CHE NOIA!


Ercole Patti


Giovanni Merici, attore di prosa, si preparava ad uscire. Si guardò nello specchio e rivide il suo solito volto.
"Sempre la stessa faccia", mormorò. "Che noia".
Il volto del Merici appariva nello specchio, sbarbato e leggermente segnato dalle rughe, sopra il colletto fresco della camicia sulla quale spiccava una bella cravatta a righe trasversali. L'attore si calcò in testa un cappello verde scuro dal fondo piatto, quasi da torero, lo inclinò un poco da una parte come faceva da circa quarant'anni. Quel cappello, nascondendo i capelli radi, gli dava effettivamente un'aria più giovanile. Ma erano quarant' anni che aveva quell'aria.
"Che noia, che noia", mormorò ancora girando un poco il capo da una parte e continuando a guardarsi di fianco.
Tutto in lui era perfettamente a posto: il vestito di ottimo taglio, il volto serio e lavorato dagli anni ma distinto e nobile, i denti in ordine, le guance ben sbarbate. Sì, ma che noia.
Un'ora prima aveva ricevuto una telefonata da una ragazza di ventidue anni che lo cercava spesso ed era un poco innamorata di lui. Adesso sarebbe andato a prenderla con la macchina e l'avrebbe condotta a colazione in campagna. Il Merici ormai non giustificava più l'interesse che alcune giovani donne manifestavano ancora per lui. "Perché debbo piacere?", si chiedeva. "Che cosa c'è di così interessante in me? Con tanti bei giovanotti in giro perché debbono venire proprio con me ?"
Pelato pieno di rughe, attentissimo ed esoso economizzatore di forze, schiavo di un ordine e di un metodo rigorosissimi, senza entusiasmo per nulla, le sue maggiori cure erano indirizzata nel far apparire il meno possibile i segni dell'età.
Ma tutto questo era fatto non per cogliere qualche gioia che poteva ancora dargli la vita e per prolungare di qualche anno la giovinezza perché di questo non aveva alcuna voglia, ma per andare avanti, per non sapere che fare di meglio, trascinato da un'abitudine quarantennale.
La mattina indossava le sue vestaglie di seta lavorata già adoperate nelle vecchie pochades, agitava le sue lozioni nel bagno, si passava e ripassava la spazzola sul cranio schiacciando i pochi capelli un poco scoloriti.
Certe volte per la strada provava il suo antico passo scattante, il passo dei viveurs dell'altro dopoguerra, in sincronia con un movimento ondulatorio delle spalle. Provava senza convinzione per pochi passi e poi smetteva annoiato. Il vecchio signore che abitava nel suo corpo non poteva mai distendersi con comodità, costretto, come per una condanna, e a comportarsi come un giovane. Le ragazze che frequentava gli facevano un po' di paura. I suoi appuntamenti erano dominati dall'impazienza che avessero termine. Con un leggero orrore sentiva guance femminili fresche come foglie di rosa, poggiare sulle sue durante le soste della sua automobile nei parchi pubblici, davanti al panorama di Roma. Era incredibile come le ragazze non si accorgessero di questo e continuassero a cercarlo. Adesso ne aveva tre intorno, tra i venti e i ventiquattro anni, che telefonavano e mandavano letterine d'amore.
Certi giorni il Merici sussultava sentendo suonare il telefono, era tentato di non rispondere nel timore che una giovane donna gli proponesse di uscire con lei, di andare insieme al mare o in montagna o soltanto in un piccolo caffè a chiacchierare con le mani in mano.
La sua speranza era quella di essere abbandonato, si svegliava la mattina con l'illusione che le ragazze si fossero dimenticate di lui e non si facessero più vive. Lui non aveva il coraggio e la forza di farlo, aspettava che fossero loro a prendere l'iniziativa. Sfuggiva alle telefonate, trovava qualche scusa, ma alla fine cedeva e si recava agli appuntamenti. Ultimata la sua toilette il Merici uscì di casa. Scese le scale lentamente; davanti al portone dove la portinaia stava parlando con due giovani domestiche friulane, accelerò il passo rendendolo svelto e incalzante. Le domestiche si voltarono a guardarlo. Uscito fuori del tiro del loro sguardo il Merici rallentò l'andatura e si diresse verso il garage.
La giornata era limpida, un sole leggero illuminava i pini di villa Savoia. In fondo alla via Salaria si vedeva il cielo chiaro sopra la campagna qua e là ingiallita dal primo inverno. I marciapiedi erano coperti di foglie secche cadute dai platani, entro le quali alcuni ragazzini facevano frusciare i piedi. Era una di quelle giornate di estremo autunno dolci e distese nelle quali si può ancora andare a far colazione all'aperto davanti al mare calmo oppure in certe osterie di campagna sulla grana ruvida della tovaglia intiepidita dal sole mentre le galline dell'oste passeggiavano impettite intorno, i gatti spiano fra le siepi concentrati nei loro piccoli problemi e, in attesa della frittata, in tanto che un garzone poco discosto va accomodando una vecchia bicicletta, sotto il cielo clemente, si può trovare il senso della felicità.
Allora le mani della ragazza che vi accompagna si muovono in maniera commovente sulla tovaglia, i suoi occhi vi comunicano una grande esaltazione e tutti i pensieri rivolti al pomeriggio e alla serata da trascorrere sono traboccanti della gioia di esistere. La sosta dal giornalaio, la visita all'asta di mobili e tappeti, la visita alla mostra d'arte, l'ingresso al bar per prendere un caffè, la cena con gli amici nel solito ristorante acquistano un senso e un valore eccezionali; lo sguardo si posa felice sui passanti e sulle vetrine; non c'è nulla che vada perduto, ogni cosa viene assaporata nei minimi particolari. Perfino il contatto coi congegni e le leve dell'automobile, il rombo amichevole del motore, la breve sosta dall'elettrauto per far sostituire una lampadina fulminata hanno un loro sapore gustoso.
Ma per il nostro protagonista le cose non stavano così.
Il Merici entrò nella sua auto mobile che stava in un angolo buio e umido del garage, mentre il custode in stivaloni di gomma gli andava spolverando fiaccamente il vetro. Si udì il suono stridulo e acre del motorino di avviamento che non riusciva a far ingranare il motore. Dopo due o tre tentativi la macchina partì con uno strattone che fece sussultare la testa del Merici.
L'aria leggermente umida, gli aveva risvegliato un dolorino alla clavicola fratturata tanti anni prima, giovane, nelle montagne del Sestrière, sciando. Il Merici incastrò il monocolo; il suo occhio dietro il vetro assunse l'aspetto inerte di un frutto candito nel barattolo.
L'appuntamento con la ragazza era all'angolo di Via San Valentino ai Parioli. Il Merici fermò la macchina lungo il marciapiede in discesa. La strada stretta e tortuosa era gremita di piccoli negozi nuovi pieni di barattoli colorati e di frutta. Una macelleria modernissima dalle pareti decorate con affreschi picassiani riproducenti bovi dalle corna smisurate, esponeva bistecche di filetto, costate, coratelle e trippe disposte sul largo piano inclinato di marmo, a regolari distanze l'una dall'altra, con la cura e l'armonia di una vetrina di gioielliere.
Le cameriere delle attrici cinematografiche e delle mantenute che abitavano nella zona entravano e uscivano dalle botteghe dimenando i fianchi e sfumacchiando sigarette imbrattate di rossetto, in un clima di paese di villeggiatura.
La vetrina di un droghiere esponeva tubetti gialli di salsa alla maionese e di pasta di aringhe somiglianti a grossi dentifrici assieme a blocchi di fichi secchi compressi entro luccicanti involucri di cellofane. Nessuna di quelle cose aveva un'aria commestibile.
Il Merici attraverso il vetro del monocolo posava il suo sguardo sfiduciato in tutto.
Ad un tratto, sbucando dal cancelletto fatto di leggerissimi e precari tubi nichelati, apparve la ragazza. Girò la maniglia e piombò a sedere riempiendo la macchina di un odore leggero di ciclamino. Era una ragazza graziosa dall'aspetto calmo e familiare; vissuta nella noia e nel metodo della sua famiglia di alti funzionari della carriera prefettizia, credeva di evadere andando a spasso con un uomo navigato come il Merici. Di lui l'attiravano la professione di attore, il passato tumultuoso, le numerose amanti che si diceva avesse avuto, i modi distinti, i vestiti impeccabili sebbene leggermente antiquati, la stanchezza. Andando con il Merici ella riteneva di fare qualcosa di eccezionale che la differenziava da tutte le altre ragazze.
"Perché non mi hai telefonato ieri sera?", chiese subito la ragazza. "Il tuo telefono non rispondeva fino alle due di notte".
"Ho fatto un po' tardi", rispose il Merici fiaccamente, "con gli amici…". Non poteva confessare di aver staccato il telefono e di essere andato a letto alle dieci. Lei ammutolì ingelosita, poi gli passò il braccio attorno al collo mentre lui innestava la marcia per ripartire.
"Non ti piaccio più?", gli chiese poco dopo con tono sottomesso mentre la macchina costeggiava i gelidi palazzi di via Bruno Buozzi. "Lo so, io sono troppo stupida per te."
"Ma no", rispose il Merici debolmente, "perché dici questo?".
"Hai bisogno di altre donne, lo capisco…"
Di riposare, ecco di che cosa aveva bisogno il Merici. Di dormire e di essere lasciato in pace in compagnia di uomini della sua età, cioè vicini ai sessant'anni, a parlare del più e del meno attorno a un tavolo mangiando cibi leggeri e senza sughi. Di questo aveva bisogno e di null'altro.
Ma come si poteva respingere una ragazza di ventidue anni, di buona famiglia, che gli faceva sentire contro il fianco il suo corpo saldo e tiepido?
La macchina filava sulla via Flaminia, diretta verso una trattoria campestre. Il Merici, con il monocolo incastrato nell'orbita e la mano della ragazza posata sulla spalla, faceva trascorrere il suo sguardo malinconico sulla campagna addolcita dai colori autunnali, infastidito al pensiero che nell'osteria dove erano diretti gli avrebbero dato forse dei cibi che potevano fargli male al fegato.
Terminata la colazione, con la scusa che aveva un appuntamento importante, riaccompagnò la ragazza e rientrò a casa.
Si stava svestendo quando il telefono si mise a squillare. Certamente era un'altra ragazza, una piccola attrice di ventitré anni, che stava telefonando per trascorrere la serata con lui come era d'accordo sin dal giorno prima.
"Lasciatemi stare!", gridò con irritazione il Merici nel silenzio della sua casa vuota dirigendosi in vestaglia verso il telefono. "Ho bisogno di rimanere tranquillo. Mi si lasci stare, perdio!".
Il telefono continuava a suonare rabbiosamente.
Allora il Merici ricomponendosi alzò il ricevitore e, con la sua voce calda e ben timbrata da doppiatore di film, disse:"Pronto. Sì, piccola. Ci vediamo stasera alle otto."


(Tratto da Le donne e altri racconti, Milano, Bompiani, 1959, pp. 53-59)



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