QUATTRO
GABBIE
Alexander
Brener / Barbara Schurz
1.
La gabbia di Pisanello
C’è un
disegno di Pisanello nel quale è raffigurata una graziosa
gabbia, probabilmente la gabbia di un principe che amava divertirsi
con gli uccelli da caccia. Molti lavori di Pisanello hanno
per tema l’arte venatoria, un requisito importante per
gli aristocratici del XV secolo. Pisanello, famoso maestro
del primo Rinascimento italiano, lavorò soprattutto
come artista di corte. Fu al servizio di potenti regnanti,
come i Visconti a Milano, gli Este a Ferrara e i Gonzaga a
Mantova. A Roma si dedicò alle monete e alle sculture
antiche e lasciò scrupolosi appunti degli antichi modelli.
Pisanello creò affreschi su commissione, incise medaglie
per le corti dei principi italiani ed eseguì ritratti
delle personalità più insigni. Alla fine della
sua carriera si trovava alla corte del re Alfonso V a Napoli.
Morì all’improvviso a Roma, presumibilmente nel
1455. Tra le opere più conosciute ricordiamo l’ipnotico
disegno “Visione di Sant’Eustachio” e l’ammaliante
ritratto di Margherita Gonzaga. Il primo si trova alla National
Gallery di Londra, il secondo al Louvre. Ma non è di questo
che intendiamo parlare qui.
Vogliamo invece parlare del piccolo disegno con la gabbia di
cui è rimasta unicamente una fotografia. La gabbia termina
a punta, come una chiesa gotica, ed è vuota. Si trova
quasi al centro del piccolo foglio di carta e, nell’angolo
in alto a sinistra, è raffigurato un uccello, un falco
da caccia. Come sempre Pisanello traccia la gabbia e il falco
con grande precisione. Alcuni studiosi parlano addirittura del “naturalismo” dei
disegni di Pisanello. Fu uno dei primi artisti del Rinascimento
a prestare particolare attenzione agli studi sulla natura. Tuttavia
non è difficile scoprire nel disegno con la gabbia, come
in molti altri lavori di Pisanello, un singolare ed inquietante
simbolismo. La gabbia è vuota ed è separata dal
falco da una parte bianca del foglio, eppure lo sguardo del falco è rivolto
verso la gabbia. Probabilmente questo falco è appena sfuggito
all’angusta prigionia. Oppure vuole tornare alla cattività dietro
le sbarre? Si è forse innamorato del suo padrone? O sogna
addirittura di poterlo tradire? Falco e gabbia hanno in questo
disegno un curioso rapporto di tensione. O è soltanto
un’impressione? La fotografia non rende però tutte
le sfumature dell’originale perduto.
Nel 1928 il collezionista milanese Giovanni Breda vendette questo
disegno al dadaista Francis Picabia. Picabia, fortunato discendente
ed erede di un ricco clan cubano, per tutta la vita privilegiò le
auto costose e collezionò feticci africani. In uno dei
suoi “manifesti”, redatto con Tristan Tzara, dichiarava: “L’onore
può essere comprato e venduto come il culo. Il culo esprime
e determina la vita. Il culo e le patate arrosto. E voi, miei
compassati signore e signori, puzzate peggio di un culo. Puzzate
peggio del letame e della merda umana. Solo Dada non ha alcun
odore, perché Dada non è niente, assolutamente
niente. Come le vostre speranze: niente.” Picabia era un
buon artista poiché aveva compreso che l’arte è un
privilegio che deve essere deriso e smascherato in tutti i modi.
Picabia era orgoglioso dell’acquisto del disegno; considerava
Pisanello uno degli artisti più intelligenti ed eleganti
della tradizione culturale europea. E scrisse di lui: “Pisanello
fu il primo vero artista di stampo laico. Era un dandy ancor
prima che i dandy venissero scoperti. Le sue opere raffiguravano
cavalieri, farfalle, belle donne e denaro, ed egli non ci mise
molto a capire che il denaro ama l’arte e che, viceversa,
l’arte ama il denaro. Che artista acuto e schietto!”
Tuttavia Picabia, nonostante tutto il suo entusiasmo per il maestro
italiano, perse subito il disegno con il falco e la gabbia. Almeno
questo fu ciò che disse al suo amico Marcel Duchamp, che
ebbe a cuore il destino del disegno alla fine degli anni Quaranta.
Duchamp voleva dare un’occhiata al disegno perché era
sempre stato un appassionato di gabbie, trappole per topi, luoghi
oscuri, scatolette foderate di velluto, armadi chiusi e vagine.
Voleva vedere ancora una volta la struttura della gabbia di Pisanello,
ma il disegno era scomparso. A quanto pare Picabia non diede
una spiegazione convincente per la sua perdita. Evidentemente
non si dispiaceva poi molto di aver perso il disegno. Negli anni
a seguire si appassionò più alla pornografia che
all’arte antica. Inoltre, alla fine degli anni Quaranta,
il dadaista era molto malato. Soffriva di tabe dorsale, la conseguenza
di una pluriennale sifilide.
Più tardi uno storico d’arte insinuò che
Picabia avesse volontariamente distrutto il disegno, o che forse
lo avesse fatto inavvertitamente, in un momento di debolezza.
O che magari avesse bruciato la gabbia con il falco.
André Breton scrisse riguardo a Picabia: “Durante
i nostri ultimi incontri a Saint Tropez nel 1951 parlava solo
e soltanto del suo pene. Ammetteva di aver fatto uso d’oppio
nella speranza di recuperare la sua perduta virilità.
Poi mi condusse nel suo bordello preferito, nel quale aveva una
speciale stanza d’osservazione. La maîtresse, sua
conoscente, gli aveva assegnato una piccola stanza dalla quale,
appollaiato su un alto sgabello come un vecchio pappagallo grigio
nella sua gabbia, osservava attraverso uno spioncino i clienti
e le ragazze. Propose anche a me di dare un’occhiata dallo
spioncino, e citò Jarry: “Occhio sul fallo, aculei
sul cactus…”. Disse che aveva trascorso molte ore
felici in quello stanzino”.
Per concludere vogliamo riportare ancora un commento, sebbene
questo non sia direttamente collegato con il racconto su Picabia
e Pisanello. Quando un giornalista chiese a Jean Genet come fosse
possibile che si ritrovasse così spesso e così a
lungo dietro le sbarre per un crimine stupido come il furto di
libri, il famoso scrittore rispose: “Sto in prigione perché odio
tutte le altre istituzioni dello Stato!”
2.
La gabbia di Ezra Pound
“Maledizione!
Maledizione!”, esclamava di tanto in tanto il detenuto
della cella a fianco. Ezra Pound sapeva che questo grido non
era rivolto a lui, ma piuttosto al Signore Iddio. Tuttavia
le grida e i gemiti altrui lo rendevano quanto mai nervoso.
Disturbavano la sua concentrazione sul proprio destino, concentrazione
che egli aveva sempre coltivato. Inoltre nessuno voleva spiegargli
perché il suo vicino fosse finito in gabbia e di che
cosa avesse così paura. A tutti i detenuti e alle guardie
era stato severamente vietato parlare con Ezra Pound. Per motivi
imprecisati era ritenuto lui, e non il suo vicino urlante,
il prigioniero più pericoloso del campo.
La cella nella quale era confinato Ezra Pound era, secondo le
sue parole, grande abbastanza per un puma, però l’Opossum
(così Pound veniva chiamato dal suo allievo T.S. Eliot)
si era rivelato più grande di un puma. La cella era alta
tre metri e larga due, il pavimento era di cemento e il soffitto
consisteva in una lamiera. Pound, che nei Cantos si era paragonato
a Gesù Cristo, poteva stendere liberamente le braccia
nella sua nuova dimora, ma fare ginnastica si rivelava problematico.
Per il “più grande poeta dopo Dante” (come
Pound si autodefinì in età matura), che durante
tutta la vita aveva attribuito un significato di primo piano
alla bellezza fisica, all’erotismo fonte di vita e al sesso
solare, l’attività sportiva aveva quindi un grande
valore. Ma come dicevamo prima: di questo non intendiamo parlare
qui. Il maggio 1945, portatore di vittorie per i nemici e i compatrioti
di Pound, catastrofico invece per i suoi amici italiani e tedeschi,
volgeva alla fine. Ezra Pound aveva 59 anni. Detto onestamente,
Pound era fortunato ad essere ancora in vita. I partigiani italiani
che lo arrestarono a Rapallo normalmente fucilavano sul posto
i sostenitori di Mussolini. Pound si salvò perché era
americano e fu quindi consegnato all’esercito del suo paese.
Si trovava in custodia cautelare in un campo militare statunitense
nei pressi di Pisa, con l’accusa di tradimento verso la
patria e i suoi interessi. Tradimento! Questo concetto e tutto
ciò ad esso collegato entusiasmò Jean Genet. La
posizione in cui si trovava Pound, però, non era certo
allegra: pendeva su di lui una condanna a morte per le trasmissioni
radiofoniche che aveva diffuso in inglese dalle stazioni radio
fasciste a Roma, durante le quali derideva e insultava l’America
e la Gran Bretagna e si infervoriva per Hitler e per “Ben”.
La sua cella si trovava a cielo aperto. In un angolo c’era
un ciotola di latta per gli escrementi. Una volta al giorno Pound
riceveva qualcosa da mangiare, mentre una volta ogni tre giorni
gli era concesso di lasciare la gabbia per lavarsi e muoversi.
Non gli venivano dati giornali e libri, ad eccezione della Bibbia.
La cella era esposta all’osservazione da tutti e quattro
i lati, ventiquattro ore al giorno. Di notte era illuminata da
uno speciale riflettore che, con la sua luce abbagliante, non
lo lasciava dormire. Una guardia era in servizio permanente vicino
alla cella.
All’inizio del XX secolo Ruyard Kipling indicava il giovane
Pound come uno dei più grandi poeti. Molti anni più tardi
Allen Ginsberg parlava di lui con lo stesso entusiasmo. Nel 1967
portò al vecchio Pound a Venezia dei dischi di Bob Dylan
e dei Beatles, insieme ad un grosso pacchetto di marijuana, un
modesto regalo di compleanno per il suo poeta preferito. Pound
rifiutò decisamente la marijuana e ascoltò con
indifferenza la musica. Negli anni successivi iniziò a
soffrire di depressione senile. Improvvisamente annunciò all'ossequioso
beatnik seduto di fronte a lui, e che lo chiamava il “divino
Krishna”, che i Cantos in verità altro non erano
se non un miscuglio di stupidità ed ignoranza, e che la
sua poesia “rispecchia, ma non rivela alcunché”.
Poi, dopo una goffa pausa, il vecchio poeta ammise di essere
spiacente del suo antisemitismo più di moltissimi altri.
Lo definì uno "stupido pregiudizio suburbano" indegno
di un artista. Questa rivelazione rallegrò Ginsberg, il
quale così si espresse. "E’ meraviglioso sentire
questo da voi. Ma non dimenticate che questo pregiudizio era
parte del vostro modello di lavoro che si è rivelato molto
fecondo”. Non vi fu risposta. Solo un prolungato silenzio.
Poi, un "buona notte a tutti” appena percettibile.
Il personale del campo di prigionia di Pisa, che aveva ricevuto
l'ordine di rinchiudere Pound nella gabbia, all'inizio non riusciva
a capire come un vecchio dall’aspetto di raffinato esteta
potesse essere così pericoloso. Il suo comportamento nella
gabbia era più triste che selvaggio. Nel frattempo, solo
dopo dodici ore dal suo arresto, giunse un telegramma cifrato
del comandante generale delle operazioni militari nel Mediterraneo.
Il telegramma conteneva istruzioni rigorose dirette al personale
del campo e riguardanti l'arresto di Pound: "Sorveglianza
permanente e impedimento di fuga o di suicidio. Nessun contatto
con la stampa. Nessun trattamento privilegiato". Per essere
decifrato il telegramma dovette essere portato alla vicina base
militare. Per Pound ciò significò un isolamento
ancora più severo. In quel campo si trovavano soprattutto
soldati americani che si erano macchiati di vari crimini: soldati
colpevoli di aver alzato la mano sui loro superiori, stupratori,
ladri e assassini. I giornali americani scrivevano che lì venivano
isolati "i sudici sedimenti delle truppe del Mediterraneo".
Un’alta percentuale di essi era di colore. Cosa poteva
pensare Pound di ciò? Spesso nelle sue poesie e nei suoi
saggi definiva i neri "puzzolenti" o "scimmie",
anche se ora non si trovava comunque nelle loro vicinanze: la
sua gabbia fu posta nel luogo più isolato del campo. Di
lì non poteva vedere che i secondini armati dei browning automatici, le postazioni notturne dei tiratori e in lontananza
le tende dei detenuti comuni.
Non tutti i detenuti avevano l'onore di stare in una gabbia.
Ufficialmente erano chiamate "celle di osservazione",
ma dai detenuti erano dette le "celle della morte".
Erano destinate sia al piccolo criminale, sia a coloro che aspettavano
di essere trasportati a Napoli per l'esecuzione dopo essere stati
giudicati dal tribunale militare. Nella sua prima notte di detenzione,
due detenuti tentarono la fuga e furono freddati sul posto dalle
guardie. Dopo questo evento si decise di rinforzare le celle
e renderle più sicure. E dopo l'arrivo del telegramma
del comandante, Pound trovò ospitalità in una nuova "cella
di osservazione". Da ciò si poteva supporre che lui
fosse il detenuto più pericoloso dell'intero campo.
Ezra Pound trascorse venticinque giorni in quella gabbia. Per
tutto il tempo portò un elmetto militare e pantaloni mimetici
che gli cadevano perché non aveva una cintura. I suoi
stivali erano senza lacci, per impedirgli il suicidio. La sofisticata
gabbia comprendeva pure un tetto di filo spinato, nonché pioli
in acciaio sul pavimento di cemento. Più tardi Pound interpretò tale
circostanza come un invito a tagliarsi le vene, e probabilmente
era quello che anche lui voleva.
Giorno e notte la rossa barba a punta di Pound scintillava ai
raggi del sole o alla luce artificiale dei riflettori dietro
le sbarre metalliche della gabbia. Quella splendida barba rossa
era un tempo sulle bocche di tutti nei salotti letterari di Londra
e Parigi. Ed ora? C'era qualcosa di folle e di insopportabilmente
straziante su quella barba, afferma un testimone.
Dalla gabbia erano visibili le lontane colline di Pisa coperte
di pini. Ezra Pound vide per la prima volta quelle colline nel
1898. Aveva vent'anni ed era al suo primo viaggio in Italia;
accompagnava la zia, una grande amante dell'arte. Più tardi,
nel 1923, tornò in Italia con Ernest Hemingway che aveva
convinto la moglie a compiere un viaggio a piedi attraverso la
penisola. Mangiarono delicati formaggi caserecci, bevvero vino
all'ombra degli alberi e Pound mostrò a "Hem" una
piccola valle nella quale nel XV secolo il conte Malatesta sterminò i
mercenari del papa suoi nemici. Quello stesso Malatesta che costrinse
il proprio figlio alla sodomia minacciandolo con un pugnale…
Qualche anno più tardi Pound si ritrovò a scherzare
sul carcere di Pisa: "Sì, mi presero per un tipo
pericoloso, imprevedibile, e notai che avevano veramente paura
di me. A volte vedevo su di me lo sguardo da giudice di un sorvegliante.
Lo sguardo diceva: gorilla, nella tua gabbia! I soldati, quando
non erano di servizio, mi venivano a guardare e provavano stupore.
Mi gettavano un pezzo di carne o qualcosa di dolce, come ad una
bestia. Il vecchio Ez: una vista eccitante ed avvincente".
Nel giugno del '45 non era però in vena di scherzi. Alla
fine della seconda settimana in gabbia, secondo le parole di
un custode, Pound “crollò”. Cadde in una profonda
apatia, smise di mangiare e non si sollevava dalla sua stuoia.
Uno dei due psichiatri del campo, il dottor Finner, scrisse nel
suo referto: "Perdita di memoria quasi completa, debolezza,
depressione, incubi…". Pound disse più tardi
alla figlia di aver sofferto d'insolazione. La gabbia non riparava
dai raggi del sole, anche se Pound si avvolgeva un fazzoletto
bagnato intorno alla testa. D’altra parte era estate ed
il sole del Mediterraneo batteva a picco su di lui…
Alla fine il "vecchio Ez" fu trasferito nella sezione
medica e fu visitato da entrambi gli psichiatri. Per la prima
mezz’ora riuscì a malapena a dire qualcosa e gli
costò uno sforzo enorme concentrarsi sui suoi pensieri.
Più tardi Pound confessò d'aver sofferto per l'immobilità a
cui era costretto nella gabbia, per gli strazianti mal di testa
ed un senso d'angoscia di cui non riusciva a liberarsi. I medici
si consultarono mentre il paziente giaceva nel letto, ed arrivarono
alla conclusione che l’età avanzata, i chiari sintomi
di isteria, una incipiente disidratazione e l’esaurimento
fisico rendevano necessaria una modifica delle condizioni di
detenzione del prigioniero. Richiesero quindi ai superiori del
campo di trasferire Pound dalla gabbia alla tenda. Inoltre consigliarono
che il poeta, già sotto tutela, fosse portato il più presto
possibile in America o altrove, dove potesse restare sotto osservazione
costante e ricevere un adeguato trattamento medico.
Quella richiesta ufficiale fu per Pound di grande aiuto. Personalmente
nutriva ben poche simpatie per la categoria degli psichiatri,
e si faceva spesso e volentieri scherno di "Sigmund il ciarlatano". "Proust
e Freud sono due splendidi mucchi di merda, dei quali l'intellighenzia si rallegra, poiché essi si sono ornati con raffinati
arabeschi". Oppure: "Grazie a Freud e a Dostoevskij
abbiamo ora un esercito di nevrastenici, alle prese solo con
le sue insignificanti interiora…"
L'intercessione dei medici ottenne i suoi risultati. La tenda
dove di lì a pochi giorni fu trasferito sembrava, in confronto
all'orribile gabbia, un vero e proprio lusso. Pound vi trovò una
branda, un tavolino e due sgabelli. Gli furono resi la cintura
e i lacci. Al mattino iniziò a fare ginnastica, e per
di più ricevette il permesso di usare una macchina da
scrivere, con la quale non solo poté scrivere lettere
ai suoi compagni detenuti, ma anche le poesie che avrebbero poi
fatto parte dei Cantos Pisani.
Documenti di archivio e monografie, lettere e memorie testimoniano
del fatto che furono numerosi coloro che accompagnarono il destino
di Pound nel periodo in cui rimase nel campo. Vi furono gli sguardi
degli amici T.S. Eliot e di Archibald McLeish, i quali tentarono
di aiutare il vecchio sodale in tutti i modi. Vi fu lo sguardo
dell’establishment di Washington, dei politici e funzionari
di giustizia che si chiesero come dovessero agire nei confronti
del letterato ribelle. Vi fu lo sguardo dei giornalisti di quotidiani
e riviste, che discutevano la scandalosa vicenda del Pound traditore
rinchiuso in una gabbia da animali. E vi fu infine lo sguardo
dei suoi familiari…
Nel momento in cui vengono scritte queste frasi, gabbie del tutto
simili a quella di Pound si trovano a Cuba e nella base americana
della Baia di Guantanamo. In queste gabbie sono rinchiusi combattenti
islamici catturati in Afghanistan ed accusati di attività terroristica.
L'America definisce il loro status come quello di "unlawful
combatents". Non si sa se tra di loro vi siano poeti della
stessa risma di Pound, ah-ah-ah… Alla sorte di questi detenuti
(la maggioranza dei quali è senza nome) è ora rivolta
l'attenzione di molte persone e di intere istituzioni statali
e di organizzazioni internazionali, come ad esempio Amnesty International.
I mass-media si chiedono in che misura tali condizioni di reclusione
siano conformi alla Convenzione di Ginevra e alle regole di una
società civile. Il ministro degli esteri britannico ha
criticato, ad esempio, i metodi brutali dei campi di prigionia
e ha affermato che quando si condanna qualcuno per terrorismo, “si
devono guardare entrambe le facce della medaglia”... Ciò significa
non solo condannare il criminale, ma anche farlo in modo umano
e civile…
"Entrambe
le facce della medaglia?" Come si può non pensare
in tal caso al "vecchio Ez"? Olga Rudge, amica di
lunga data di Pound, dopo la sua morte rise dei suoi invadenti
biografi: "Mi telefonano e mi dicono di voler scrivere
un libro onesto su Pound, nel quale vengono analizzate entrambe
le facce del poeta. Entrambe le facce?! Entrambe le facce!!
Ma di cosa stanno parlando? Ezra Pound non era mica una frittata!"
3.
La gabbia del coniglio Leo
Il
Museo L. D. Trotskij di Città del Messico si trova in
un triste stato di abbandono. Anche la fiabesca Villa di Frida
Kahlo e Diego Rivera versa nelle stesse condizioni, ma a differenza
di quest’ultima il museo non è sponsorizzato dalle
istituzioni messicane per la cultura e si trova invece sotto
la custodia di un gruppo di trotskisti internazionalisti. Fondamentalmente
sono i britannici, oltre agli attivisti statunitensi, a mettere
a disposizione i pochi mezzi per la conservazione del museo.
E questo benché non siano pochi coloro che vengono a
visitare il memoriale.
Dopo aver pagato il biglietto, il visitatore giunge dapprima
in una libreria in cui vengono venduti libri di letteratura trotskista,
diponibili in diverse lingue. Da lì si accede poi all’ampio
cortile interno della casa, costruita come una fortezza con un
alto muro di argilla e torri di osservazione. In mezzo al cortile
c’è la Tomba di Trotskij, un piccolo obelisco con
una stella pentagonale scolpita nella pietra. Sopra l’obelisco
si trova una bandiera rossa abbassata e tutt’intorno crescono
palme ed altre magnifiche piante tropicali che sembrano tanti
millepiedi. Un grande trotskista inglese dai capelli rossi, con
una camicia blu dell’esercito intrisa di sudore e una fascietta
rosso scarlatto al braccio, invita ad entrare nelle semplici,
quasi ascetiche stanze personali del leader: nel piccolo salotto
con sedie di vimini e un basso sofà, nello studio pieno
di giornali ingialliti e con un libro di Majakovski sul tavolo,
nel misero gabinetto e nella camera da letto con due lettini…C’è anche
una vasca da bagno rotta e per un qualche motivo bagnata, ed
un asciugamano appeso ad un gancio…Tutto è vecchio
e consunto, tuttavia accogliente…(Forse i trotskisti trascorrono
la notte qui e si preparano da mangiare in cucina?) La guida
inglese mostra con orgoglio i segni delle pallottole sul muro
e spiega come e quando il gruppo stalinista di Siqueiros tentò invano
un attentato…
I visitatori entrano poi, passando di nuovo per il cortile, in
un edificio vuoto con pavimento in pietra e alcune casse. Qui
sono conservati documenti e testi pubblicati ai tempi di Trotskij;
alla pareti sono appese rare fotografie che mostrano Trotskij
durante il suo ultimo periodo in Messico. Si vede lui con Breton,
Rivera e Kahlo sotto un albero gigantesco; c’è di
nuovo lui con Frida, di cui è innamorato e che stringe
contro la sua spalla; c’è lui con la sua gente,
con quelli che hanno in custodia la casa… In qualche fotografia
Trotskij sembra un pacifico e sfinito intellettuale, in altre
un terribile e mistico vampiro. Aveva un volto bizzarro ed incredibile,
con una larga fronte da bambino e un mento piccolo ma altrettanto
infantile, appesantito da una leggera barba… Le labbra,
come se si fossero appena staccate da un seno femminile… Un’espressione
allo stesso tempo graziosa e ripugnante… Qui legge il New
York Times, come se cercasse di imitare Lenin mentre legge la
Pravda… La foto più straziante è quella in
cui è ritratto subito dopo che Mercader gli inflisse in
colpo mortale. Due detective messicani che sembrano gangster
americani, vestiti in doppiopetto, cravatte a righe e cappelli
sconci, sorreggono lui, la colonna portante della rivoluzione
russa, da sotto le braccia. Lo schiacciano addirittura con i
loro abbracci, come due gendarmi mascherati. Il vecchio, debole
ma tuttavia terribile rivoluzionario. Se si osserva attentamente
questa fotografia ci si accorge che non si tratta di un vecchio
ribelle caduto nelle grinfie di una potenza straniera, ma piuttosto
di uno che cerca protezione presso quei poliziotti bastardi,
li implora, nel suo ultimo impulso di vendetta… Spera ancora
in una rivincita… E nella seguente e terribile fotografia è già in
agonia, con la mascella penzolante…
A questo punto la guida trotskista lascia finalmente liberi i
visitatori per occuparsi del nuovo gruppo… Ottimo: ora
si può girare liberamente per il museo e osservare tutto
con calma…
Nel giardino si scorge un piccolo zoo. A Trotskij piacevano le
piccole creature: lepri, scoiattoli, criceti… Li allevava
nella sua fortezza… E più di sessant’anni
dopo la sua morte qui ci sono ancora gabbie con porcellini d’India
e conigli. Tutto come ai suoi tempi, secondo quello che dice
il tipo inglese…
Dobbiamo ammetterlo: una delle gabbie è del tutto singolare, come fosse
stregata. Dentro vi è seduto un grosso coniglio nero. Solitamente si dice
che persone pesanti e formose si vestano di nero per nascondere la loro mole.
Probabilmente è così, ma questa regola non si può applicare
ai conigli, o almeno a questo coniglio, che riempie l’intera gabbia pur
non riuscendo evidentemente a starvi. Il suo corpo vellutato sporge attraverso
le sezioni di filo metallico: i suoi fianchi fuoriescono come morbidi cuscinetti,
sporgono anche le orecchie senza peli, il muso con gli occhi rossi è allungato
verso l’esterno e il naso rosa trema ininterrottamente, come l’ano
di una danzatrice esotica. Questi conigli sembrano estremamente indecenti e allo
stesso tempo miseri. Altro che animali rivoluzionari, una razza borghese con
la pancia piena!
“
Vedete…”, la voce del trotskista, che si è avvicinato senza
farsi notare, ci risuona improvvisamente accanto. “Vedete, Lev Davidovic
possedeva un coniglio simile. Proprio un gigantesco coniglio nero! E Trotskij
lo amava alla follia, secondo quanto si racconta. Il coniglio di Trotskij si
chiamava Leo, e anche questo si chiama Leo. Questo Leo è probabilmente
il pronipote di quello che mangiava dalle mani di Trotskij… Il nostro Leo è però ingrassato
e non può più uscire dalla sua gabbia, ah ah ah… E a noi
naturalmente dispiace distruggere questa gabbia che Trotskij in persona ha costruito… Ha
fatto tutto con le sue mani.”
Il trotskista allunga la sua pesante mano verso il secchio in cui galleggiano
carote enormi, e ne estrae una manciata. Allunga poi le carote verso le gabbie
degli animali. Ancora una carota, un’altra ancora… Il coniglio Leo
riceve per ultimo la sua leccornia e inizia subito a rosicchiarla muovendo il
naso. La gabbia gli risulta scomoda, la carota gli scivola e non può aiutarsi
con le zampe. Il trotskista arriva in tempo ad aiutarlo e imbocca il coniglio
direttamente con la mano. Il coniglio fruga con il naso nel palmo della mano
del trotskista e lascia una brillante umida traccia… Entrambi torcono gli
occhi per il piacere… Ad essere sinceri, è uno spettacolo ripugnante…
4.
La gabbia della zanzara
A
San Francisco vive una scrittrice non molto conosciuta (ma
neanche tanto marginale) di nome Jane Ellis. I critici la paragonano
al Marchese De Sade e ad una “pazza sacerdotessa azteca
la quale aveva in mente di allontanare dalla Chiesa un vecchio
inquisitore impotente ricorrendo alla tortura ed ad un erotismo
suicida". È già sulla cinquantina e, per
ciò che si riesce a vedere nella fotografia, tutto il
suo corpo è coperto di tatuaggi come quello di un pirata.
Ellis inizia la sua breve autobiografia letteraria con le seguenti
parole: "Sono un'outsider, lesbica e femminista…".
Negli anni Settanta era la solista del gruppo punk Cum
Obsession e scriveva i testi per altri gruppi rock. Negli anni Ottanta
pubblicò poesie, volumi di prosa e il romanzo di fantascienza
Rossetto nero. Successivamente apparve Ossa tenere, un libro
nel quale Ellis sperimentava vari generi letterari: reportage,
teatro, poesia, sceneggiatura, racconto, romanzo… All'inizio
dovette risolvere un annoso problema, posto nell’ambito
della letteratura americana da Capote e Burroughs: come può uno
scrittore o una scrittrice rendere la sua esperienza di vita
in una forma il più possibile compressa? Come si possono
fondere in un'opera letteraria analisi politica e follia alcolica,
saggistica filosofica e fobie notturne, appunti di viaggio
e urla cupe? E’ un compito molto complicato e rischioso,
di cui esiste un’esatta formulazione teorica nei lavori
di Barthes, Foucault, Deleuze e Agamben.
C'è un frammento in Ossa tenere di Jane Ellis sul miliardario
californiano Bob Mansaree, il quale, reso quasi pazzo per l’abuso
di Dexedrina e gli eccessi di sesso di gruppo, decide di rinchiudersi
in completo isolamento in una gabbia di platino. A che scopo?
Per purificarsi, per compiere una catarsi, per diventare un altro… Malgrado
tutta la sua ricchezza, Mansaree non riesce a sfuggire al pensiero
che nel mondo vi siano milioni di persone in prigione destinate
e morire e vi siano vecchi e bambini che muoiono di fame. Invece
di fondare un’organizzazione umanitaria o altri programmi
di aiuto al terzo mondo, contatta una ditta specializzata in
edifici di alta sicurezza, la quale viene incaricata di costruirgli
una favolosa gabbia. Colloca in seguito la gabbia nella sua tenuta
in una segreta orangerie sotterranea e ordina alla sua bodyguard
- e ostaggio - di colore, a nome Thelma, di rinchiuderlo nella
gabbia e di gettare via la chiave. Dopo una notte di smisurate
tenerezze e di orribili eccessi gastro-narcotici, Thelma rinchiude
nella gabbia Mansaree privo di sensi e distrugge la chiave in
perfetto accordo con i desideri di lui. Rinchiuso così nella
trappola di platino sepolta nel bunker botanico, egli non ha
più nessuna speranza di poter uscire, dato che non c’è anima
viva che sappia dove Mansaree si trovi. Nel suo ufficio siede
il suo sosia. Quel bastardo alla fine seduce Thelma, e questo
peggiora la misera condizione dell'eroe. Il che, del resto, non è poi
cosa tanto tragica.
Mansaree ha una scorta di cibo e di bevande in cantina, e passa
le giornate ad osservare le piante della serra… Ciò ha
su di lui un effetto salutare … Si sarebbe del tutto sentito
riconciliato se non vi fosse stata una circostanza insopportabile:
una fastidiosa zanzara. Un minuscolo ma insaziabile vampiro.
Ma da dove veniva? Una volta Mansaree provò involontariamente
a grattarsi una spalla, e scoprì in tal modo l'esistenza
dell'odioso insetto. Anatema!
Quella zanzara è simile al selvaggio Venerdì nella
storia di Robinson-Mansaree. Dal primo momento della sua comparsa
l’eroe si trasforma sempre più. Ciò succede
perché la zanzara succhia il suo sangue? Probabilmente
no, si tratta di un qualcosa di più spirituale. Mansaree
comprende che la zanzara è la sua unica compagna e che è meglio
non disprezzarla. E il sangue, cos’è poi il sangue?
Perdere sangue è una cosa assolutamente normale, tutte
le donne e tutti i soldati lo sanno bene… Improvvisamente
Mansaree riconosce che nella sua relazione con la zanzara lui è la
donna e la zanzara l’uomo. Forse l’eroe perde a poco
a poco il lume della ragione, ma è probabile che diventerà un
santo. Anche Jean Genet alla fine pensava di essere un santo!
Era proprio quello che pensava! E’ noto che l’autore
di “Diario di un ladro” anni dopo smise quasi del
tutto di lavarsi, viveva principalmente in alberghi economici
nei pressi delle stazioni e possedeva solo un vestito, quello
che indossava. Secondo quanto racconta il regista Claude Chabrol,
puzzava in maniera disgustosa e non riconosceva i suoi amici.
Quindi: se Genet voleva essere un santo, perché mai Mansaree
doveva essere peggio di Genet? E portando il pensiero alle estreme
conseguenze: perché mai la zanzara doveva essere peggio
di Mansaree? La parità può essere solo assoluta,
altrimenti non si parla di parità, ma di ipocrisia borghese.
E’ questa la conclusione a cui arriva l’eroe di Ossa
tenere, e in essa vi è una certa logica! Noi osserviamo,
tra parentesi, che questa logica non è solo di Mansaree;
esisteva prima di Mansaree ed era per esempio propria di Francesco
D’Assisi, che considerava gli uccelli, l’avena, il
sole e i maiali come fratelli e sorelle. E’ del resto la
logica di tutti i mistici, i vagabondi e gli anarchici.
Ciò che più stupisce è il fatto che la zanzara approvi la
logica di Mansaree. Perché allora la sanguinosa creatura si rifiuterebbe
di abbandonare la gabbia di platino del recluso miliardario? A lui sembra che
sia veramente così: in base alle sue osservazioni, la zanzara non vola
mai neanche per un secondo oltre le sbarre, anche se lei a differenza di lui
potrebbe farlo. Solo raramente si alza in volo ed è grazie al fievole
e malinconico ronzio che Mansaree lo capisce. Altrimenti l’insetto resta
appoggiato sulla pelle del carcerato, solitamente sui posti più morbidi:
sull’inguine, sui lobi delle orecchie, sul collo, sulle labbra… Grazie
alla zanzara, Mansaree capisce la verità di Lacan, ovvero che l’essere è un
gioco intersoggettivo della coscienza che si riflette all’infinito in se
stessa. Questo gioco insulso e demoralizzante ha una sola via d’uscita:
concentrarsi sul desiderio. E’ necessario trovare e comprendere il proprio
desiderio e, costi quello che costi, non venir mai meno ad esso. Come il capitano
Achab, come Emma Goldman, come Che Guevara… Come, se è proprio necessario,
Jack Lo Squartatore… Il povero Mansaree si concentra, si concentra, si
concentra, e alla fine capisce di volere solo una cosa: sottrarsi a quella terribile
gabbia, alla luce del giorno, e accoppiarsi con l’affascinante Thelma… E
qui prova un senso di totale devastazione e di profonda delusione: può il
coito essere l’essenza di un desiderio autentico? … Impossibile,
ridicolo!… E di nuovo quest’insopportabile prurito sul gomito… Fick-fick!...
Che succede? Decide così di porre fine all’esistenza della zanzara.
L’uccide.
Una volta anche Tolstoij, in presenza del suo amico e compagno di fede politica
Certkov, uccise una zanzara che gli si era posata sulla fronte. E per questo
gesto ricevette da Certkov un pesante rimprovero. I membri della comunità tolstoiana
dicevano che gli esseri viventi non dovevano essere torturati o uccisi, neppure
quelli che loro chiamavano i più primitivi.
Alla fine Mansaree muore nella gabbia, senza aver coronato il suo desiderio.
Muore sottoterra, come una pecora o un porcellino clonati, abbandonati dal dispotismo
del destino. Uno scherzo del destino? Un mistero? Il desiderio è dunque
un privilegio come l’istruzione, l’arte figurativa e un solido conto
corrente bancario? A questa domanda idiota non c’è alcuna risposta.
Lacan era già morto, altrimenti Mansaree avrebbe potuto chiederlo a lui.
Il cadavere nella gabbia puzza e si decompone, ma lì vicino non c’è nessuno
che lanci un grido, o almeno faccia una smorfia per il lezzo insopportabile.
Invece
di una quinta gabbia
Molti
anni fa, quando Nathaniel Hawthorne scrisse “La lettera
scarlatta” e Lev Tolstoj “Anna Karenina”,
gli scrittori vivevano in una società molto più repressiva
e meno liberale di quella odierna. Hawthorne e Tolstoj scrissero
di donne che sfidarono le convenzioni sociali dei loro tempi
coltivando rapporti di sesso con uomini che non erano i loro
mariti e non avevano alcuna intenzione di diventarlo. La società punì entrambe
quelle donne nel modo più duro: una fu rinchiusa in
prigione e le fu marchiata sul petto la vergognosa lettera
rossa A (adulterio), mentre l’altra fu costretta a gettarsi
sotto un treno. In una società moderna, almeno nella
misura in cui essa non abbracci il fondamentalismo religioso,
le donne possono andare a letto con chi vogliono, così come
possono scrivere di qualsiasi cosa. E’ chiaro però che
ci sono sempre dei limiti: non è permesso loro andare
a letto con i bambini, per esempio… Tuttavia queste rare
eccezioni sottolineano nel complesso la tolleranza e la flessibilità della
società. Tutto quello che conta per i membri della società odierna è,
detto in termini spicci, il denaro. Perciò gli scrittori
potrebbero facilmente immaginare la singolare situazione in
cui una donna disprezza il denaro, o semplicemente non le interessa,
e viene considerata quindi un elemento sociale indesiderato,
alla stessa stregua di una moglie infedele, o addirittura dell’assassina
più improbabile che da brava cittadina paga le tasse.
Kathy Acker amava descrivere tali situazioni, così come
Jane Ellis. Le eroine passionali non finiscono più in
galera, non svaligiano una banca, e le stesse prigioni sono
diventare nel frattempo un business come i supermercati.
E’ interessante anche il fatto che quando Hawthorne e Tolstoj
scrivevano i loro libri, le loro opere avevano un significato
per la società di allora. Era addirittura accettato il
fatto che alcuni libri fossero pericolosi e dannosi per la società,
che minassero le leggi religiose e morali sulle quali si basava
l’ordine sociale. Per questi motivi Hawthorne, per esempio,
ambientò il suo romanzo nel passato e scrisse nell’introduzione
che il libro non aveva nulla a che fare con i suoi contemporanei.
Non voleva doversi confrontare con lo stupido consenso puritano
che avrebbe potuto diffamare o vietare l’uscita del libro.
Oggi gli scrittori possono scrivere e pubblicare tutto ciò che
passa loro per la mente, sempre che non intervenga l’Ayatollah
Khomeini a decretare la condanna a morte dell’autore di
un libro. Tuttavia, anche se intervisse l’Ayatollah, il
danno non sarebbe poi così grave: anzi, con la sua pubblicità al
contrario (ma pur sempre pubblicità), egli ha il potere
di rendere grande anche lo scrittore più mediocre. Questo
significa che tutti possono scrivere e pubblicare di tutto, e
ciò lascia tutti nella più totale indifferenza,
dato che nessuno attribuisce più importanza allo scrivere
e alle idee. Lo ripetiamo in termini spicci: solo il denaro condiziona
persone e nazioni. Perciò un’opera letteraria viene
considerata veramente di successo solo se la casa editrice può venderla
alla televisione o all’industria cinematografica. In questo
caso il libro vende bene e le parole dello scrittore fanno il
giro del mondo come un uccello d’acciaio.
Sembra quindi che alla fine siano sbucati alla luce, dopo i tempi
cupi della repressione puritana, zarista, comunista e altro ancora.
Ognuno può dire e scrivere quello che pensa, che sogna,
che lo emoziona. Il progresso esiste, nonostante tutto. E chi
non è soddisfatto, può mettersi tranquillamente
a sniffare cocaina.
(Traduzione
a cura di: Chemello Benetta, Fasolo Laura e Mattiello Gianpaolo,
allievi del corso di Traduzione dal Tedesco III presso la “Scuola
Superiore Universitaria per Traduttori e Interpreti” di
Vicenza, con la supervisione del Prof. Bruno Persico.)
Alexander
Brener è nato ad Alma-Ata, in Kazahstan, nel 1961. Ha
compiuto studi di pedagogia (1981), per poi dedicarsi pienamente
all'arte performativa e alla letteratura. Ha esposto in molte
sedi europee e pubblicato diversi libri. Dall'1988 al 1990
ha vissuto in Israele, oggi risiede a Vienna. E uno degli artisti
russi contemporanei piu controversi e radicali.
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