UNA GIORNATA DI PRIMAVERA A URBIGNY-SUR-LARVE
Jean-Jacques Langendorf
La guerra è fatta da quelli che si odiano
senza conoscersi, a vantaggio di quelli
che si conoscono e non si odiano.
PAUL VALERY
Vi sono cose, come questa, in cui ci vuole tempo per capire. Parole,
gesti, talvolta persone in carne e ossa. Ingiustizie anche, che
forse è ancora più arduo capire. State per ascoltare
una vecchia storia. Della prima guerra. Dei bollori della primavera
1916. Avevo dodici anni (come vedete, è una vecchia storia),
esattamente dodici anni, poiché sono nato nel giugno 1904,
a Urbigny, cantone di Chareuse, dipartimento di Gers. Mio padre
era fattore, mia madre figlia di modesti contadini. Ho avuto un'infanzia
felice. Vivevamo fuori dal villaggio, in una piccola casa dal
tetto rosso e assai spiovente che mio padre aveva ereditato da
uno zio vedovo senza figli. Intorno a noi si stendevano boschi
di castagni,
traversati dalla Larve che senza affrettarsi (con un simile nome!)
scorre verso Est. In estate vi facevamo il bagno, costruivamo
piccole dighe, porti, mulini che, ai nostri occhi, apparivano
fiabesche macchine a vapore. Talvolta, in vena di caccia, catturavamo
dei gamberi. Dico catturavamo, perché mi riferisco, oltre
a me stesso, a mio fratello, maggiore di otto anni, e ad alcuni
ragazzi del villaggio. Nel '14 mio fratello non partì.
Aveva preceduto la sua classe, arruolandosi nell'artiglieria.
Mio padre non fu chiamato. Era troppo vecchio. Si contentò
di vaghe funzioni (non so più quali) nella milizia territoriale.
Come tutti i bambini della mia età e della mia generazione,
seguivo le operazioni militari con passione. Dimenticai le dighe,
i bagni e persino Huron, il mio coniglio ammaestrato. Una volta
alla settimana l' "Illustration" mi trasferiva direttamente
sul fronte: direi quasi che attraversavo le sue foto per ritrovarmi
servente di un cannone da 75, granatiere in trincea, valorosa
sentinella che, all'angolo di un muro crollato, vigila una coorte
di prigionieri tedeschi dai piccoli occhiali di metallo, aviatore
nell'atto di abbattere in serie, con la mitraglia, arroganti "Aviatiks".
Le illustrazioni che preferivo erano i disegni, soprattutto di
George Scott: indimenticabili cariche, "rosalie al cannone",
ulani con la schiuma alla bocca, trapassati dalle sciabole - credo
si chiamassero bancals - dei nostri eroici dragoni.
Mia madre si rifiutava di sfogliare quelle pagine e non approvava
che io le leggessi. Lei pensava al fronte, a mio fratello, alla
morte. Tuttavia, non c'era da stare tanto in pensiero. Avevamo
saputo che era stato assegnato all'intendenza d'una batteria di
artiglieria pesante, assai indietro, e le sue lettere ci rassicuravano
che non aveva mai visto il fuoco. Quanto a mio padre, lui voleva
che leggessi l' "Illustration". Pensava che fosse un
bene che vedessi, attraverso le sue stupefacenti immagini, la
grandezza del sacrificio imposto alla Francia per respingere gli
Unni e, infine, per garantire benessere al nostro cantone, tra
Urbigny e la Larve.
Curiosamente, a metà di quel 1916, benché i giovani
e i meno giovani del villaggio fossero stati mobilitati, mio padre
non aveva ancora bussato a una porta per porgere in compagnia
del sindaco il tragico telegramma. Sembrava che Dio volesse proteggerci,
ma con la più grande soddisfazione del curato che non mancava
mai, nei suoi sermoni, di esortarci a uno zelo maggiore per testimoniare
la nostra gratitudine verso la bontà - "l'infinita,
l'impenetrabile saggezza" - dell'Onnipotente. Il nazionalismo
ombroso di padre Garissard, che pretendeva di aver fatto fuoco
sul Prusco nel '71, s'impermaliva quasi per quel "miracolo",
soprattutto dopo tre sorsate di acquavite, poiché noi eravamo
i soli in tutto il cantone a non avere "nostri" eroi.
E neanche la benché minima menzione di uno dei nostri "giovanotti",
così diceva, all'ordine della divisione, o più umilmente
ancora, del reggimento. La mia opinione non era molto lontana
dalla sua. Avevo acquisito, a scuola, una certa notorietà
per il mio sciovinismo estremo e per l'aggressività del
mio bellicismo. A forza di leggere e di rileggere l' "Illustration",
di interrogare mio padre (che disponeva di informazioni inedite,
poiché prima di portare "Le Gaulois" al conte
di Gironcourt, che possedeva 500 ettari e un castello dietro il
castagneto, lo leggeva accuratamente) e padre Garissard, la cui
conoscenza militare era ineccepibile, mi ero fatto un bagaglio
che esponevo confusamente ai miei sbigottiti compagni.
Ero documentatissimo sui calibri dell'artiglieria, il numero delle
divisioni, il colore delle uniformi e delle bandiere, il tonnellaggio
delle navi di combattimento e altro. Il nostro istitutore, il
signor Clavéria, che per una forte claudicazione non era
partito, e il cui cuore vibrava forte, ci leggeva, quando riteneva
che l'avessimo meritato, quelli che chiamava "i poemi forti".
Una parte di quei versi, dedicati "Al '75" mi è
sempre rimasta nella memoria:
"Eh
bien! petit canon qui n'est plus une chose
Mais un être agissant, digne d'apothéose,
Quant à force de parler haut
Ta voix imposera silence
Au croassement du corbeau,
Comme c'est toi, sur le plateau,
Qui fera pencher la balance;
Comme l'univers à jamais
Te devra l'éternelle paix
Et la France un nouveau prestige..."
A
sera, soprattutto quando pioveva e il vento soffiava nel castagneto,
rannicchiato sotto il piumino, che immaginavo fosse un blockhaus
in avamposto, li recitavo con furore.
Mio padre e io avevamo affisso nella cucina, a sinistra del camino,
una grande carta geografica - dono di Natale di non so più
quale istituzione - e, ogni volta che il fronte si spostava, montavo
su una sedia per collocare le bandierine colorate che avevo personalmente
confezionato.
Gli avvenimenti non evolvevano velocemente secondo i miei desideri,
e io immaginavo armi così terrificanti e, insieme, così
imprecise da annientare in un'apoteosi infernale, il "Chleuh",
il "Crucco", "l'immondo incendiario di Louvin e
di Senlis".
In breve, un universo infantile, riflesso, d'altra parte, conforme
al mondo degli adulti, dove tutto è al suo posto in una
bella armonia che consente al Bianco, cui ero fiero di appartenere,
e al Nero, che doveva logicamente soccombere, di fronteggiarsi
senza esitazioni.
Sì, una bella armonia! Fino a quel giorno di metà
maggio del 1916. Ricordo che non era né una domenica né
un giovedì. Il pomeriggio era appena iniziato e io non
ero a scuola. Il signor Clavéria s'era forse ammalato,
come spesso gli accadeva, e ci aveva dispensati dall'andare in
classe.
Ero seduto sulla panchina davanti alla casa, a chiedermi cosa
avrei fatto durante il lungo pomeriggio. Sentivo mia madre maneggiare
pentole e piatti nella cucina. Un volo di merli si levò
dal castagneto, come se un colpo di vento li avesse scacciati.
Eppure tutto era calmo e il caldo accresceva l'immobilità
delle cose. Alzai la testa, tirai fuori dalla tasca dei calzoni
la fionda, destinata, nella mia immaginazione, all'eliminazione
tanto dei passeri quanto dei Crucchi.
E vidi.
Sopra di me, a qualche metro da terra, tra le case e gli alberi,
sospeso sull'orto, ondeggiava un ragno enorme, il simbolo aborrito
della razza maledetta. Un'abominevole croce nera, così
grande che mi sembrava schiacciasse tutto, animali, alberi e case.
Nello stesso tempo una spessa ombra avvolse la mia panchina, il
giardino, il margine del bosco. Nella cucina il rumore delle stoviglie
cessò. Da lontano - ricordo con precisione, poiché
in mezzo alle grandi cose sono le piccole che ci sconvolgono -
udii lo stridio di un'allodola. Ero irrigidito, con la fionda
in mano, incapace del benché minimo gesto, con il cuore
e il sangue bloccati. E, a distanza d'uno sputo, sempre l'orrenda
croce. Non avevo neppure la forza di chiamare mia madre. Tutto
mi appariva come se la vita si fosse fermata.
Con uno strano piccolo rumore, tra il ticchettio e il fischiettio,
la croce si allontanò, sollevandosi un po' per perdersi
dietro i castagni, dietro la Larve. Poi più nulla. Nessun
suono; solo il silenzio della natura in agguato, come prima delle
grandi tempeste, o, come avrei appreso dopo, dei terremoti. D'improvviso
l'orizzonte si infiammò tra le terre del conte e il fiume,
e il sibilo delle fiamme rosse, inframmezzate di nero - come il
drappo che faceva da sfondo alla croce maledetta - piegò
la cima degli alberi, sparpagliando foglie e scorie un po' dappertutto.
Le mie impressioni divennero in seguito più confuse, poiché
mia madre, strappandomi dalla mia panchina, mi trascinò
in cucina, mi spinse dietro la stufa di ghisa e chiuse la porta
di legno e le imposte. Piangevo. Avevo molta paura. Mia madre
sedette accanto a me, piangendo anche lei. "Mio dio, è
uno zeppelin, uno zeppelin precipitato nel bosco". Il mistero
della croce nera si sciolse. Possedevo la mia spiegazione e mi
sentivo rassicurato. Come un galletto bellicosamente nutrito,
mi drizzai sugli speroni. "Crucchi, Crucchi, qui, vicino
casa!" Non avevo che un'idea: correre, andare a vedere, impossessarmi
d'un pezzo della carcassa bruciata per mostrarla ai miei compagni
e anche, perché no, portargli un prigioniero. (Dentro di
me pensavo: ferito sarà più debole di me, così
potrò legarlo e trascinarlo via. Come si vede, ero consapevole
della mia giovinezza!)
Fuori, il crepitio si faceva più forte. Le fronde dei castagni
cominciavano a bruciare, Poi vi fu nuovamente silenzio. Un odore
di gomma bruciata invase la cucina. Mi alzai in piedi. Mia madre
appariva più calma. Si udì un rombo lontano, familiare
questa volta, l'inizio di un temporale. Mia madre si avvicinò
alla finestra e scostò le tende. Scrutò il cortile,
il castagneto e la Larve. Vidi un fumo fitto dietro gli alberi.
Qualcosa di opaco, di così denso che ebbi l'impressione
di contemplare un cavatappi risucchiato da un cielo impeccabilmente
azzurro. Infine mia madre aprì la porta e uscì di
casa. Mi accostai a lei, ma non troppo. Non volevo soprattutto
che mi prendesse la mano. Mi sentivo in "stato di guerra",
come un eroe risoluto ad affrontare la fetta di storia offertagli
dal destino.
Restammo là, immobili, non sapendo che fare.
Avevo pensato di correre verso la Larve, di attraversarla, per
vedere cosa fosse successo. Ma non osavo. Sapevo che mia madre
me l'avrebbe impedito. Il cavatappi si torse ancora una o due
volte su se stesso, si abbassò, si gonfiò, poi disparve,
inghiottito dagli alberi. Alcune scorie volarono verso l'innaffiatoio
e verso la capanna destinata agli attrezzi, poi si posarono dolcemente
sull'erba e sul ghiaietto del cortile. Gli uccelli, tornati sui
rami, ripresero il loro canto. Noi eravamo sempre lì, fermi
e muti, al cospetto della consueta calma che la lenta apparizione
della croce nera e l'orrore del fuoco avevano frantumato per un
istante.
Fu allora che un uomo apparve, non sulla strada del villaggio,
ma sul sentiero che spariva nei boschi e procedeva lungo la Larve,
per attraversarla su quello che io chiamavo "il ponte":
due umili assi sorretti da alcuni pali.
L'uomo avanzava con passo tranquillo come uno di quei cercatori
di funghi che talvolta, la domenica, prendevano quel sentiero.
Venne dritto verso di noi, come un vagabondo che, a sera, stanco
del suo andare si dirige alle fattorie e chiede un pasto ai contadini.
"Bene, pensai, finalmente sapremo che è successo laggiù".
L'uomo avanzava sempre. Solo quando fu a qualche metro da noi
compresi chi fosse. Mia madre, che mi afferrò brutalmente,
lo comprese come me: un tedesco. Non ci lasciò il tempo
di entrare in cucina e chiudere la porta. Fece un breve inchino
e sorridendo: "Signora, potrei sedere per un istante da voi
nell'attesa dei soccorsi?" Non notai neppure (sono cose che
sfuggono, poiché a quell'età sembrano scontate)
che parlava francese alla perfezione, senza inflessione. Notai,
invece, la sua tenuta. Eleganti stivali neri, pantaloni grigi
profilati da bordini blu, un giubbotto di cuoio col collo di pelliccia,
chiuso fin sotto il mento. Nel mezzo del bavero, la stessa croce
nera che avevo visto nel cielo e che conoscevo bene. Guardavo,
affascinato. Notai inoltre che non portava armi. Mia madre, paralizzata,
non rispose alla domanda, ma mi strinse ancora più forte
a lei. Il viso regolare e giovanile del tedesco si volse allora
verso me: "Come ti chiami, piccolo?" Senza pensare che
avevo davanti il nemico, il Crucco infame, "la cimice puzzolente",
come diceva Garissard, gli risposi: "Frédéric".
Sorrise, infilò le mani in tasca: "Sai che abbiamo
avuto un grande re che portava questo nome?" Non lo sapevo.
Ero intimidito. Il nostro istitutore non mi aveva mai parlato
di quel re. Abbassai gli occhi. Avevo paura di piangere. Il tedesco
si volse di nuovo a mia madre: "Perdoni la mia insistenza,
madame, ma potrei entrare per un istante a sedere?" Mia madre
parve infine comprendere. Si voltò, aprì la porta,
entrò in cucina dove ronzavano le mosche e spinse una sedia
verso il tavolo. Ci guardò, sempre sorridendo, poi osservò
intorno, esaminando la cucina con estrema cura. Fermò lo
sguardo al di sopra del camino, dove erano allineate delle fotografie.
Poi si rivolse a mia madre: "Avete un figlio al fronte, madame,
in artiglieria?" Per la prima volta mia madre parlò:
"Sì, signore, al fronte". "È una
cosa terribile e curiosa questa guerra, madame. Un quarto d'ora
fa ero libero, nell'aria, e adesso eccomi in una cucina francese!
Potrei bere qualcosa?" Senza rispondere mia madre si mise
al fornello per riscaldare il caffè. Il tedesco aveva un
tono molto distinto, parlava come il signor conte. Mia madre e
io avevamo istintivamente riconosciuto l'inflessione di quelli
che non sono del nostro rango, che vengono da un altro mondo,
"dall'alto", e, nel caso dello straniero, da molto alto.
Avevo l'impressione di assistere alla visita annuale del signor
di Gironcourt, a capodanno, per le strenne. Mia madre mi chiese
di cercare una tazza e due zollette di zucchero nella credenza.
Fu in quell'istante che giunse mio padre. Udimmo sferragliare
la sua bicicletta, che lui lasciò cadere al suolo. Un segno
d'agitazione inconsueto per mio padre, un uomo calmo e riflessivo.
Lo vedo ancora oggi entrare in cucina, trafelato, con l'uniforme
in disordine, senza berretto, seguito da Roselle, il vicesindaco.
Al cospetto dello straniero seduto i due uomini si irrigidirono.
Non so bene cosa li paralizzasse, se il terrore per il tedesco
o la calma che, malgrado tutto, emanava la scena. L'uomo accomodato,
mia madre nell'atto di scaldare il caffè, io in ginocchio,
in cerca d'una tazza e dello zucchero nella credenza. Il tedesco,
come se fosse a casa sua, decise di mettere i due a proprio agio.
Si alzò: "Luogotenente di vascello von Büzlar,
comandante dello zeppelin L-107, caduto davanti casa vostra".
Aggiunse poi, come per rassicurare i due uomini: "Non temete,
sono vostro prigioniero". Ne approfittai per posare la tazza
sull'incerata del tavolo. Mio padre, visibilmente alleviato (sembrava,
tuttavia, aver percepito anche lui d'avere a che afre con un "capo",
con qualcuno, insomma, che non era del suo rango), prese a raccontare
con febbrilità inusitata le peripezie che aveva passato.
Si trovava nei pressi della scuola quando aveva visto lo zeppelin
sfiorare gli alberi e poi sparire dietro il bosco, al di là
della casa. Aveva avuto paura per noi. Non aveva aspettato le
fiamme e il fumo per montare in fretta sulla bicicletta. Aveva
anche provveduto a dare a Lorgneux, il farmacista, la chiave della
posta perché potesse telefonare alla gendarmeria di Sarronges.
L'intero villaggio era sul luogo dell'incendio con il sindaco
e i pompieri. Il tedesco ascoltava con lucido interesse, non di
più. Mia madre gli versò il caffè. Io mi
ero già abituato alla sua presenza, non così mio
padre. Si è parlato molto in questi ultimi tempi di marziani.
Ebbene, signore, un personaggio venuto da un altro pianeta, verdastro,
con delle antenne, non avrebbe provocato un tale effetto su di
lui. Fu il tedesco, sempre più a suo agio, che chiese a
Roselle e a lui di accomodarsi. Indicando poi col dito la pendola,
chiese a mio padre: "Come chiamate questo genere di orologio?
Lo sapevo, ma l'ho dimenticato". "Un orologio da muro",
rispose mio padre. "Ah, sì, è così,
un orologio da muro, ne abbiamo uno simile a casa nostra".
Ebbe la sensazione che conoscesse perfettamente il termine e che
aveva posto la questione solo per avviare la conversazione. Tutto
ricade poi nel silenzio. Mia madre si teneva dietro la sedia dell'ufficiale,
le mani incrociate sul grembiule; Roselle e mio padre, seduti
alle estremità delle loro sedie, tenevano gli occhi bassi.
Io, invece, accanto alla credenza, contemplavo con avidità
lo stupefacente spettacolo. Come la mia paura diminuiva, così
sogni eroici riaffioravano. Un Crucco nella cucina dei miei genitori!
Un ufficiale! E uno dei loro sporchi zeppelin ridotto a carcassa
sul prato! Ah, l'artiglieria francese! I gendarmi sarebbero venuti
a prelevarlo, e noi avremmo visto quello che avremmo visto!
Roselle, le sue cariche lo spronarono forse al coraggio, si decise
a chiedere al tedesco come fossero andate le cose. "Non posso
dirvi molto. Rivelerò i particolari ai vostri superiori".
(Mi sembrò che volesse marcare una distanza davvero definitiva).
"Siamo stati colpiti dalla vostra artiglieria antiaerea.
La guaina. E i motori. Abbiamo perso quota. Il vento ci ha spinti
fin qui. Nel cuore di questa... dolce Francia". Sembrò
riflettere. Chinò il capo, sorrise ancora alla sua maniera.
"Sì, dolce Francia". Mentre parlava io m'ero
avvicinato. Lui, quello portato da una croce nera, volevo vederla
quella croce che recava al collo! Ero così vicino, così
piccolo, che non poté fare a meno di guardarmi. Smise di
sorridere, infilò la mano nella tasca del giubbotto e ne
trasse un distintivo che mi porse. Una piccola croce di ferro,
con al centro una testa di Hindenburg. Qualcosa di assai banale,
che i bambini della Germania dovevano scambiarsi sotto i portici
delle scuole: "Prendi, in ricordo del grande zeppelin".
Una vettura scoperta, ancora più bella di quella del conte,
si fermò davanti casa e fece suonare la sua tromba. A bordo
v'erano due marescialli d'alloggio, un autista e un capitano.
Quest'ultimo, giovane, elegante, con le mostrine dell'aviazione
e un'uniforme che non avevo mai visto, dal taglio che gli si adattava
alla perfezione, balzò fuori dalla macchina e si avviò
verso mio padre e Roselle, con il quale scambiò qualche
parola. Quando l'ufficiale apparve sulla soglia della porta, il
tedesco si alzò. Abbozzò un inchino e, salutando,
si presentò. Il francese lo guardò improvvisamente
radioso: "Capitano Jean de Boissières, undicesima
squadriglia. Lo stato maggiore mi ha telefonato e mi ha incaricato
di venirvi a prendere e di occuparmi di voi. Sono davvero desolato
di ritrovarvi in simili circostanze!" Rimpicciolendomi sempre
più, poiché avevo paura che mi dicessero di andare
a giocare, non persi una briciola della conversazione. L'ultima
parte della frase mi parve curiosa fino all'estremo. Si conoscevano?
Presero posto ciascuno a una estremità del tavolo. Mia
madre offrì loro del vino. Si intrattennero familiarmente
come due vecchi conoscenti ritrovatisi in un rifugio dopo una
battuta di caccia. Ero disorientato. Mi ero immaginato che la
cattura del prigioniero si sarebbe svolta nella stessa glaciale
dignità che avevo visto nell' "Illustration",
e che dopo aver deposto i gradi, secondo l'uso militare, il tedesco
sarebbe montato sulla vettura, scortato dai marescialli d'alloggio.
Niente di questo: vino, sigarette, cortesia. I due marescialli,
seduti sulla panchina davanti casa, discutevano con mio padre
e Roselle. Mia madre, accanto all'acquaio, sembrava aspettare
ordini dai due ufficiali, come una serva. Quanto a me, che ero
stato dimenticato, avevo la sensazione di assistere a una catastrofe
ben più grande della caduta dello zeppelin. Nulla, veramente
più nulla era al suo posto. Perfino il tedesco, così
poco prigioniero, mi apparve come una finzione. Perché
parlava il francese come il signor conte o come il capitano? Perché
non era biondo con gli occhi di porcellana? Nessun accento tedesco,
neppure i pugni sul tavolo, non un "ach", non un sorriso
crudele, un rutto, o piccoli occhiali di ferro. Chi era quel Crucco
caduto dal cielo? Il tedesco raccontava dell'abbattimento dello
zeppelin, quella grande cosa piena d'aria, dal ventre squarciato,
spinto per ore verso il sud da un vento leggero. L'atterraggio
brutale, tra gli alberi, seguito dall'incendio. Le fiamme lo avevano
risparmiato perché era stato scaraventato lontano, in una
macchia. Non aveva neppure un graffio. Come una grande fiamma
ossidrica, la lingua di fuoco aveva ghermito e arso vivo il suo
equipaggio. Non c'erano stati superstiti. "Siate certo, barone,
che i vostri uomini saranno sepolti con gli onori di guerra: completate
le formalità, farò di tutto perché possiate
assistere alle esequie". Fumando, i due ufficiali si fissavano
senza animosità. Allora non potevo capire quello che correva
tra i due. Oggi direi, con le parole che la vita mi ha insegnato,
che la complicità li univa. Una complicità
dettata dalla condizione della stessa esistenza, da alcune cose
che li avevano uniti al di là delle distanze e delle frontiere.
Qualcosa che allora mi era impossibile comprendere: le donne,
gli alberghi che brillano come grandi piroscafi illuminati nella
notte ingrata della città, i sigari e l'alcool dall'odore
greve e speziato, le distrazioni inebrianti, i libri, i quadri,
gli animali...
Fuori, l'ombra cominciava a segnare la linea degli alberi. Dolcemente
la frescura della Larve, superando le sue rive, avvolse la casa.
Il temporale minacciava sempre. È trascorso molto tempo,
e il mio ricordo è un po' sbiadito. Non so più bene
cosa fece mia madre (credo sia uscita più volte) né
mio padre, né Roselle, né i soldati nel cortile.
So soltanto che i due ufficiali seguitarono a discorrere e che
quel dialogo - per i misteri e le affinità che celava -
mi coinvolgeva e mi affascinava nello stesso tempo. Il tedesco,
proveniente dalla marina, s'era appassionato all'aerostazione
e all'aviazione, proprio come l'altro, che veniva dalla cavalleria.
Si erano conosciuti in occasione di alcune dimostrazioni di volo
a Berlino-Dahlem, a Chantilly, in Inghilterra. Si erano poi ritrovati
nei rispettivi castelli, presentandosi le loro sorelle, le loro
cugine. Si erano incontrati ancora a Bayreuth, a Touquet, a Venezia.
Adesso si affrontavano nella modesta casa di un fattore, seduti
davanti a una bottiglia di rosso, al margine d'una foresta francese,
le vertebre fumanti di un dirigibile non molto lontano da loro.
con cinque coperte grigie, per i morti stesi sull'erba. Nulla
di questo stupiva. Erano come a casa loro, a bere e a fumare con
calma, come avevano sempre fatto. Perché si sarebbero dovuti
stupire? L'Europa non era forse un vasto salone che gli apparteneva?
Non avevamo fretta di andar via.
Verso le sei il vecchio Joseph, guardiacaccia del conte, arrivò
in bicicletta. Lo sentii salutare mio padre e i soldati. Poi entrò
in cucina. Prima di mettersi sugli attenti davanti al capitano
si tolse il berretto. "Il mio capitano, il signor conte,
che è appena rientrato da Sarronges, e ha appreso quanto
è accaduto, vi invita a cena con... (esitò un istante)
...il signor ufficiale tedesco". La mia testa da bambino
non riusciva più a capire niente. Mai, né mio padre,
né mia madre erano stati invitati al castello. Mai il vecchio
Joseph ci aveva parlato in quella maniera. Che invitasse l'ufficiale
francese nulla di strano... ma il tedesco... dal conte, che aveva
un figlio ufficiale, tenente colonnello pure, superava ogni limite.
Le cose erano definitivamente fuori posto, il mio piccolo universo
vacillava. Il tedesco avrebbe dovuto essere condotto nella guardiola
del campo d'aviazione con una sentinella, baionetta o fucile,
davanti alla sua porta... Invece, sarebbe andato dal conte!
I due ufficiali si alzarono. Due fratelli, pensai, due uomini
che si conoscono da sempre. Arrivati alla porta il francese si
fece da parte: "Barone, ve ne prego" e con la mano indicò
il cortile, la vettura. I marescialli d'alloggio si erano alzati.
Non sapevano bene se dovevano salutare. Si diressero verso la
vettura, aprirono gli sportelli. Una volta entrati, il tedesco
rivolse un cenno a mia madre e a mio padre: "Grazie per la
vostra ospitalità". L'auto partì in fretta,
avvolgendosi in una nube di polvere e spaventando le galline.
Caddero grosse gocce di pioggia. Ero sul punto di piangere. Era
dunque quella la guerra di cui mi parlavano senza posa? Quelli
gli implacabili avversari? Un cartone, nient'altro, un'immensa
scena, un trucco. Rientrai in cucina. Guardai la carta geografica
al muro, le bandierine bianche e nere ritagliate con tanta cura
che indicavano le posizioni dei nemici, i tratti a inchiostro
fatti con zelo e corretti settimana per settimana. Tutto mi parve
sinistramente assurdo. Mi avevano ingannato. Le cose non erano
più le stesse. Rifiutai di mangiare. Volli andare a dormire.
Mia madre mi chiese se fossi malato. Quanto a mio padre, mi fissò
con aria triste. Credo che avesse compreso. Da quel momento smisi
di interessarmi a quello che accadeva al fronte.
Tre mesi dopo ricevemmo la notizia della morte di mio fratello.
Dopo la guerra seppi che la sua batteria era stata bombardata
da uno zeppelin, al rientro da una missione. Si trovava vicino
a un cassone che era esploso.
(Tratto
dalla collana di racconti La
fine di una dinastia,
Guida editori, Napoli, 1990, traduzione di Donatella Cavalieri)
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