LA VERSIONE DI BARNEY (un brano)
Mordecai
Richler
"Vorrai che abortisca, immagino" mi disse Clara.
"Piano, piano" le risposi. "Ci devo pensare".
Ma l'unica cosa che pensavo era: Cristo, ho solo ventitré
anni. "Vado a fare due passi. Non starò via molto".
Durante la mia assenza Clara si fece la solita vomitata e al rientro
la trovai addormentata. Erano le tre del pomeriggio e Clara, Clara
l'insonne, dormiva il sonno dei giusti. Tentai di fare un po'
d'ordine e poi, dopo un'ora buona, lei riuscì finalmente
a trascinarsi giù dal letto. "Ah, sei qui" disse.
"Mio eroe".
"Posso parlare a Yossel. Troverà qualcuno lui".
"O magari si arrangerà da solo, con un gancio di attaccapanni.
Peccato che nel frattempo abbia deciso di tenerlo. Con o senza
di te".
"Immagino che in questo caso vorrai che ti sposi".
"Euh, che propostona. Complimenti".
"Stavo solo facendo un'ipotesi".
Clara si inchinò. "Be', vi sarò grata in eterno,
mio signore". Quindi si precipitò fuori dalla stanza
e giù per le scale.
Boogie non fece una piega. "In che senso saresti responsabile,
scusa?".
"Indovina un po'".
"Sei più pazzo di lei. Falla abortire".
Quella
sera la cercai ovunque, e alla fine la trovai alla Coupole, seduta
da sola. Mi chinai a baciarla in fronte. "Ho deciso di sposarti"
le dissi.
"Ullallà, che figata! W non devo neanche dire sì
o no?".
"Potremmo consultare l'I Ching se credi".
"Papà e mamma non verranno. Saranno mortificati. 'la
signora Panofsky'. fa tanto moglie di uno che vende pellicce,
o vestiti. All'ingrosso, chiaro".
Trovai un appartamento, quattro chambres de bonne riattate,
al quinto piano di un palazzo in rue Notre-Dame-des-Champs, e
ci sposammo nella mairie del sixième. La
sposa portava una cloche, un velo assolutamente ridicolo, un vestito
nero di lana lungo fino ai piedi e un boa di struzzo bianco. Quando
le venne chiesto se acconsentisse a prendermi in sposo davanti
alla legge, Clara si riscosse dal suo stupore chimico e strizzò
l'occhio al funzionario: "Ho una pagnotta nel forno. Lei
al posto mio cosa farebbe?". C'erano Boogie e Yossel, e ricevemmo
anche qualche regalo. Da Boogie una bottiglia di Don Pérignon
e quattro tocchi di hascisc infilati in due scarpine da neonato
di lana celeste; da Yossel un set di lenzuola e asciugamani già
proprietà dell'Hôtel George V; da Leo uno schizzo
firmato e una decina di pannolini; e da Terry McIver una copia
autografata del "Merlin" su cui era apparso il suo primo
racconto.
Durante i preparativi per il matrimonio mi era finalmente venuto
in mano il passaporto di Clara, che di cognome risultava Charnofsky.
Ero rimasto di stucco. "Non preoccupare" mi aveva detto
Clara "quella che ti metti in casa è una shiksa
purosangue. Ma a diciannove anni sono scappata in Messico con
quello lì e l'ho sposato. Charnofsky era il mio professore
di disegno. È durata solo tre mesi, ma ci ho rimesso di
brutto. Papà mi ha diseredata".
Una volta trasferiti nel nuovo appartamento, Clara cominciò
a stare in piedi fino a ore impossibili, scrivendo sui suoi taccuini
o concentrandosi su quelle chine allucinanti. Poi dormiva fino
alle due o alle tre del pomeriggio, usciva e spariva fino a sera,
quando si presentava con la sua aria più colpevole al nostro
tavolo del Mabillon o del café Sèlect.
"Per pura curiosità, signora Panofsky, dove hai trascorso
il pomeriggio?"
"Non ricordo. A passeggio, mi sembra. Ah, ti ho portato un
regalo" diceva frugando in una delle sue voluminose gonne,
da cui estraeva una scatoletta di pâté o un paio
di calze, e una volta persino un accendino d'argento. "Se
è maschio," sentenziò un giorno "ho deciso
che si chiamerà Ariel".
"Ariel Panofsky. Non mi sembra che suoni un granché"
fece Boogie.
"Io propongo Otello" disse Leo con un sorrisetto.
"Crepa" gli rispose Clara incenerendolo con lo sguardo,
in uno dei suoi salti d'umore imprevedibili, ma sempre più
frequenti. E subito dopo si voltò verso di me: "Shylock,
piuttosto. Mi sembra più appropriato, non trovi?"
Stranamente, una volta superate le sue nausee mattutine, giocare
a marito e moglie con Clara non era affatto noioso. Andammo a
comprare un po' di stoviglie e una culla. Clara costruì
una girandola da appenderci sopra, e dipinse alle pareti della
camera un'infinità di conigli, scoiattoli e civette. A
cucinare, neanche a dirlo, pensavo io. Zuppa di cipolle - tirata
su col mestolo -, insalata di fegatini di pollo e il mio pezzo
forte, cotolette con latkes e salsa di mele. Gli ospiti più
o meno fissi erano Boogie, Leo con la ragazza di turno e Yossel.
Una volta si presentò persino Terry McIver, ma Clara pose
il veto a Cedric, che non era venuto al matrimonio. "Perché,
scusa?.
"Perché qui non ce lo voglio, punto e basta".
Neppure per Yossel andava pazza.
"Quando c'è lui sento brutte vibrazioni. E poi non
gli piaccio. A parte questo, vorrei proprio sapere cosa state
combinando insieme".
Le feci sedere sul divano e le versai un bicchiere di vino. "Devo
andare in Canada" le dissi.
"Cosa?".
"Starò via al massimo un mese. Yossel ti porterà
dei soldi tutte le settimane".
"Non tornerai più".
"Clara, non cominciare".
"Perché proprio in Canada?"
"Yossel e io stiamo per aprire un import-export di formaggi".
"Stai scherzando. Il formaggio no!, è troppo imbarazzante.
Clara, ho saputo che ti sei sposata a Parigi. E lui cosa fa, scrive,
dipinge? No? E cosa allora? O, niente, è un orrendo piazzista
di formaggi".
"Ma sono soldi sicuri".
"Quello farà contento te, ma io qui da sola divento
pazza. Voglio che mi compri un lucchetto per la porta. E se scoppia
un incendio?".
"E se viene un terremoto?".
"Magari col formaggio farai soldi a palate, così mi
porterai in Canada con te e ci iscriveremo a un circolo di golf,
ammesso che sappiamo cos'è, e la sera inviteremo qualcuno
per un bridge o un mah-jong. Ma ti dico fin d'ora che non parteciperò
ai doposinagoga con le tue amiche ebree, e non farò circoncidere
Ariel. Su questo non transigo".
A Montreal, in tre frenetiche settimane riuscii a fondare una
società, aprire un ufficio e metterlo nelle mani di un
mio vecchio compagno di scuola, Arnie Rosenbaum. Col tempo, Clara
parve rassegnarsi al fatto che ogni sei settimane andassi in Canada;
anzi, a patto che tornassi con un congruo quantitativo di burro
di arachidi e sciroppo d'acero, sembrava non spiacerle più
di tanto. Fu proprio durante i miei soggiorni all'estero che scrisse
e illustrò gran parte di quel Virago's Verse Book felicemente
giunto alla diciottesima ristampa. Una delle poesie, dedicata
a un certo "Barnabus P.", è un simpatico omaggio
al sottoscritto. Comincia così:
Mi sbucciava le arance, ma molto più spesso
sbucciava me,
Calibanovich, il mio secondino.
E
proprio mentre ero a Montreal - per essere più precisi
in una stanza del Mount Royal Hotel, dove cercavo di recuperare
quello che Clara mi aveva tolto in sette mesi di gravidanza -
un mattino all'alba suonò il telefono.
"Penso che faresti meglio a rispondere" disse Abigail,
la moglie del mio compagno di scuola che avevo piazzato in ufficio.
Era Boogie, che disse soltanto: "Prendi il primo volo".
Alle sette e mezzo del mattino dopo atterrai in quell'accidente
di aeroporto che prima di chiamarsi De Gaulle si chiamava non
ricordo più come, e andai dritto sparato all'ospedale americano.
"Devo vedere la signora Panofsky".
"È un parente?"
"Sono il marito".
Un giovane interno alzò di scatto la testa da un grafico
squadrandomi con estremo interesse.
"Il dottor Mallory vorrebbe prima scambiare due parole con
lei" disse l'infermiera dell'accettazione.
Il dottor Mallory, un uomo tarchiato con una frangia di capelli
grigi, un'altissima opinione di sé e l'aria di chi non
ha mai curato pazienti all'altezza delle proprie capacità,
mi sembrò subito odioso. Dopo avermi invitato a sedere,
mi disse che la signora Panofsky aveva perso il bambino, ma godeva
di ottima salute, e nulla le avrebbe impedito di averne altri.
Poi, con un sorriso divertito, aggiunse: "Glielo dico perché
immagino che lei sia il padre".
Sembrava aspettare una risposta.
"Infatti".
"In tal caso" disse il dottor Mallory facendo schioccare
le bretelle sgargianti, e sparando finalmente la battuta che doveva
aver provato chissà quante volte "lei dev'essere un
albino".
Mangiai la foglia. "Noi due facciamo i conti dopo" dissi
rivolgendo al dottor Mallory quello che speravo fosse il mio sguardo
più minaccioso.
Clara era in corsia con altre sette donne, alcune delle quali
stavano allattando. Credo avesse perso molto sangue, perché
era bianca come un lenzuolo. "Ogni quattro ore mi attaccano
delle ventose ai capezzoli e mi strizzano fuori il latte, fossi
una vacca. Hai visto il dottor Mallory?".
"Sì".
"'Che gentaglia che siete,' mi ha detto 'proprio gentaglia'.
E mi mostrava quel povero esserino morto come se fosse appena
uscito da una fogna".
"Dice che domattina posso riportarti a casa". Il tono
fermo che avevo tirato fuori sorprendeva anche me. "Vengo
presto".
"Non ti ho preso in giro, Barney. Ero sicura che il bambino
fosse tuo".
"E come diavolo facevi a essere così sicura?".
"È successo una volta sola, ed eravamo tutti e due
strafatti".
"Clara, qui c'è un po' troppa gente per parlarne,
eh? Ci vediamo domattina".
"Domattina qui non mi ci trovi".
Lo studio del dottor Mallory era vuoto, ma sulla scrivania c'erano
due biglietti aerei di prima classe per Venezia e la ricevuta
di una presentazione al Gritti. Copiai il numero della prenotazione,
mi precipitai al più vicino ufficio postale e chiamai subito
l'albergo. "Sono il dottor Mallory. Vorrei annullare la prenotazione
a mio nome".
Ci fu un attimo di silenzio. L'impiegato stava cercando la scheda.
"Per tutti e cinque i giorni?" chiese.
"Sì".
"In tal caso, signore, ci vediamo costretti a trattenere
la caparra".
"Me lo aspettavo, brutto mafiosetto da quattro soldi".
(Tratto dal romanzo
La versione di Barney,
Adelphi editrice, Milano, 2000. Traduzione di Matteo Codignola)
Mordecai Richler
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