QUATTRO GABBIE

Alexander Brener / Barbara Schurz

1. La gabbia di Pisanello

C’è un disegno di Pisanello nel quale è raffigurata una graziosa gabbia, probabilmente la gabbia di un principe che amava divertirsi con gli uccelli da caccia. Molti lavori di Pisanello hanno per tema l’arte venatoria, un requisito importante per gli aristocratici del XV secolo. Pisanello, famoso maestro del primo Rinascimento italiano, lavorò soprattutto come artista di corte. Fu al servizio di potenti regnanti, come i Visconti a Milano, gli Este a Ferrara e i Gonzaga a Mantova. A Roma si dedicò alle monete e alle sculture antiche e lasciò scrupolosi appunti degli antichi modelli.
Pisanello creò affreschi su commissione, incise medaglie per le corti dei principi italiani ed eseguì ritratti delle personalità più insigni. Alla fine della sua carriera si trovava alla corte del re Alfonso V a Napoli. Morì all’improvviso a Roma, presumibilmente nel 1455. Tra le opere più conosciute ricordiamo l’ipnotico disegno “Visione di Sant’Eustachio” e l’ammaliante ritratto di Margherita Gonzaga. Il primo si trova alla National Gallery di Londra, il secondo al Louvre. Ma non è di questo che intendiamo parlare qui.
Vogliamo invece parlare del piccolo disegno con la gabbia di cui è rimasta unicamente una fotografia. La gabbia termina a punta, come una chiesa gotica, ed è vuota. Si trova quasi al centro del piccolo foglio di carta e, nell’angolo in alto a sinistra, è raffigurato un uccello, un falco da caccia. Come sempre Pisanello traccia la gabbia e il falco con grande precisione. Alcuni studiosi parlano addirittura del “naturalismo” dei disegni di Pisanello. Fu uno dei primi artisti del Rinascimento a prestare particolare attenzione agli studi sulla natura. Tuttavia non è difficile scoprire nel disegno con la gabbia, come in molti altri lavori di Pisanello, un singolare ed inquietante simbolismo. La gabbia è vuota ed è separata dal falco da una parte bianca del foglio, eppure lo sguardo del falco è rivolto verso la gabbia. Probabilmente questo falco è appena sfuggito all’angusta prigionia. Oppure vuole tornare alla cattività dietro le sbarre? Si è forse innamorato del suo padrone? O sogna addirittura di poterlo tradire? Falco e gabbia hanno in questo disegno un curioso rapporto di tensione. O è soltanto un’impressione? La fotografia non rende però tutte le sfumature dell’originale perduto.
Nel 1928 il collezionista milanese Giovanni Breda vendette questo disegno al dadaista Francis Picabia. Picabia, fortunato discendente ed erede di un ricco clan cubano, per tutta la vita privilegiò le auto costose e collezionò feticci africani. In uno dei suoi “manifesti”, redatto con Tristan Tzara, dichiarava: “L’onore può essere comprato e venduto come il culo. Il culo esprime e determina la vita. Il culo e le patate arrosto. E voi, miei compassati signore e signori, puzzate peggio di un culo. Puzzate peggio del letame e della merda umana. Solo Dada non ha alcun odore, perché Dada non è niente, assolutamente niente. Come le vostre speranze: niente.” Picabia era un buon artista poiché aveva compreso che l’arte è un privilegio che deve essere deriso e smascherato in tutti i modi.
Picabia era orgoglioso dell’acquisto del disegno; considerava Pisanello uno degli artisti più intelligenti ed eleganti della tradizione culturale europea. E scrisse di lui: “Pisanello fu il primo vero artista di stampo laico. Era un dandy ancor prima che i dandy venissero scoperti. Le sue opere raffiguravano cavalieri, farfalle, belle donne e denaro, ed egli non ci mise molto a capire che il denaro ama l’arte e che, viceversa, l’arte ama il denaro. Che artista acuto e schietto!”
Tuttavia Picabia, nonostante tutto il suo entusiasmo per il maestro italiano, perse subito il disegno con il falco e la gabbia. Almeno questo fu ciò che disse al suo amico Marcel Duchamp, che ebbe a cuore il destino del disegno alla fine degli anni Quaranta.
Duchamp voleva dare un’occhiata al disegno perché era sempre stato un appassionato di gabbie, trappole per topi, luoghi oscuri, scatolette foderate di velluto, armadi chiusi e vagine. Voleva vedere ancora una volta la struttura della gabbia di Pisanello, ma il disegno era scomparso. A quanto pare Picabia non diede una spiegazione convincente per la sua perdita. Evidentemente non si dispiaceva poi molto di aver perso il disegno. Negli anni a seguire si appassionò più alla pornografia che all’arte antica. Inoltre, alla fine degli anni Quaranta, il dadaista era molto malato. Soffriva di tabe dorsale, la conseguenza di una pluriennale sifilide.
Più tardi uno storico d’arte insinuò che Picabia avesse volontariamente distrutto il disegno, o che forse lo avesse fatto inavvertitamente, in un momento di debolezza. O che magari avesse bruciato la gabbia con il falco.
André Breton scrisse riguardo a Picabia: “Durante i nostri ultimi incontri a Saint Tropez nel 1951 parlava solo e soltanto del suo pene. Ammetteva di aver fatto uso d’oppio nella speranza di recuperare la sua perduta virilità. Poi mi condusse nel suo bordello preferito, nel quale aveva una speciale stanza d’osservazione. La maîtresse, sua conoscente, gli aveva assegnato una piccola stanza dalla quale, appollaiato su un alto sgabello come un vecchio pappagallo grigio nella sua gabbia, osservava attraverso uno spioncino i clienti e le ragazze. Propose anche a me di dare un’occhiata dallo spioncino, e citò Jarry: “Occhio sul fallo, aculei sul cactus…”. Disse che aveva trascorso molte ore felici in quello stanzino”.
Per concludere vogliamo riportare ancora un commento, sebbene questo non sia direttamente collegato con il racconto su Picabia e Pisanello. Quando un giornalista chiese a Jean Genet come fosse possibile che si ritrovasse così spesso e così a lungo dietro le sbarre per un crimine stupido come il furto di libri, il famoso scrittore rispose: “Sto in prigione perché odio tutte le altre istituzioni dello Stato!”

2. La gabbia di Ezra Pound

“Maledizione! Maledizione!”, esclamava di tanto in tanto il detenuto della cella a fianco. Ezra Pound sapeva che questo grido non era rivolto a lui, ma piuttosto al Signore Iddio. Tuttavia le grida e i gemiti altrui lo rendevano quanto mai nervoso. Disturbavano la sua concentrazione sul proprio destino, concentrazione che egli aveva sempre coltivato. Inoltre nessuno voleva spiegargli perché il suo vicino fosse finito in gabbia e di che cosa avesse così paura. A tutti i detenuti e alle guardie era stato severamente vietato parlare con Ezra Pound. Per motivi imprecisati era ritenuto lui, e non il suo vicino urlante, il prigioniero più pericoloso del campo.
La cella nella quale era confinato Ezra Pound era, secondo le sue parole, grande abbastanza per un puma, però l’Opossum (così Pound veniva chiamato dal suo allievo T.S. Eliot) si era rivelato più grande di un puma. La cella era alta tre metri e larga due, il pavimento era di cemento e il soffitto consisteva in una lamiera. Pound, che nei Cantos si era paragonato a Gesù Cristo, poteva stendere liberamente le braccia nella sua nuova dimora, ma fare ginnastica si rivelava problematico. Per il “più grande poeta dopo Dante” (come Pound si autodefinì in età matura), che durante tutta la vita aveva attribuito un significato di primo piano alla bellezza fisica, all’erotismo fonte di vita e al sesso solare, l’attività sportiva aveva quindi un grande valore. Ma come dicevamo prima: di questo non intendiamo parlare qui. Il maggio 1945, portatore di vittorie per i nemici e i compatrioti di Pound, catastrofico invece per i suoi amici italiani e tedeschi, volgeva alla fine. Ezra Pound aveva 59 anni. Detto onestamente, Pound era fortunato ad essere ancora in vita. I partigiani italiani che lo arrestarono a Rapallo normalmente fucilavano sul posto i sostenitori di Mussolini. Pound si salvò perché era americano e fu quindi consegnato all’esercito del suo paese. Si trovava in custodia cautelare in un campo militare statunitense nei pressi di Pisa, con l’accusa di tradimento verso la patria e i suoi interessi. Tradimento! Questo concetto e tutto ciò ad esso collegato entusiasmò Jean Genet. La posizione in cui si trovava Pound, però, non era certo allegra: pendeva su di lui una condanna a morte per le trasmissioni radiofoniche che aveva diffuso in inglese dalle stazioni radio fasciste a Roma, durante le quali derideva e insultava l’America e la Gran Bretagna e si infervoriva per Hitler e per “Ben”.
La sua cella si trovava a cielo aperto. In un angolo c’era un ciotola di latta per gli escrementi. Una volta al giorno Pound riceveva qualcosa da mangiare, mentre una volta ogni tre giorni gli era concesso di lasciare la gabbia per lavarsi e muoversi. Non gli venivano dati giornali e libri, ad eccezione della Bibbia. La cella era esposta all’osservazione da tutti e quattro i lati, ventiquattro ore al giorno. Di notte era illuminata da uno speciale riflettore che, con la sua luce abbagliante, non lo lasciava dormire. Una guardia era in servizio permanente vicino alla cella.
All’inizio del XX secolo Ruyard Kipling indicava il giovane Pound come uno dei più grandi poeti. Molti anni più tardi Allen Ginsberg parlava di lui con lo stesso entusiasmo. Nel 1967 portò al vecchio Pound a Venezia dei dischi di Bob Dylan e dei Beatles, insieme ad un grosso pacchetto di marijuana, un modesto regalo di compleanno per il suo poeta preferito. Pound rifiutò decisamente la marijuana e ascoltò con indifferenza la musica. Negli anni successivi iniziò a soffrire di depressione senile. Improvvisamente annunciò all'ossequioso beatnik seduto di fronte a lui, e che lo chiamava il “divino Krishna”, che i Cantos in verità altro non erano se non un miscuglio di stupidità ed ignoranza, e che la sua poesia “rispecchia, ma non rivela alcunché”. Poi, dopo una goffa pausa, il vecchio poeta ammise di essere spiacente del suo antisemitismo più di moltissimi altri. Lo definì uno "stupido pregiudizio suburbano" indegno di un artista. Questa rivelazione rallegrò Ginsberg, il quale così si espresse. "E’ meraviglioso sentire questo da voi. Ma non dimenticate che questo pregiudizio era parte del vostro modello di lavoro che si è rivelato molto fecondo”. Non vi fu risposta. Solo un prolungato silenzio. Poi, un "buona notte a tutti” appena percettibile.
Il personale del campo di prigionia di Pisa, che aveva ricevuto l'ordine di rinchiudere Pound nella gabbia, all'inizio non riusciva a capire come un vecchio dall’aspetto di raffinato esteta potesse essere così pericoloso. Il suo comportamento nella gabbia era più triste che selvaggio. Nel frattempo, solo dopo dodici ore dal suo arresto, giunse un telegramma cifrato del comandante generale delle operazioni militari nel Mediterraneo. Il telegramma conteneva istruzioni rigorose dirette al personale del campo e riguardanti l'arresto di Pound: "Sorveglianza permanente e impedimento di fuga o di suicidio. Nessun contatto con la stampa. Nessun trattamento privilegiato". Per essere decifrato il telegramma dovette essere portato alla vicina base militare. Per Pound ciò significò un isolamento ancora più severo. In quel campo si trovavano soprattutto soldati americani che si erano macchiati di vari crimini: soldati colpevoli di aver alzato la mano sui loro superiori, stupratori, ladri e assassini. I giornali americani scrivevano che lì venivano isolati "i sudici sedimenti delle truppe del Mediterraneo". Un’alta percentuale di essi era di colore. Cosa poteva pensare Pound di ciò? Spesso nelle sue poesie e nei suoi saggi definiva i neri "puzzolenti" o "scimmie", anche se ora non si trovava comunque nelle loro vicinanze: la sua gabbia fu posta nel luogo più isolato del campo. Di lì non poteva vedere che i secondini armati dei browning automatici, le postazioni notturne dei tiratori e in lontananza le tende dei detenuti comuni.
Non tutti i detenuti avevano l'onore di stare in una gabbia. Ufficialmente erano chiamate "celle di osservazione", ma dai detenuti erano dette le "celle della morte". Erano destinate sia al piccolo criminale, sia a coloro che aspettavano di essere trasportati a Napoli per l'esecuzione dopo essere stati giudicati dal tribunale militare. Nella sua prima notte di detenzione, due detenuti tentarono la fuga e furono freddati sul posto dalle guardie. Dopo questo evento si decise di rinforzare le celle e renderle più sicure. E dopo l'arrivo del telegramma del comandante, Pound trovò ospitalità in una nuova "cella di osservazione". Da ciò si poteva supporre che lui fosse il detenuto più pericoloso dell'intero campo.
Ezra Pound trascorse venticinque giorni in quella gabbia. Per tutto il tempo portò un elmetto militare e pantaloni mimetici che gli cadevano perché non aveva una cintura. I suoi stivali erano senza lacci, per impedirgli il suicidio. La sofisticata gabbia comprendeva pure un tetto di filo spinato, nonché pioli in acciaio sul pavimento di cemento. Più tardi Pound interpretò tale circostanza come un invito a tagliarsi le vene, e probabilmente era quello che anche lui voleva.
Giorno e notte la rossa barba a punta di Pound scintillava ai raggi del sole o alla luce artificiale dei riflettori dietro le sbarre metalliche della gabbia. Quella splendida barba rossa era un tempo sulle bocche di tutti nei salotti letterari di Londra e Parigi. Ed ora? C'era qualcosa di folle e di insopportabilmente straziante su quella barba, afferma un testimone.
Dalla gabbia erano visibili le lontane colline di Pisa coperte di pini. Ezra Pound vide per la prima volta quelle colline nel 1898. Aveva vent'anni ed era al suo primo viaggio in Italia; accompagnava la zia, una grande amante dell'arte. Più tardi, nel 1923, tornò in Italia con Ernest Hemingway che aveva convinto la moglie a compiere un viaggio a piedi attraverso la penisola. Mangiarono delicati formaggi caserecci, bevvero vino all'ombra degli alberi e Pound mostrò a "Hem" una piccola valle nella quale nel XV secolo il conte Malatesta sterminò i mercenari del papa suoi nemici. Quello stesso Malatesta che costrinse il proprio figlio alla sodomia minacciandolo con un pugnale…
Qualche anno più tardi Pound si ritrovò a scherzare sul carcere di Pisa: "Sì, mi presero per un tipo pericoloso, imprevedibile, e notai che avevano veramente paura di me. A volte vedevo su di me lo sguardo da giudice di un sorvegliante. Lo sguardo diceva: gorilla, nella tua gabbia! I soldati, quando non erano di servizio, mi venivano a guardare e provavano stupore. Mi gettavano un pezzo di carne o qualcosa di dolce, come ad una bestia. Il vecchio Ez: una vista eccitante ed avvincente".
Nel giugno del '45 non era però in vena di scherzi. Alla fine della seconda settimana in gabbia, secondo le parole di un custode, Pound “crollò”. Cadde in una profonda apatia, smise di mangiare e non si sollevava dalla sua stuoia. Uno dei due psichiatri del campo, il dottor Finner, scrisse nel suo referto: "Perdita di memoria quasi completa, debolezza, depressione, incubi…". Pound disse più tardi alla figlia di aver sofferto d'insolazione. La gabbia non riparava dai raggi del sole, anche se Pound si avvolgeva un fazzoletto bagnato intorno alla testa. D’altra parte era estate ed il sole del Mediterraneo batteva a picco su di lui…
Alla fine il "vecchio Ez" fu trasferito nella sezione medica e fu visitato da entrambi gli psichiatri. Per la prima mezz’ora riuscì a malapena a dire qualcosa e gli costò uno sforzo enorme concentrarsi sui suoi pensieri. Più tardi Pound confessò d'aver sofferto per l'immobilità a cui era costretto nella gabbia, per gli strazianti mal di testa ed un senso d'angoscia di cui non riusciva a liberarsi. I medici si consultarono mentre il paziente giaceva nel letto, ed arrivarono alla conclusione che l’età avanzata, i chiari sintomi di isteria, una incipiente disidratazione e l’esaurimento fisico rendevano necessaria una modifica delle condizioni di detenzione del prigioniero. Richiesero quindi ai superiori del campo di trasferire Pound dalla gabbia alla tenda. Inoltre consigliarono che il poeta, già sotto tutela, fosse portato il più presto possibile in America o altrove, dove potesse restare sotto osservazione costante e ricevere un adeguato trattamento medico.
Quella richiesta ufficiale fu per Pound di grande aiuto. Personalmente nutriva ben poche simpatie per la categoria degli psichiatri, e si faceva spesso e volentieri scherno di "Sigmund il ciarlatano". "Proust e Freud sono due splendidi mucchi di merda, dei quali l'intellighenzia si rallegra, poiché essi si sono ornati con raffinati arabeschi". Oppure: "Grazie a Freud e a Dostoevskij abbiamo ora un esercito di nevrastenici, alle prese solo con le sue insignificanti interiora…"
L'intercessione dei medici ottenne i suoi risultati. La tenda dove di lì a pochi giorni fu trasferito sembrava, in confronto all'orribile gabbia, un vero e proprio lusso. Pound vi trovò una branda, un tavolino e due sgabelli. Gli furono resi la cintura e i lacci. Al mattino iniziò a fare ginnastica, e per di più ricevette il permesso di usare una macchina da scrivere, con la quale non solo poté scrivere lettere ai suoi compagni detenuti, ma anche le poesie che avrebbero poi fatto parte dei Cantos Pisani.
Documenti di archivio e monografie, lettere e memorie testimoniano del fatto che furono numerosi coloro che accompagnarono il destino di Pound nel periodo in cui rimase nel campo. Vi furono gli sguardi degli amici T.S. Eliot e di Archibald McLeish, i quali tentarono di aiutare il vecchio sodale in tutti i modi. Vi fu lo sguardo dell’establishment di Washington, dei politici e funzionari di giustizia che si chiesero come dovessero agire nei confronti del letterato ribelle. Vi fu lo sguardo dei giornalisti di quotidiani e riviste, che discutevano la scandalosa vicenda del Pound traditore rinchiuso in una gabbia da animali. E vi fu infine lo sguardo dei suoi familiari…
Nel momento in cui vengono scritte queste frasi, gabbie del tutto simili a quella di Pound si trovano a Cuba e nella base americana della Baia di Guantanamo. In queste gabbie sono rinchiusi combattenti islamici catturati in Afghanistan ed accusati di attività terroristica. L'America definisce il loro status come quello di "unlawful combatents". Non si sa se tra di loro vi siano poeti della stessa risma di Pound, ah-ah-ah… Alla sorte di questi detenuti (la maggioranza dei quali è senza nome) è ora rivolta l'attenzione di molte persone e di intere istituzioni statali e di organizzazioni internazionali, come ad esempio Amnesty International. I mass-media si chiedono in che misura tali condizioni di reclusione siano conformi alla Convenzione di Ginevra e alle regole di una società civile. Il ministro degli esteri britannico ha criticato, ad esempio, i metodi brutali dei campi di prigionia e ha affermato che quando si condanna qualcuno per terrorismo, “si devono guardare entrambe le facce della medaglia”... Ciò significa non solo condannare il criminale, ma anche farlo in modo umano e civile…

"Entrambe le facce della medaglia?" Come si può non pensare in tal caso al "vecchio Ez"? Olga Rudge, amica di lunga data di Pound, dopo la sua morte rise dei suoi invadenti biografi: "Mi telefonano e mi dicono di voler scrivere un libro onesto su Pound, nel quale vengono analizzate entrambe le facce del poeta. Entrambe le facce?! Entrambe le facce!! Ma di cosa stanno parlando? Ezra Pound non era mica una frittata!"

3. La gabbia del coniglio Leo

Il Museo L. D. Trotskij di Città del Messico si trova in un triste stato di abbandono. Anche la fiabesca Villa di Frida Kahlo e Diego Rivera versa nelle stesse condizioni, ma a differenza di quest’ultima il museo non è sponsorizzato dalle istituzioni messicane per la cultura e si trova invece sotto la custodia di un gruppo di trotskisti internazionalisti. Fondamentalmente sono i britannici, oltre agli attivisti statunitensi, a mettere a disposizione i pochi mezzi per la conservazione del museo. E questo benché non siano pochi coloro che vengono a visitare il memoriale.
Dopo aver pagato il biglietto, il visitatore giunge dapprima in una libreria in cui vengono venduti libri di letteratura trotskista, diponibili in diverse lingue. Da lì si accede poi all’ampio cortile interno della casa, costruita come una fortezza con un alto muro di argilla e torri di osservazione. In mezzo al cortile c’è la Tomba di Trotskij, un piccolo obelisco con una stella pentagonale scolpita nella pietra. Sopra l’obelisco si trova una bandiera rossa abbassata e tutt’intorno crescono palme ed altre magnifiche piante tropicali che sembrano tanti millepiedi. Un grande trotskista inglese dai capelli rossi, con una camicia blu dell’esercito intrisa di sudore e una fascietta rosso scarlatto al braccio, invita ad entrare nelle semplici, quasi ascetiche stanze personali del leader: nel piccolo salotto con sedie di vimini e un basso sofà, nello studio pieno di giornali ingialliti e con un libro di Majakovski sul tavolo, nel misero gabinetto e nella camera da letto con due lettini…C’è anche una vasca da bagno rotta e per un qualche motivo bagnata, ed un asciugamano appeso ad un gancio…Tutto è vecchio e consunto, tuttavia accogliente…(Forse i trotskisti trascorrono la notte qui e si preparano da mangiare in cucina?) La guida inglese mostra con orgoglio i segni delle pallottole sul muro e spiega come e quando il gruppo stalinista di Siqueiros tentò invano un attentato…
I visitatori entrano poi, passando di nuovo per il cortile, in un edificio vuoto con pavimento in pietra e alcune casse. Qui sono conservati documenti e testi pubblicati ai tempi di Trotskij; alla pareti sono appese rare fotografie che mostrano Trotskij durante il suo ultimo periodo in Messico. Si vede lui con Breton, Rivera e Kahlo sotto un albero gigantesco; c’è di nuovo lui con Frida, di cui è innamorato e che stringe contro la sua spalla; c’è lui con la sua gente, con quelli che hanno in custodia la casa… In qualche fotografia Trotskij sembra un pacifico e sfinito intellettuale, in altre un terribile e mistico vampiro. Aveva un volto bizzarro ed incredibile, con una larga fronte da bambino e un mento piccolo ma altrettanto infantile, appesantito da una leggera barba… Le labbra, come se si fossero appena staccate da un seno femminile… Un’espressione allo stesso tempo graziosa e ripugnante… Qui legge il New York Times, come se cercasse di imitare Lenin mentre legge la Pravda… La foto più straziante è quella in cui è ritratto subito dopo che Mercader gli inflisse in colpo mortale. Due detective messicani che sembrano gangster americani, vestiti in doppiopetto, cravatte a righe e cappelli sconci, sorreggono lui, la colonna portante della rivoluzione russa, da sotto le braccia. Lo schiacciano addirittura con i loro abbracci, come due gendarmi mascherati. Il vecchio, debole ma tuttavia terribile rivoluzionario. Se si osserva attentamente questa fotografia ci si accorge che non si tratta di un vecchio ribelle caduto nelle grinfie di una potenza straniera, ma piuttosto di uno che cerca protezione presso quei poliziotti bastardi, li implora, nel suo ultimo impulso di vendetta… Spera ancora in una rivincita… E nella seguente e terribile fotografia è già in agonia, con la mascella penzolante…
A questo punto la guida trotskista lascia finalmente liberi i visitatori per occuparsi del nuovo gruppo… Ottimo: ora si può girare liberamente per il museo e osservare tutto con calma…
Nel giardino si scorge un piccolo zoo. A Trotskij piacevano le piccole creature: lepri, scoiattoli, criceti… Li allevava nella sua fortezza… E più di sessant’anni dopo la sua morte qui ci sono ancora gabbie con porcellini d’India e conigli. Tutto come ai suoi tempi, secondo quello che dice il tipo inglese…
Dobbiamo ammetterlo: una delle gabbie è del tutto singolare, come fosse stregata. Dentro vi è seduto un grosso coniglio nero. Solitamente si dice che persone pesanti e formose si vestano di nero per nascondere la loro mole. Probabilmente è così, ma questa regola non si può applicare ai conigli, o almeno a questo coniglio, che riempie l’intera gabbia pur non riuscendo evidentemente a starvi. Il suo corpo vellutato sporge attraverso le sezioni di filo metallico: i suoi fianchi fuoriescono come morbidi cuscinetti, sporgono anche le orecchie senza peli, il muso con gli occhi rossi è allungato verso l’esterno e il naso rosa trema ininterrottamente, come l’ano di una danzatrice esotica. Questi conigli sembrano estremamente indecenti e allo stesso tempo miseri. Altro che animali rivoluzionari, una razza borghese con la pancia piena!
“ Vedete…”, la voce del trotskista, che si è avvicinato senza farsi notare, ci risuona improvvisamente accanto. “Vedete, Lev Davidovic possedeva un coniglio simile. Proprio un gigantesco coniglio nero! E Trotskij lo amava alla follia, secondo quanto si racconta. Il coniglio di Trotskij si chiamava Leo, e anche questo si chiama Leo. Questo Leo è probabilmente il pronipote di quello che mangiava dalle mani di Trotskij… Il nostro Leo è però ingrassato e non può più uscire dalla sua gabbia, ah ah ah… E a noi naturalmente dispiace distruggere questa gabbia che Trotskij in persona ha costruito… Ha fatto tutto con le sue mani.”
Il trotskista allunga la sua pesante mano verso il secchio in cui galleggiano carote enormi, e ne estrae una manciata. Allunga poi le carote verso le gabbie degli animali. Ancora una carota, un’altra ancora… Il coniglio Leo riceve per ultimo la sua leccornia e inizia subito a rosicchiarla muovendo il naso. La gabbia gli risulta scomoda, la carota gli scivola e non può aiutarsi con le zampe. Il trotskista arriva in tempo ad aiutarlo e imbocca il coniglio direttamente con la mano. Il coniglio fruga con il naso nel palmo della mano del trotskista e lascia una brillante umida traccia… Entrambi torcono gli occhi per il piacere… Ad essere sinceri, è uno spettacolo ripugnante…

4. La gabbia della zanzara

A San Francisco vive una scrittrice non molto conosciuta (ma neanche tanto marginale) di nome Jane Ellis. I critici la paragonano al Marchese De Sade e ad una “pazza sacerdotessa azteca la quale aveva in mente di allontanare dalla Chiesa un vecchio inquisitore impotente ricorrendo alla tortura ed ad un erotismo suicida". È già sulla cinquantina e, per ciò che si riesce a vedere nella fotografia, tutto il suo corpo è coperto di tatuaggi come quello di un pirata. Ellis inizia la sua breve autobiografia letteraria con le seguenti parole: "Sono un'outsider, lesbica e femminista…". Negli anni Settanta era la solista del gruppo punk Cum Obsession e scriveva i testi per altri gruppi rock. Negli anni Ottanta pubblicò poesie, volumi di prosa e il romanzo di fantascienza Rossetto nero. Successivamente apparve Ossa tenere, un libro nel quale Ellis sperimentava vari generi letterari: reportage, teatro, poesia, sceneggiatura, racconto, romanzo… All'inizio dovette risolvere un annoso problema, posto nell’ambito della letteratura americana da Capote e Burroughs: come può uno scrittore o una scrittrice rendere la sua esperienza di vita in una forma il più possibile compressa? Come si possono fondere in un'opera letteraria analisi politica e follia alcolica, saggistica filosofica e fobie notturne, appunti di viaggio e urla cupe? E’ un compito molto complicato e rischioso, di cui esiste un’esatta formulazione teorica nei lavori di Barthes, Foucault, Deleuze e Agamben.
C'è un frammento in Ossa tenere di Jane Ellis sul miliardario californiano Bob Mansaree, il quale, reso quasi pazzo per l’abuso di Dexedrina e gli eccessi di sesso di gruppo, decide di rinchiudersi in completo isolamento in una gabbia di platino. A che scopo? Per purificarsi, per compiere una catarsi, per diventare un altro… Malgrado tutta la sua ricchezza, Mansaree non riesce a sfuggire al pensiero che nel mondo vi siano milioni di persone in prigione destinate e morire e vi siano vecchi e bambini che muoiono di fame. Invece di fondare un’organizzazione umanitaria o altri programmi di aiuto al terzo mondo, contatta una ditta specializzata in edifici di alta sicurezza, la quale viene incaricata di costruirgli una favolosa gabbia. Colloca in seguito la gabbia nella sua tenuta in una segreta orangerie sotterranea e ordina alla sua bodyguard - e ostaggio - di colore, a nome Thelma, di rinchiuderlo nella gabbia e di gettare via la chiave. Dopo una notte di smisurate tenerezze e di orribili eccessi gastro-narcotici, Thelma rinchiude nella gabbia Mansaree privo di sensi e distrugge la chiave in perfetto accordo con i desideri di lui. Rinchiuso così nella trappola di platino sepolta nel bunker botanico, egli non ha più nessuna speranza di poter uscire, dato che non c’è anima viva che sappia dove Mansaree si trovi. Nel suo ufficio siede il suo sosia. Quel bastardo alla fine seduce Thelma, e questo peggiora la misera condizione dell'eroe. Il che, del resto, non è poi cosa tanto tragica.
Mansaree ha una scorta di cibo e di bevande in cantina, e passa le giornate ad osservare le piante della serra… Ciò ha su di lui un effetto salutare … Si sarebbe del tutto sentito riconciliato se non vi fosse stata una circostanza insopportabile: una fastidiosa zanzara. Un minuscolo ma insaziabile vampiro. Ma da dove veniva? Una volta Mansaree provò involontariamente a grattarsi una spalla, e scoprì in tal modo l'esistenza dell'odioso insetto. Anatema!
Quella zanzara è simile al selvaggio Venerdì nella storia di Robinson-Mansaree. Dal primo momento della sua comparsa l’eroe si trasforma sempre più. Ciò succede perché la zanzara succhia il suo sangue? Probabilmente no, si tratta di un qualcosa di più spirituale. Mansaree comprende che la zanzara è la sua unica compagna e che è meglio non disprezzarla. E il sangue, cos’è poi il sangue? Perdere sangue è una cosa assolutamente normale, tutte le donne e tutti i soldati lo sanno bene… Improvvisamente Mansaree riconosce che nella sua relazione con la zanzara lui è la donna e la zanzara l’uomo. Forse l’eroe perde a poco a poco il lume della ragione, ma è probabile che diventerà un santo. Anche Jean Genet alla fine pensava di essere un santo! Era proprio quello che pensava! E’ noto che l’autore di “Diario di un ladro” anni dopo smise quasi del tutto di lavarsi, viveva principalmente in alberghi economici nei pressi delle stazioni e possedeva solo un vestito, quello che indossava. Secondo quanto racconta il regista Claude Chabrol, puzzava in maniera disgustosa e non riconosceva i suoi amici. Quindi: se Genet voleva essere un santo, perché mai Mansaree doveva essere peggio di Genet? E portando il pensiero alle estreme conseguenze: perché mai la zanzara doveva essere peggio di Mansaree? La parità può essere solo assoluta, altrimenti non si parla di parità, ma di ipocrisia borghese. E’ questa la conclusione a cui arriva l’eroe di Ossa tenere, e in essa vi è una certa logica! Noi osserviamo, tra parentesi, che questa logica non è solo di Mansaree; esisteva prima di Mansaree ed era per esempio propria di Francesco D’Assisi, che considerava gli uccelli, l’avena, il sole e i maiali come fratelli e sorelle. E’ del resto la logica di tutti i mistici, i vagabondi e gli anarchici.
Ciò che più stupisce è il fatto che la zanzara approvi la logica di Mansaree. Perché allora la sanguinosa creatura si rifiuterebbe di abbandonare la gabbia di platino del recluso miliardario? A lui sembra che sia veramente così: in base alle sue osservazioni, la zanzara non vola mai neanche per un secondo oltre le sbarre, anche se lei a differenza di lui potrebbe farlo. Solo raramente si alza in volo ed è grazie al fievole e malinconico ronzio che Mansaree lo capisce. Altrimenti l’insetto resta appoggiato sulla pelle del carcerato, solitamente sui posti più morbidi: sull’inguine, sui lobi delle orecchie, sul collo, sulle labbra… Grazie alla zanzara, Mansaree capisce la verità di Lacan, ovvero che l’essere è un gioco intersoggettivo della coscienza che si riflette all’infinito in se stessa. Questo gioco insulso e demoralizzante ha una sola via d’uscita: concentrarsi sul desiderio. E’ necessario trovare e comprendere il proprio desiderio e, costi quello che costi, non venir mai meno ad esso. Come il capitano Achab, come Emma Goldman, come Che Guevara… Come, se è proprio necessario, Jack Lo Squartatore… Il povero Mansaree si concentra, si concentra, si concentra, e alla fine capisce di volere solo una cosa: sottrarsi a quella terribile gabbia, alla luce del giorno, e accoppiarsi con l’affascinante Thelma… E qui prova un senso di totale devastazione e di profonda delusione: può il coito essere l’essenza di un desiderio autentico? … Impossibile, ridicolo!… E di nuovo quest’insopportabile prurito sul gomito… Fick-fick!... Che succede? Decide così di porre fine all’esistenza della zanzara. L’uccide.
Una volta anche Tolstoij, in presenza del suo amico e compagno di fede politica Certkov, uccise una zanzara che gli si era posata sulla fronte. E per questo gesto ricevette da Certkov un pesante rimprovero. I membri della comunità tolstoiana dicevano che gli esseri viventi non dovevano essere torturati o uccisi, neppure quelli che loro chiamavano i più primitivi.
Alla fine Mansaree muore nella gabbia, senza aver coronato il suo desiderio. Muore sottoterra, come una pecora o un porcellino clonati, abbandonati dal dispotismo del destino. Uno scherzo del destino? Un mistero? Il desiderio è dunque un privilegio come l’istruzione, l’arte figurativa e un solido conto corrente bancario? A questa domanda idiota non c’è alcuna risposta. Lacan era già morto, altrimenti Mansaree avrebbe potuto chiederlo a lui.
Il cadavere nella gabbia puzza e si decompone, ma lì vicino non c’è nessuno che lanci un grido, o almeno faccia una smorfia per il lezzo insopportabile.

Invece di una quinta gabbia

Molti anni fa, quando Nathaniel Hawthorne scrisse “La lettera scarlatta” e Lev Tolstoj “Anna Karenina”, gli scrittori vivevano in una società molto più repressiva e meno liberale di quella odierna. Hawthorne e Tolstoj scrissero di donne che sfidarono le convenzioni sociali dei loro tempi coltivando rapporti di sesso con uomini che non erano i loro mariti e non avevano alcuna intenzione di diventarlo. La società punì entrambe quelle donne nel modo più duro: una fu rinchiusa in prigione e le fu marchiata sul petto la vergognosa lettera rossa A (adulterio), mentre l’altra fu costretta a gettarsi sotto un treno. In una società moderna, almeno nella misura in cui essa non abbracci il fondamentalismo religioso, le donne possono andare a letto con chi vogliono, così come possono scrivere di qualsiasi cosa. E’ chiaro però che ci sono sempre dei limiti: non è permesso loro andare a letto con i bambini, per esempio… Tuttavia queste rare eccezioni sottolineano nel complesso la tolleranza e la flessibilità della società. Tutto quello che conta per i membri della società odierna è, detto in termini spicci, il denaro. Perciò gli scrittori potrebbero facilmente immaginare la singolare situazione in cui una donna disprezza il denaro, o semplicemente non le interessa, e viene considerata quindi un elemento sociale indesiderato, alla stessa stregua di una moglie infedele, o addirittura dell’assassina più improbabile che da brava cittadina paga le tasse. Kathy Acker amava descrivere tali situazioni, così come Jane Ellis. Le eroine passionali non finiscono più in galera, non svaligiano una banca, e le stesse prigioni sono diventare nel frattempo un business come i supermercati.
E’ interessante anche il fatto che quando Hawthorne e Tolstoj scrivevano i loro libri, le loro opere avevano un significato per la società di allora. Era addirittura accettato il fatto che alcuni libri fossero pericolosi e dannosi per la società, che minassero le leggi religiose e morali sulle quali si basava l’ordine sociale. Per questi motivi Hawthorne, per esempio, ambientò il suo romanzo nel passato e scrisse nell’introduzione che il libro non aveva nulla a che fare con i suoi contemporanei. Non voleva doversi confrontare con lo stupido consenso puritano che avrebbe potuto diffamare o vietare l’uscita del libro.
Oggi gli scrittori possono scrivere e pubblicare tutto ciò che passa loro per la mente, sempre che non intervenga l’Ayatollah Khomeini a decretare la condanna a morte dell’autore di un libro. Tuttavia, anche se intervisse l’Ayatollah, il danno non sarebbe poi così grave: anzi, con la sua pubblicità al contrario (ma pur sempre pubblicità), egli ha il potere di rendere grande anche lo scrittore più mediocre. Questo significa che tutti possono scrivere e pubblicare di tutto, e ciò lascia tutti nella più totale indifferenza, dato che nessuno attribuisce più importanza allo scrivere e alle idee. Lo ripetiamo in termini spicci: solo il denaro condiziona persone e nazioni. Perciò un’opera letteraria viene considerata veramente di successo solo se la casa editrice può venderla alla televisione o all’industria cinematografica. In questo caso il libro vende bene e le parole dello scrittore fanno il giro del mondo come un uccello d’acciaio.
Sembra quindi che alla fine siano sbucati alla luce, dopo i tempi cupi della repressione puritana, zarista, comunista e altro ancora. Ognuno può dire e scrivere quello che pensa, che sogna, che lo emoziona. Il progresso esiste, nonostante tutto. E chi non è soddisfatto, può mettersi tranquillamente a sniffare cocaina
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(Traduzione a cura di: Chemello Benetta, Fasolo Laura e Mattiello Gianpaolo, allievi del corso di Traduzione dal Tedesco III presso la “Scuola Superiore Universitaria per Traduttori e Interpreti” di Vicenza, con la supervisione del Prof. Bruno Persico.)


Alexander Brener è nato ad Alma-Ata, in Kazahstan, nel 1961. Ha compiuto studi di pedagogia (1981), per poi dedicarsi pienamente all'arte performativa e alla letteratura. Ha esposto in molte sedi europee e pubblicato diversi libri. Dall'1988 al 1990 ha vissuto in Israele, oggi risiede a Vienna. E uno degli artisti russi contemporanei piu controversi e radicali.




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