IL MORTO

Ray Bradbury

 

"È quell'uomo laggiù," sciamò la signora Ribmoll, indicando con il capo l'altro lato della strada. "Vede quel tizio appollaiato sul barile di catrame, davanti al negozio del signor Jemkins? Be', è lui.Lo chiamano Martin lo Strano."
"Quello che dice di essere morto?" strillò Arthur.
La signora Ribmoll annuì. "Picchiato come un'incudine. È convintissimo di essere morto fin dall'alluvione e nessuno gli dà retta.
"Lo vedo seduto là tutti i giorni," proseguì Arthur.
"Se ne sta là seduto, sì. Sta seduto e fissa il vuoto. Io dico che è una vera vergogna che non lo sbattano in galera."
Arthur fece una smorfia rivolta allo sconosciuto. "Bah!"
"Lascia perdere, non si accorge di niente. È l'uomo più incivile che abbia mai visto. Non c'è niente che gli vada bene." La signora Ribmoll diede uno strattone al braccio di Arthur. "Andiamo, tesoro, dobbiamo andare a fare spese."
Risalirono la strada passando davanti al barbiere, il signor Simpson, che rimase a guardare fuori dalla vetrina, tagliuzzando a vuoto con le sue forbici blu e masticando una gomma ormai priva di gusto. Il barbiere sbirciò pensieroso attraverso il vetro macchiato dalle mosche, osservando l'uomo seduto sul barile di catrame. "Immagino che sposarsi sia la cosa migliore che potrebbe capitargli", esclamò. I suoi occhi brillavano maliziosi. Da sopra la spalla lanciò un' occhiata alla sua manicure, la signora Weldon, intenta a limare le unghie tutte rovinate di un contadino di nome Gilpatrick. Sentendo questo suggerimento la ragazza non sollevò lo sguardo. L'aveva udito spesso. La prendevano sempre in giro per colpa di Martin lo Strano.
Il signor Simpson si allontanò dalla vetrina e riprese a lavorare sui capelli impolverati di Gilpatrick, che si mise a ridacchiare sottovoce. "Quale donna sposerebbe lo Strano? A volte quasi ci credo anch'io che sia morto, ha addosso un tale puzzo."
La signora Weldon alzò lo sguardo, fissò Gilpatrick e gli tagliò deliberatamente un dito con una delle sue limette affilate. "Accidenti! Stia attenta a quel che fa!"
La ragazza lo fissò con i suoi occhi azzurri piccoli e calmi nel visino pallido. Aveva i capelli castano-topo, non si truccava e in genere non parlava con nessuno.
Il signor Simpson scoppiò in una ristata stridula e fece scattare a vuoto le forbici d'acciaio. "Gah, gah,gah!" rise più o meno così. "La signora Weldon sa cosa fa, Gilpatrick, meglio che tu stia attento. Lo scorso Natale la signorina Weldon ha regalato a Martin una bottiglia di acqua di colonia che l'ha aiutato a coprire un po' la sua puzza."
La signorina Weldon posò gli strumenti.
"Mi spiace, signorina Weldon," si scusò il signor Simpson. "Non dirò più nulla."
La donna riprese in mano i suoi arnesi con evidente riluttanza.
"Ehi, ecco che ricomincia!" urlò uno degli altri quattro clienti in attesa nel negozio. Il signor Simpson si girò di scatto, rischiando di portarsi dietro, tra le forbici, il roseo orecchio di Gilpatrick. "Venite a vedere, ragazzi!"

In quel preciso istante, dall'altra parte della strada lo sceriffo usciva dalla porta del suo ufficio, anch'egli vide ciò che stava succedendo. Vide che cosa stava facendo Martin lo Strano.
Tutti uscirono di corsa dai negozietti.
Lo sceriffo arrivò e guardò giù nel cataletto di scolo.
"Andiamo, Martin, andiamo," gridò, dandogli un colpetto leggero con la punta degli stivali neri lucidati. "Andiamo, alzati. Non sei morto. Stai bene quanto me. Ti prenderai un bel raffreddore lì sdraiato in mezzo ai mozziconi e alle cartacce! Su alzati!"
Arrivò anche il signor Simpson, e guardò a sua volta Martin sdraiato a terra. "Sembra un cartone del latte."
"Sta occupando un sacco di spazio dove potrebbero parcheggiare, ed è pure venerdì mattina," si lamentò lo sceriffo. "C'è molta gente che avrebbe bisogno di questo posto. Su, Martin…Hmm. Bene, datemi una mano, ragazzi."
Spostarono il corpo sul marciapiede.
"Lasciatelo lì," ordinò lo sceriffo, camminando avanti e indietro nei suoi stivaloni. "Lasciatelo lì fino a quando non si sarà stancato. È abituato a fare queste cose, gli piace la pubblicità. Smammare, ragazzini!"
A queste parole un gruppo di ragazzetti si disperse precipitosamente.
Tornato nel negozio di barbiere, Simpson si guardò in giro. "Dov'è la signorina Weldon?" Guardò fuori dalla vetrina. "Ah, eccola lì. È andata a ripulirlo un'altra volta mentre lui se ne sta sdraiato a terra. Gli sistema il vestito, glielo abbottona. Eccola che arriva. Che nessuno si sogni di fare battute, sapete che si arrabbia."
L'orologio batté le dodici, poi l'una, le due e infine le tre. Il signor Simpson contò i rintocchi. "Scommetto che Martin se ne starà sdraiato fino alle quattro," commentò.
Qualcuno aggiunse:2 Io scommetto che starà lì fino alle quattro e mezza."
"L'ultima volta" - un clic-clac delle forbici - "ha resistito quattro ore. Oggi è una bella giornata calda, e magari si fa una dormita fino alle cinque. Vada per le cinque. Vediamo i vostri quattrini, signori. Forse anche più tardi."
Il denaro venne raccolto e appoggiato su uno scaffale vicino ai barattoli di brillantina.
Tra i presenti c'era un ragazzo che si mise a scortecciare un bastone con il suo coltellino. "È strano come scherziamo su Martin. Dentro di noi, ci fa paura. Voglio dire che non permetteremmo mai a noi stessi di credere che sia davvero morto. Non osiamo crederlo. Non ce la caveremmo più se ci convincessimo di una cosa del genere, e allora ci scherziamo sopra. Lasciamo che si sdrai dove gli pare. Non fa del male a nessuno. Si limita a starsene lì. Però mi sono accorto che il dottor Hudson non ha mai appoggiato davvero lo stetoscopio sul cuore di Martin. Scommetto che aveva paura di ciò che avrebbe potuto scoprire."

Paura di ciò che avrebbe potuto scoprire!" Risate. Anche Simpson rise, e fece snik-snik con le forbici. Due uomini con dei barboni incrostati risero un po' troppo sguaiatamente. La risata non durò a lungo. "Sei proprio un tipo divertente!" dissero tutti al ragazzo, scambiandosi grandi pacche sulle ginocchia magre.
La signorina Weldon continuò a fare la manicure al suo cliente.
"Si sta alzando!"
Tutti si avvicinarono alla vetrina per vedere Martin lo Strano tirarsi in piedi. "È su un ginocchio, ora sull'altro, adesso qualcosa gli dà una mano."
"È la signorina Eldon. Si è subito precipitata ad aiutarlo."
"Che ore sono?"
"Le cinque. Fuori i soldi, ragazzi!"
"Quella signorina Weldon è una tipa ben strana anche lei. Prendersi cura di un uomo come Martin!"
Simpson fece schioccare le forbici. "essendo un'orfana, è una persona tranquilla, le piacciono gli uomini che non parlano molto. Lo Strano non parla quasi mai, al contrario di noi zoticoni, vero amici? Parliamo troppo, e alla signorina Weldon non piace il nostro modo di esprimersi."
"Ecco che se ne vanno tutti e due, la signorina Weldon e Martin lo Strano."
"Simp, rifilami ancora un po' intorno alle orecchie, per favore."

Il piccolo Charlie Bellows percorreva la strada facendo rimbalzare una palla di gomma rossa, con la frangia di capelli biondi che gli sfiorava gli occhi blu. Colpì distrattamente la palla, tenendo la lingua tra le labbra, e la palla andò a finire sotto i piedi di Martin lo strano, che nel frattempo era tornato a sedersi sul barile di catrame. All'interno della drogheria, la signorina Weldon stava facendo la spesa per la cena, infilando in un cestino lattine di minestra e di verdura in scatola.
"Posso riavere la mia palla?" chiese il piccolo Charlie Bellows sollevando lo sguardo verso il metro e novanta di Martin. Vicino a loro non c'era nessuno che potesse sentirli.
"Puoi riavere la tua palla?" domandò a sua volta Martin, esitante, dando l'impressione di volerci pensare su un po' prima di rispondere. I suoi spenti occhi grigi modellarono Charlie come si potrebbe modellare una pallina di argilla. "Puoi riavere la tua palla; sì, prendila."
Charlie si piegò lentamente ad afferrare la sfera di gomma rosso brillante, e si rialzò poi lentamente, con uno sguardo carico di mistero. Guardò a nord, poi a sud, e infine fu la volta della faccia pallida e ossuta di Martin lo Strano. "Io so una cosa."
Martin abbassò lo sguardo. "Sai una cosa?"
Charlie si allungò verso di lui. "Tu sei morto."
Martin lo Strano restò lì seduto.
"Sei morto davvero," sussurrò il piccolo Charlie Bellows. "Ma io sono l'unico a saperlo. Io ti credo, signor Strano. Ci ho provato anch'io una volta. A morire, voglio dire. È difficile, una vera faticaccia. Sono rimasto steso sul pavimento per un'ora. Però sbattevo gli occhi, e mi prudeva la pancia, così me la sono grattata. E poi ho lasciato perdere. E perché?" Si guardò le scarpe. "Perché dovevo andare al gabinetto."
Nella carne morbida e pallida del viso di Martin, lungo e ossuto, apparve un lento sorriso di comprensione. "È una gran fatica, e non è facile per niente."
"Qualche volta penso a te," riprese Charlie. "Ti vedo mentre cammini vicino a casa mia, di notte. A volte alle due del mattino, a volte alle quattro. Mi sveglio e so che sei là fuori a gironzolare. So che dovrei guardare fuori allora guardo, e cavoli!, eccoti lì, che cammini e cammini, senza andare da nessuna parte."
"Non c'è nessun posto in cui andare." Martin se ne stava seduto con le larghe mani squadrate e callose sulle ginocchia. "Io provo a pensare a un - posto dove - andare - " rallentò, come un cavallo frenato dal morso" - ma è difficile pensare. Io ci provo e - provo. Certe colte quasi so cosa fare, dove andare, poi però me lo dimentico. Un giorno mi era venuto in mente di andare da un dottore e farmi dichiarare morto, ma chissà per qual motivo" - la sua voce era diventata lenta, rauca e bassa - "non ci sono mai andato."
Charlie lo fissò dritto in faccia. "Se vuoi ti porto io."
Martin lo Strano guardò lentamente il sole che tramontava. "No. Sono stanco morto, ma - aspetterò. Sono arrivato fin qui e adesso sono curioso di vedere che cosa succederà. Dopo l'alluvione che si è portata via la mia fattoria e tutto il bestiame e mi ha cacciato sott'acqua, come un pulcino in un secchio, mi sono riempito d'acqua come una borraccia, e in qualche modo me ne sono venuto via a piedi dall'alluvione. Però sapevo di essere morto. A notte tarda me ne sto sdraiato nella mia stanza ad ascoltare, ma non sento il battito del mio cuore nelle orecchie, nel petto, o nei polsi, anche se rimango immobile come un pezzo di legno. Dentro di me c'è solo oscurità, rilassamento e una forma di comprensione. Eppure dev'esserci un motivo se io cammino ancora. Forse è perché quando sono morto ero giovane. Avevo solo ventott'anni, ed ero ancora scapolo. Ho sempre voluto sposarmi, ma non ci sono mai riuscito. Ed eccomi qui, ridotto a svolgere strani lavoretti in giro per la città e a risparmiare denaro, perché io non mangio mai: cavolo, non posso mangiare, e a volte sono così scoraggiato e fuori dai gangheri che mi sdraio nel cataletto di scolo sperando che mi prendano e mi infilino in una cassa di pino, e mi seppelliscano per sempre. E al tempo stesso non vorrei che accadesse. Voglio qualcosa di più. So che ogni volta che la signorina Weldon mi passa vicino e il vento gioca nei suoi capelli come con una piuma castana…" Martin concluse la frase con un sospiro e sprofondò nel silenzio.
Charlie Bellows rimase educatamente zitto per un minuto, poi si schiarì la voce e schizzò via, facendo rimbalzare la palla. "Ci vediamo!"
Lo Strano continuò a fissare il punto dov'era stato Charlie. Cinque minuti dopo sussultò. "Eh? C'è qualcuno? Qualcuno ha parlato?"

La signorina Weldon uscì dalla drogheria con un cestino pieno di roba da mangiare.
"Ti va di accompagnarmi a casa, Strano?"
Si incamminarono in un silenzio rilassato, la donna attenta a non procedere troppo velocemente, perché Martin disponeva i passi con estrema circospezione. Il vento frusciava tra i cedri, gli olmi e gli aceri su tutta la strada. Martin socchiuse più volte le labbra, sbirciando la sua compagna e affrettandosi a serrare di nuovo la bocca e a fissare davanti a sé, quasi stesse guardando qualcosa che si trovava a un milione di chilometri di distanza.
A un tratto Martin disse: "Signorina Weldon?"
"Sì, Strano?"
"Ho continuato a risparmiare quattrini, e ho messo via una bella sommetta. Non spendo niente e - be', ne sarebbe sorpresa" aggiunse con sincerità."Possiedo circa mille dollari. Forse più. A volte li conto, poi mi stanco e non riesco più a contare. E - " d'un tratto sembrava confuso e vagamente arrabbiato con lei. "Perché le piaccio, signorina Weldon?" le chiese.
La donna parve un po' sorpresa, poi gli sorrise. Lo sguardo di apprezzamento che gli rivolse era quasi infantile. "Perché sei un tipo tranquillo. Perché non sei rumoroso e cattivo come gli altri al negozio di barbiere. Perché sono sola, e tu sei stato gentile. Perché sei il primo a cui sia mai piaciuta. Gli altri non mi hanno mai nemmeno degnata di un'occhiata, dicono che non so pensare, e che sono un'idiota, perché non ho finito le medie. Ma sono così sola, Martin, e parlare con te significa molto per me."
Lui le prese la mano, piccola e pallida, stringendola forte. La signorina Weldon si inumidì le labbra. "Mi piacerebbe che potessimo cambiare il modo in cui la gente parla di te.. Non voglio sembrare cattiva, Strano, ma se solo smettessi di dir loro che sei morto…"
L'uomo si arrestò. "Allora non mi credi nemmeno tu," commentò con tono distaccato.
"Tu sei 'morto' perché desideri intensamente la cucina di una brava donna, l'amore, il vivere come si deve. Ecco cosa intendi per 'morto'; nient'altro!"
Gli occhi grigi di Martin erano profondi e smarriti. "È quello che ho sempre voluto dire."
I loro passi marciarono uniti, alla deriva nel vento come foglie svolazzanti, mentre la sera diventava più tenera e buia, e cominciavano a uscire le stelle.
Quella sera, verso le nove, due ragazzi e due ragazze erano fermi sotto un lampione. Videro in lontananza qualcuno che camminava tutto solo, lento e in silenzio.
"Eccolo là," esclamò uno dei ragazzi. "Chiediglielo tu, Tom."
Tom si accigliò, a disagio. Le ragazze risero di lui, e allora decise di accettare: "Va bene, però venite anche voi."
Il vento scuoteva gli alberi, facendo cadere manciate di foglie vicino alla testa di Martin lo Strano, che si stava avvicinando.
" Signor Strano? Senta, signor Strano."
"Eh? Salve."
" Noi… ehm… cioè" Tom deglutì, guardandosi intorno in cerca di aiuto. "Vorremmo chiedere se… be'… ci piacerebbe che venisse alla nostra festa!"
Un minuto più tardi, dopo aver guardato la faccia pulita e profumata di sapone di Tom e aver notato la bella giacca blu che indossava la sua amica sedicenne, Martin rispose. "Grazie, ma non saprei, può darsi che mi dimentichi di venire."
"No, non lo farà," insisté Tom. "se ne ricorderà per forza: è Halloween!"
Una delle ragazze l'afferrò per un braccio e sibilò. "Lascia perdere, Tom. Lascia perdere, per favore. Non va bene, non fa abbastanza paura."
Tom si liberò dalla presa. "Lascia che sia io a occuparmene."
La ragazza lo supplicò. "No, per favore. È solo un vecchio zozzone. Bill può mettersi della cera sulle dita e quegli orribili denti di porcellana in bocca, farsi le occhiaie verdi, e metterci addosso una paura da farsela sotto. Non abbiamo bisogno di lui!" Con un cenno imperioso indicò Martin.
L'uomo rimase fermo. Ascoltò per dieci minuti il vento che scuoteva la cima degli alberi prima di accorgersi che i quattro ragazzi non c'erano più. Una risatina secca gli salì nella gola come un sassolino. Bambini. Halloween. Non fa abbastanza paura. Bill andrà meglio. Solo un vecchio. La sua risata gli sembrò strana e amara al tempo stesso.
Il mattino dopo, il piccolo Charlie Bellows lanciava la palla contro la facciata dell'emporio, la riprendeva, la gettava di nuovo. Dietro di sé udì qualcuno canticchiare a bocca chiusa, si voltò. "Oh, ciao, signor Strano!"
Martin camminava, intento a contare alcuni dollari che aveva in mano. D'un tratto si fermò, con lo sguardo vuoto.
"Charlie!" chiamò. "Charlie!" Cercò con le mani a tentoni.
"Sì, signor Strano!"
"Charlie, dove stavo andando? Dove stavo andando? Andavo da qualche parte a comperare qualcosa per la signora Weldon! Charlie, aiutami!"
"Sì, signor Strano." Charlie gli corse vicino e si fermò nella sua ombra.
Dall'alto scese una mano con dei soldi, almeno settanta dollari. "Charlie, corri a comperare un vestito per - la signorina Weldon…" La mente di Martin lottava, cercava, afferrava, persa in una ragnatela di oblio. Sul suo viso si leggevano terrore puro, desiderio e paura. "Non riesco a ricordami il posto, mio dio, aiutami a ricordare. Un vestito e un soprabito, per la signorina Weldon - al - al…"
"Ai grandi magazzini Krausmeyer?" suggerì Charlie.
"No."
"Da Fieldman?"
"No!"
"Dal signor Leiberman?"
"Da Leiberman! Eccolo! Leiberman, Leiberman! Ecco, ecco, Charlie, prendi e corri da…"
"Leiberman."
"E compra un vestito nuovo per - la signorina Weldon, e un soprabito. Un vestito verde nuovo, con dipinte delle rose gialle. Comprali e portameli qui. Oh, Charlie, aspetta."
"Sissignore."
"Charlie, credi che potrei darmi una ripulita a casa tua?" chiese Martin con una certa umiltà. "Ho bisogno di farmi un - un bagno."
"Caspita, non saprei, signor Strano. I miei sono gente buffa. Non saprei."
"Non fa niente, Charlie. Capisco. Corri, adesso!"
Charlie afferrò il denaro e schizzò via. Arrivò dal barbiere e cacciò dentro la testa. Il signor Simpson smise di sforbiciare i capelli del signor Trumbull e lo guardò fisso. "Ehi!" gridò Charlie. "Martin lo Strano sta canticchiando una canzone!"
"Quale canzone!"volle sapere il signor Simpson.
"Fa così," rispose Charlie, e la intonò.
"Gran Dio onnipotente!" gridò Simpson. "È per quello che la signorina Weldon non è qui a fare le mani stamattina! Quella canzone è la Marcia nuziale!"
Charlie corse di nuovo via. Che pandemonio!

Urla, risa, il suono di acqua scrosciante e gocciolante. Il retro del negozio di barbiere era invaso dal vapore. Facevano a turno. Per prima cosa, il signor Simpson prese un secchio di acqua bollente e lo versò addosso a Martin, che se ne stava seduto nella vasca senza dir nulla, poi il signor Trumbull gli strofinò la schiena pallida con una grossa spazzola e un sacco di sapone per il bestiame, mentre di tanto in tanto Tappo Phillips gli spruzzava addosso alcune gocce di acqua di Colonia. Tutti ridevano e correvano in mezzo al vapore. "Stai per sposarti, eh, Strano? Congratulazioni, ragazzo!" Altra acqua. "L'ho sempre detto che era quello che ti serviva," rideva il signor Simpson, colpendo Martin in pieno petto con una sferzata di acqua, questa volta fredda. Martin fece finta di nulla. "Adesso avrai un profumo migliore!"
Martin se ne stava seduto. "Grazie, grazie tante per quello che state facendo. Grazie per l'aiuto che mi date. Grazie per questo bagno, ne avevo proprio bisogno."
Simpson rise sotto i baffi. "Ma figurati: qualsiasi cosa per te, Strano."
"Ve li immaginate quei due sposati? Una scema sposata a un idiota!" sussurrò qualcuno alle loro spalle, nascosto dal vapore.
Simpson si rabbuiò in viso. Chiudete la bocca, lì dietro."
Charlie irruppe nella stanza. "Ecco il vestito verde, signor strano!"
Un'ora più tardi sistemarono Martin sulla poltrona da barbiere. Qualcuno gli aveva prestato un paio di scarpe, che il signor Trumbull stava lucidando vigorosamente, facendo l'occhiolino a tutti. Il signor Simpson gli tagliò i capelli, e non volle essere pagato. "No, no, Strano, consideralo come il mio regalo di matrimonio. Sissignore. "Sputò, poi spruzzò un po' di acqua di rose sui capelli scuri di Martin. "Ecco fatto: chiaro di luna e rose!"

Martin si guardò attorno. "Non dirà a nessuno di questo matrimonio, fino a domani?" domandò. "Io e la signorina Weldon desideriamo sposarci senza che tutta la città ci prenda in giro. Capisce?"
"Ma certo, Strano," si affrettò a rispondere Simpson, terminando il lavoro. "Acqua in bocca. Dove andrete a vivere? Comprerai un'altra fattoria?"
"Fattoria?" Martin scese dalla poltrona. Qualcuno gli aveva prestato un bel cappotto nuovo, e qualcuno altro gli aveva stirato i pantaloni. Aveva un ottimo aspetto. "Sì, sto proprio andando a concludere l'acquisto. Dovrò pagare qualcosa di più, ma ne vale la pena. Splendido. Andiamo, ora, Charlie Bellow." Si avviò verso la porta. "Ho comperato una casa alla periferia della città e devo andare a pagarla. Andiamo, Charlie."
Simpson lo fermò. "Com'è possibile? Non hai molti soldi, non puoi certo permetterti granché."
"No," rispose lo Strano, "ha ragione. È una casa piccola. Chi l'ha costruita tempo fa, ha dovuto trasferirsi da qualche parte, a est; era in vendita a soli cinquecento dollari, così l'ho comperata. Io e la signorina Weldon ci trasferiamo stanotte, dopo la cerimonia. Per favore non lo dica a nessuno, almeno fino a domani."
"Certo, Strano, certo."
Martin se ne andò nella luce delle quattro del pomeriggio, con Charlie al suo fianco, e gli uomini nel negozio del barbiere si misero a sedere, ridendo e parlando.

Il mattino successivo, a colazione, il piccolo Charlie mangiava pensieroso i suoi cereali. Suo padre abbassò il giornale e guardò la moglie. "Tutti in città parlano della fuga d'amore di Martin lo Strano e della signorina Weldon," esclamò.
"Li stanno cercando, ma non riescono a trovarli."
"Be'", dicono che Martin abbia comperato una casa per lei," osservò la madre.
"Anch'io l'ho sentito dire," aggiunse il padre. "Questa mattina ho telefonato a Carl Rogers: dice che non ha venduto nessuna casa allo Strano. E Carl è l'unico agente immobiliare in città."
Charlie Bellow inghiottì un po' di cereali e guardò il padre. "Oh, no, lui non è l'unico agente immobiliare in città."
"Che cosa vuoi dire?" chiese lui.
"Niente, solo che ho guardato dalla finestra a mezzanotte, e ho visto qualcosa."
"Che cosa hai visto?"
"Era tutto illuminato dalla luna, e sai che cosa ho visto? Be', ho visto due persone che camminavano lungo la via Elm Glade. Un uomo e una donna. Lui indossava un cappotto scuro, lei un vestito verde. Camminavano lentissimi, tenendosi per mano." Charlie riprese fiato. "Erano Martin lo Strano e la signorina Weldon. Oltre la via Elm Glade, e in quella direzione non ci sono case, solo il cimitero di trinità Park. E il signor Gustavsson, in città, vende tombe nel cimitero di Trinità Park. Per questo ho detto che il signor Carl Rogers non è l'unico agente immobiliare in città. Quindi…"
"Stavi sognando!" lo interruppe il padre con tono irritato.
Charlie chinò il capo sui cereali, sbirciando appena con la coda dell'occhio.
"Sissignore," mormorò infine, sospirando. "Stavo solo sognando."

 

(Tratto dal libro Danza di morte, - I maestri dell'orrore - , Edizione Bompiani, Milano, 1995, a cura di Dennis Etchison, traduzione di Stefano Gardinale)




Ray Bradbury




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