in una discussione futile aveva voltato le spalle a questa e a me, si era ricomposto e aveva deciso di andare avanti con la vita. Vita e lavoro e forse tranquillità d’animo. Queste erano le cose importanti. Tanti presi…tanti spesi! Ripercorsi Turrnpike Lane, oltrepassai le luci dei negozi, i marciapiedi pieni di immondizia, le luci al neon del Paradise Bar, pensando che non ero neanche degno dello sprezzo di quest’uomo. Io che avevo tenuto nascosta una parte della verità e che stavo ancora cercando di giustificare ad alta voce il mio comportamento: “Com’è possibile che i soldi miei e i suoi siano caduti a terra nello stesso momento? Io avevo sicuramente i soldi in tasca, non possono essere spariti. Forse avevo due banconote incollate tra loro sulla scrivania, chi lo sa? Comunque adesso sono più ricco,” dissi a me stesso. Questo mi sollevò un poco. Gli dei parevano sorridermi nel mio giorno di riposo.
Inghiottii il mio biryani davanti alla televisione. Era buono ma lo avrei apprezzato di più in un’altra giornata. Non è solo una questione del gusto del cibo, ma lo stato d’animo e il ritmo con cui si mangia. Mi infilai un maglione verde e andai velocemente alla macchina per arrivare in tempo per il film. Era una notte buia, ma la macchina era illuminata su un lato da un lampione arancione. Mentre stavo per sedermi, dalla tappezzeria a trama fitta vidi che mi fissava una banconota piegata da venti sterline ornata dai capelli scarruffati color porpora di Michael Faraday. Infilai i soldi nella tasca dei pantaloni insieme al bottino che mi ero malamente guadagnato poco prima quella sera stessa e mi avviai lungo Camden Road per andare a vedere il film.

Naturalmente ci sono diversi tipi di furto. La lotteria, dicono alcuni giornalisti, è un modo per derubare poveri e sciocchi; c’è gente che ruba alle assicurazioni facendo false dichiarazioni; quando arrivai a Londra la prima volta, architettai un sistema speciale per evitare di pagare il biglietto intero sulla metropolitana che prendevo tutti i giorni, senza provare il minimo scrupolo. Andavo piuttosto orgoglioso del mio piano fino a che non mi hanno preso. Ancora oggi di quando in quando mi prendo la soddisfazione di non pagare il pranzo che consumo alla caffetteria del giornale dove lavoro. Loro sono in debito con me per tutte le ore di straordinario massacrante che mi sono fatto. Ma nell’istante in cui vidi la mia errabonda banconota da venti sterline, non ci pensai su due volte, ero certo come di morire che avrei restituito le quaranta sterline al loro legittimo proprietario. Non ero certo io il tipo che avrebbe privato un vecchio cameriere del Bangladesh, un sabato sera, in un ristorante di Turnpike Lane, della sua vincita alla lotteria, per quanto filosoficamente avesse preso la perdita. Può anche darsi forse che fossi ansioso di dimostrargli la mia onestà? Il film finì alle undici e dieci. Avevo ancora abbastanza tempo per fare il percorso di venti minuti in macchina fino al ristorante per restituire i soldi all’uomo. Il cinema era pieno, ma io avevo prenotato il biglietto. La metà di una coppia che si sbaciucchiava era seduta al mio posto nell’ultima fila. Chiesi loro di spostarsi nei posti loro assegnati accanto alla colonna nell’angolo in fondo. The Truman Show fu deludente. Forse perché volevo vedere un film di vita vera. Volevo una storia che mi facesse credere. Volevo una storia che mi trascinasse al suo centro. Mi piacque la scena finale dove Truman veleggia fino al limite del suo mondo fasullo e va a sbattere con la prua dell’imbarcazione contro la parete interna del globo. Alle undici e un quarto davano Buffalo ’66, che avrei probabilmente guardato se non avessi avuto una missione da compiere, e non mi volevo far distrarre. Domani sarebbe stato troppo tardi.
Quando giunsi al ristorante era ancora per metà pieno di avventori satolli che sospiravano e si stiracchiavano. Chiesi del cameriere con gli occhiali. “Sì, è qui, ma perché lo vuole?” disse il giovane pinguino dietro al banco.
“ Voglio dargli dei soldi,” dissi godendomi lo sguardo incredulo che si dipingeva sulla faccia del pinguino. Qualcun altro andò in cucina a cercarlo. Non riuscii a capire il nome del mio uomo. Attesi e l’uomo dietro la banco continuava a guardarmi “Arriva, non si preoccupi,” disse uno di loro. “Tipico dell’India,” pensai, “tutti ti rassicurano senza avere la più pallida idea se quello che dicono è vero o meno”.
Il mio uomo venne avanti d’improvviso fino al centro del ristorante. Non c’era segno d’attesa sul suo volto, né parve riconoscermi. “Sì,” chiese, “posso servirla?” Aveva ancora lo stesso sguardo perplesso e comico. Mi sembrò che da quando me ne ero andato fino ad ora fossero successe molte cose in questo ristorante.
“ Mi dispiace, ho commesso un errore prima”, dissi estraendo le due banconote da venti sterline, “aveva ragione lei, questi soldi sono suoi.”
“ No, no, no,” disse respingendo i soldi e indietreggiando come se avesse voluto immergersi in qualche occupazione, uno di quei lavori che tengono occupati i camerieri all’infinito. “E’ tutto a posto, non si deve preoccupare.”
“ Ma, sono suoi,” balbettai, “deve prenderli”, pensando per tutto il tempo, se non li vuole, forse li dovrei tenere. Mostrai di nuovo le banconote, “sono suoi, non è così?”
Questa volta, grato e raggiante, si fece avanti e mi prese i soldi dalle mani, come una folata di vento che li avesse fatti volare via dal palmo della mia mano. “Grazie, grazie, grazie per aver rifatto tutta questa strada,” ripeté scotendo la testa da una parte all’altra e rimettendosi rapidamente i soldi nella tasca della camicia. “Prego,” disse facendo cenno verso una delle poltroncine fissate alla parete, “prego, si sieda. Cosa prende? Vuole qualcosa da bere, una birra?”
“ D’accordo, una birra. Mi dispiace per la confusione di prima,” dissi cercando una conferma. L’uomo sorrise e ripeté le stesse parole, “La prego, non si preoccupi”. Poi chiese al cameriere che ci stava fissando da dietro al banco di versarmi una birra. Il barista cominciò a versare una mezza pinta di Kingfhisher al che il mio munifico creditore, con un tempismo meravigliosamente comico, esclamò in hindi “Dagliene una pinta, per Dio!”. Non avevo voglia di bere una vasca di lager, ma non mi sentivo neanche di interrompere questo strano rituale di generosità. Una parte di me stava ancora pensando: “perché uno dovrebbe rifiutare i soldi che gli sono legittimamente dovuti?”. Domandai, tanto per fare conversazione, “Com’è stato il lavoro stasera, duro?”.
“ Non mi importa,” disse sorridendo malizioso, battendosi con la mano la tasca dove aveva messo i soldi. “Questa è la mia serata fortunata.” Nel frattempo continuava il suo lavoro, riordinando tovaglioli e sottaceti. “Fortunata”? Cosa intendeva dire con “serata fortunata”? Quei soldi che gli avevo restituito erano suoi. Cosa aveva a che fare la fortuna con tutto questo? Trangugiai la birra, lasciando l’ultimo quarto per far vedere che non ero un ingordo. “Bene, arrivederci allora,” dissi cercando di distrarlo dalle sue pulizie.
“ Grazie mille, eh, grazie mille,” ripeté stringendomi la mano.
Ripercorrendo per la quarta volta Turnpike Lane quella sera risi forte. Era lo sguardo di stupore sul volto dei due camerieri dietro al banco che mi faceva ridere. Il vecchio cameriere che li rimproverava perché erano stati avari con la quantità della birra e lo sguardo sorpreso che seguiva il movimento della mia faccia, con la barba da fare, che si immergeva ed emergeva dal bicchiere gratis di birra. Alla fine rimasi con la strana impressione della riluttanza dimostrata dal mio cameriere nel riprendersi i suoi soldi. Mi venne in mente di quando ero in India e guardavo le facce serene dei viaggiatori, accovacciati nella polvere ad aspettare con calma l’autobus che era in ritardo di tre ore. Mi fece pensare con affetto a quest’angolo di India nel nord di Londra. Mi fece pensare alla mia vita, sempre alla ricerca di qualche cosa che non c’era, nel desiderio di qualcosa di meglio, inseguendo i rimpianti. Capii che quell’uomo mi aveva dimostrato il perdono, che ora ero io che dovevo perdonare me stesso e risvegliarmi dal torpore, come la linfa negli alberi a primavera. Avevo voglia di ridere. Per un uomo che riusciva così facilmente a venire a patti con una perdita e per il quale allo stesso modo, la vincita non rappresentava un gran che. Un uomo simile non poteva essere derubato né da me né dalla lotteria né da nessun altro. Volevo conservare un po’ di quello che mi aveva dimostrato. L’indomani, quando il resto della mia famiglia fosse tornato a casa e fossimo risaliti tutti nella nostra barca instabile, domattina, con la vela rattoppata e il remo vecchio, i bambini capricciosi, i miei averi sciupati e sparpagliati a terra e i nostri problemi sempre incombenti, volevo prendere una parte di quest’uomo e portarla con me in un taschino interno.



Note:
1) Office for Standard in Education: un’organizzazione che valuta i livelli di preparazione nelle scuole facendo delle visite periodiche (N.d.T.)


(Tratto da Riti di Primavera – nuovi racconti londinesi Centroscuola Edizioni, Mantova, 2000. Traduzione a cura di Marta Colombini.)


Ardashir Vakil è nato a Bombay. Il suo primo romanzo, Beach Boy, ha vinto il Betty Trask Award nel 1997 ed è stato nominato per il Whitebread First Novel Award. Vive a Londra e insegna Inglese in una scuola della città.


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