PERDUTI
NELLA FUGA
Mohammad
Asaf Soltanzade
Lo zio stava sulla soglia della porta come quella sera: quando
lo vidi, il cuore mi sprofondò nel petto. Dalla sera in
cui era venuto ad annunciarmi la morte di mia madre, ogni volta
che lo vedevo a casa mia entravo in agitazione: pensavo "adesso
mi dice di andare a casa sua, che deve dirmi qualcosa". E
anche lui s'era accorto che appena lo vedevo mi veniva il panico.
Ecco perché quando veniva a trovarmi cercava di avere un
sorriso sulle labbra, come a dirmi "non temere! Non ho cattive
notizie"; così io a poco a poco mi riprendevo.
Ma adesso perché lo zio non sorrideva? Che non fosse...
non mi sentivo più le mani né i piedi. Lo zio stava
sulla soglia:
"Non mi inviti ad entrare?"
Nella sua voce gemeva il dispiacere, il tono era oltremodo imbarazzato:
certo aveva vergogna di portarmi di nuovo cattive notizie. Senza
aspettare risposta, entrò e trovò un posto da sedersi.
Tirò su da terra un libro che era caduto e cominciò
a sfogliarlo, ma sapevo che non vi stava prestando nessuna attenzione,
la sua mente non era lì. Sapevo che guardava il libro senza
vederlo, il suo sguardo era vuoto. Gli tremavano le mani. Se n'era
accorto anche lui e cercava invano di nascondermi il tremore.
"Zio, che sorpresa, a quest'ora!"
"Una sorpresa... sai che ieri è arrivato un parente
da Kabul, adesso è a casa mia, ci sono anche gli altri
del parentado..."
Non ce la facevo, dovetti uscire in cortile. Magari ci fosse stato
mio fratello: adesso ero solo, solo, ero solo davanti allo zio.
Sapevo che era successo qualcosa, stavolta, a chi, a mio padre
o a mio fratello? Sapevo che chi arrivava portava cattive notizie.
Certo che erano proprio bei tempi, avevamo paura di quelli che
venivano a trovarci, sapevamo che appena riprendevano fiato ci
avrebbero parlato di morte, di rovine, di disastri, di malattie
e di carestie.
Mi rivolsi allo zio, i nervo a fior di pelle.
"Vedi zio, se sei venuto a darmi una brutta notizia, non
voglio sentirla! Te l'ho già detto."
Così
gli avevo detto dopo la cerimonia funebre di mia madre, quando
i parenti ci avevano accompagnato dalla moschea fino a casa dello
zio, e di lì a casa nostra.
Com'era fredda la nostra stanza, io e mio fratello tremavamo.
Ma non era per il freddo, era per il senso incredibile di solitudine
che ci aveva preso. Mi pareva che mi si fosse svuotato un angolo
del cuore. Ero amareggiato perché ci avevano dato la notizia.
Lo zio aveva detto:
"Che potevo farci? Alla fine dovevo pur dirvelo..."
"Potevi aspettare fino al giorno in cui saremmo tornati in
Afghanistan!" gli avevo risposto pronto.
"Magari
non possiamo tornarci che fra vent'anni, che sarebbe successo
allora?"
"Avremmo aspettato, che differenza avrebbe fatto?"
Lo zio s'era offeso e mi aveva risposto adirato:
"Bene, e la gente che avrebbe detto? Avrebbero detto: 'che
uomo è questo che non organizza neppure una cerimonia funebre
per la moglie del suo fratello, che non permette neppure ai nipoti
di recitare le preghiere per la madre morta?" Tua madre aveva
dei diritti su di te, così come su di me!"
"Perché ci hai portato a casa tua per darci la notizia?"
"Che altro potevo fare? Qui a casa tua non era possibile,
è una stanza da scapolo, sono venuti parenti e conoscenti
per vederci, bisognava pur preparare un tè e dei datteri
in modo decente, no?"
Segui un silenzio, che ruppi dicendo:
"Va bene, questa volta è andata così. D'ora
in poi, qualsiasi cosa succeda, nessuno ha il diritto di darmi
la notizia. Capito? Che la gente dica pure quello che vuole!"
"Se la situazione continua ad andare avanti in questo modo,
siamo costretti di tanto in tanto a chiedere notizie dei parenti
e a dare loro le nostre..."
"Non voglio dare mie notizie a nessuno né voglio che
qualcuno mi dia notizie!"
Lo
zio mi viene vicino e mi prende la mano che trema. Anche le sue
tremano:
"Non è nulla, non è una cattiva notizia, solo
che è arrivato il cugino di mia moglie da Kabul, così
si sono riuniti i parenti a chiedere dei loro cari. Mi sono detto
che non è male se vieni anche tu a chiedere notizie di
tuo padre e di tuo fratello."
Appena pronuncia le parole "padre" e "fratello"
mi si chiude la gola, e anche lo zio capisce come mi sento.
"Vai tu a chiedere loro notizie, io non voglio venire, ho
paura di te, del cugino, di tutti. Vai, ti prego, lasciami solo!"
Si alza, stringendomi la mano.
"Non fare il pazzo, cosa dirà la gente?"
Non ho scampo, devo andare. Chiudo casa e m'incammino. Come sono
cambiate le regole di parentela, come tutti sono diventati spietati
e crudeli. Non pensano minimamente che non si può dare
la notizia dell'uccisione o comunque della morte di un familiare
ad un disgraziato che è appena tornato dal lavoro, stanco
e provato, nel cuore della notte. A chi ha avuto un lutto che
importa chi è che prende parte alle esequie?
(Brano tratto dal romanzo Perduti nella fuga, AIEP Editore,
Repubblica di San Marino, 2002, traduzione di Anna Vanzan)
Mohammad
Asaf Soltanzade è nato a Kabul, nell'Afghanistan, nei primi
anni '60 e lì ha seguito studi di formazione scientifica.
Dopo i vent'anni ha lasciato il suo paese, emigrando prima in
Pakistan poi in Iran. Ora, rifugiato in Danimarca, spera di ritornare
in patria appena la situazione politica lo renderà possibile.
Scoperto e valorizzato dallo scrittore e critico iraniano Hushang
Golshiri, ha pubblicato racconti su diverse riviste letterarie.
Quest'opera, edita nel 2000 a Tehran dalla casa editrice Agah,
lo ha reso famoso fra gli esperti di letteratura in lingua dari
(una delle due lingue letterarie dell'Afghanistan). In Iran è
ora in via di pubblicazione un secondo volume di racconti. Questa
di Anna Vanzan è la prima traduzione che lo fa conoscere
in Italia.
Successivo
SPAZIO
SAGARANA
Copertina
|