IL
CUGINO VENANZIO
Elsa
Morante
Il cugino Venanzio aveva sulla tempia sinistra un piccolo segno
bianco, in forma di virgola, che la zia Nerina, sua madre, affermava
essere una voglia di luna. Ella raccontava infatti di aver guardato
una sera, nel tempo che aspettava il cugino Venanzio, la luna
nuova; e di aver contemplato con tanta passione quell'aureo seme
di luce buttato nel cielo, che esso aveva germogliato in lei,
rispuntando in forma rimpicciolita e spenta sulla tempia del cugino
Venanzio.
Con quella voglia di luna in testa, il cugino Venanzio era minuscolo,
e così magro che le sue scapole sporgevano simili a due
piccole ali mozze, e tutto il suo corpo, sotto la pelle sottile
e fragile come scorza di cipolla, mostrava le giunture minute,
i tremanti ossicini. Aveva riccioli neri, ma sempre tanto impolverati
da parer grigi, e occhi neri e spalancati, pieni di malinconia;
e i suoi movimenti erano sempre nervosi e frettolosi, come di
leprotto in fuga sotto la luna. Il cugino Venanzio non piangeva
mai; in luogo di piangere, inghiottiva, e subito si poteva vedere
quell'amaro boccone di lagrime ingrossargli la gola, come un nodo,
e andare in su e in giù. E il cugino Venanzio faceva un
piccolo sorriso, mettendo in luce fra le labbra sottili i dentini
radi e ombrati. Ma, per la fatica d'inghiottire quel nodo, si
faceva assai pallido.
La zia Nerina, madre del cugino Venanzio, aveva sempre un gran
da fare la mattina, prima di andare all'ufficio dei telefoni dov'era
impiegata; e ciò per causa dei suoi boccoli. La sera, ella
aveva diviso i propri capelli in tanti ciuffi abboccolati chiudendoli
in cartocci di giornale; e la mattina doveva scartocciarli. Questa
dei boccoli era la massima cura che ella consacrasse alla sua
persona; per il resto, infatti, era tutta infagottata, e tenuta
insieme a forza di spille. I suoi tacchi altissimi di legno erano
sempre storti, ed essa si vantava di non usare la cipria, avendo
sugli zigomi il dono di un colorito naturale vagamente scarlatto.
Era sempre agitata al punto che le sue risate parevano singhiozzi,
e la sua voce che chiamava"Venanzio! Venanzio!" squillante
e tremula, ci dava un raccapriccio strano.
Tutti
i fratelli di Venanzio si occupavano di qualche cosa: il maggiore
scriveva romanzi d'appendice; il secondo giocava al calcio ed
era fornito di muscoli robusti; il terzo andava a scuola, e sempre
era promosso con lo scappellotto, diceva la zia Nerina. Ma il
quarto, Venanzio, non faceva niente, a che serviva mandarlo a
scuola? Egli stava zitto nel suo banco,è vero, ma non ascoltava
affatto quel che diceva il maestro. Se questi d'improvviso gli
gridava con voce da Giudizio Universale:" che cosa ho detto?
Rossigni, ripeti!" Venanzio allargava la bocca in quel suo
sorriso confuso e interrogativo, e le sue orecchie un po' sporgenti
tremavano in un modo tanto curioso. Mai come in questi momenti
egli pareva un leprotto. Era evidente che si vergognava di essere
uno che si dimentica di tutte le cose. Le idee gli si staccavano
dalla mente come gocciole di rugiada da un albero: stavano un
momento sospese, brillavano vagamente, e cascavano.
Solo una cosa egli sapeva a memoria, ed era la canzone seguente,
fatta di due soli versi, che aveva inventata lui stesso:
Emidio il marinaio
Che va e va e va.
E sempre la cantava, con una vocettina stonata.
Inoltre, egli conosceva i superlativi, che usava con grandissima
soddisfazione. Quando la zia Nerina, di ritorno dall'ufficio dei
telefoni, gli diceva: "Amore mio, sei stato buono oggi?"
egli garantiva: "Ottimo".
"
Il contrario di pessimo", aggiungeva, dopo essere
rimasto un momento sopra pensiero. E infine: "il più
buonissimo", concludeva, strizzando gli occhi per la fatica.
Tutte le mattine, prima di avviarsi all'ufficio dei telefoni,
la zia Nerina prendeva il battipanni e picchiava il cugino Venanzio.
Infatti, ella spiegava, il cugino Venanzio ne faceva tante durante
la giornata, e tutti i giorni ne faceva tante, che si era sicuri
di non sbagliare picchiandolo tutte le mattine appena sveglio.
Così per tutto il resto della giornata non ci si pensava
più. Dunque, la zia Nerina prendeva il battipanni e si
accostava al letto del cugino Venanzio; e il cugino Venanzio faceva
il suo sorriso e inghiottiva: "Venanzio", diceva allora
la zia Nerina, "tirati su la camicia da notte, perché
devo picchiarti". E poi se ne andava all'ufficio dei telefoni,
dopo avere scartocciato i suoi boccoli, s'intende.
E il papà andava in giro a cercare assicurazioni per gli
incendi, e il fratello maggiore in tipografia, e il secondo all'allenamento,
e il terzo a scuola: in casa restava solo cugino Venanzio. Egli
girava intorno alla casa, e di corsa su e giù per le scale,
e si affacciava alle finestre cantando la canzone di Emidio e
combinava centinaia di guai. Se di mezza dozzina di bicchieri
lui ne toccava uno, proprio quell'uno cascava. E i ladri di gallina,
sapendo che in casa era rimasto solo il cugino Venanzio, si davano
appuntamento a casa sua e gli rubavano le galline sotto il naso.
Una sola incombenza egli aveva: e cioè di accendere il
gas a mezzogiorno e di mettere su l'acqua per la pasta, ma la
cosa riusciva rarissime volte, perché, ad esempio, il cugino
Venanzio metteva su la pentola con l'acqua senza accendere il
gas, oppure accendeva il gas e metteva su la pentola vuota.
Egli portava una camiciola senza bottoni, e un paio di calzoni
che arrivavano a lui dopo aver appartenuto successivamente ai
fratelli più grandi: il tutto tenuto su con spilli da balia.
I suoi piedi erano nudi e, a furia di camminare nudi, avevano
fatto i ditini piatti e a ventaglio, come le zampette di un anatroccolo.
Ma non basta: il cugino Venanzio era sonnambulo. Per questa ragione
i suoi fratelli, dopo avergli dato molti calci, si rifiutavano
di dormire nella stessa camera con lui; e dunque lui dormiva sopra
un lettuccio pieghevole nel corridoio. Di là si levava
nel mezzo della notte, e camminava nel sonno. Gli accadeva di
svegliarsi d'improvviso, come in fondo ad una vallata, in angoli
remotissimi che il buio gli rendeva infidi e stranieri. E, coperto
di sudore per la paura, a tastoni andava in cerca del suo letto.
Gli capitava poi di fare nel sonno cose strane, delle quali alla
mattina si era dimenticato. E qui torna a proposito la storia
delle bandierine.
Un giorno, la zia Nerina si comperò un bel vestito di crespo
marocchino tutto stampato a bandierine su fondo nero. Si trattava
di bandierine non più grandi di un francobollo, eppure
magnifiche. C'erano quelle di tutti i paesi, con disegni di stelle
minute, o di gigli rossi su fondo bianco, o di bianche croci in
campo rosso. Per il piacere che gli dava la vista di quelle bandierine,
il cugino Venanzio saltò intorno al vestito ridendo a gola
spiegata. E la zia Nerina gli disse: "Non ti venga in mente,
cocchino mio, di ritagliarle giro giro, eh?"
Ebbene, il cugino Venanzio, in quella notte vide, com'egli raccontò,
una ridda volante di bandierine che a migliaia sventolavano nel
suo sonno. Cercò di scacciarle credendole zanzare, ma quelle
tornavano. E, sempre dormendo, si alzò e andò nel
salotto dov'era il vestito nuovo, ben composto sul divano buono,
e accese la luce e, accovacciato in un angolo del salotto, con
un grosso paio di forbici cominciò a ritagliare accuratamente
le bandierine. La zia Nerina racconta che in quel punto ebbe un
avvertimento celeste e, svegliatasi di soprassalto, corse nel
salotto. Ma già il cugino Venanzio aveva ritagliato tutto
il davanti del vestito dove, al posto delle bandierine, c'erano
tanti buchi quadrati.
Il cugino Venanzio non aveva ancora otto anni quando morì.
La gente diceva che i suoi cigli eccessivamente voltati in su,
le orecchie sporgenti e le unghie ovali che parevano staccarsi
dalle dita, tutto faceva capire fin da prima che sarebbe morto.
Non aveva ancora otto anni quando fu preso da un forte mal di
testa e, dopo essere stato qualche giorno addormentato con una
borsa di ghiaccio sopra, fece un gran respiro e si spense. Si
vide, per le finestre spalancate, la zia Nerina correre su e giù
per le scale gridando"Figlietto mio! Venanzio! Aiutatemi!Aiutatemi!";
tutta spettinata, senza cartocci né boccoli, così
che i suoi capelli, com'ebbe a dire la nostra cameriera Valchiria,
parevano quattro zeppi in croce. E il cugino Venanzio, con zampette
di anatroccolo e riccioli impolverati, ma vestito dalla testa
ai piedi, stavolta, di un elegantissimo completo turchino, fu
messo nella cassa e sulla carrozza da morto.
Addio, Venanzio. Tutti i cugini biancovestiti partecipavano al
funerale, ma non piangevano, stupiti piuttosto e alquanto gelosi
per quel grande lusso di fiocchi d'oro, cavalli e cocchiere in
livrea in onore del solo Venanzio: soltanto una cugina, che seguiva
assieme agli altri, vestita, in mancanza di un vero abito bianco,
del suo grembiule bianco di scuola con su ricamato: Seconda
B, soltanto costei piangeva. Il fatto è che una volta
il cugino Venanzio, per amore di un nastro ch'ella portava nei
capelli, l'aveva chiesta in moglie. Ed ella, in mancanza di altri
pretendenti, si era promessa a lui: e adesso era disperata, all'idea
di restare zitella.
(Tratto da Lo scialle Andaluso,
Ed. Einaudi, Torino)
L'autrice, Elsa Morante.
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