UNA RADIO STRAORDINARIA

John Cheever


Jim e Irene Westcott facevano parte di quel genere di gente che ha raggiunto una media di reddito, posizione e rispettabilità soddisfacente secondo le statistiche riguardanti chi ha compiuto gli studi universitari. Avevano due bambini piccoli, erano sposati da nove anni, vivevano al dodicesimo piano di un caseggiato nei pressi di Sutton Place, si recavano a teatro in media 10,3 volte all'anno e speravano di andare a vivere un giorno a Westchester. Irene Westcott era una ragazza piacente, piuttosto semplice, con morbidi capelli castani e una bella fronte spaziosa sulla quale nulla ancora era stato scritto, e nelle stagioni fredde indossava una pelliccia di puzzola tinta in modo da assomigliare a un visone. Non si poteva dire che Jim Westcott sembrasse più giovane di quanto era, ma si poteva pensare che aveva l'aria di sentirsi più giovane. I capelli brizzolati erano tagliati molto corti, usava un tipo di abbigliamento sobrio e conformista e il suo modo di fare era schietto, esuberante, deliberatamente ingenuo. I Westcott si differenziavano dai loro amici, da quelli della loro classe e dai vicini di casa, soltanto per l'interesse che avevano in comune per la musica classica. Assistevano a moltissimi concerti, anche se di ciò parlavano raramente con gli altri, e dedicavano gran parte del loro tempo ad ascoltare musica alla radio.
Questa radio era un vecchio apparecchio molto sensibile, imprevedibile e irreparabile. Nessuno dei due si intendeva di radio o degli altri congegni che c'erano in casa. Quando lo strumento si inceppava, Jim dava un colpetto con la mano sul fianco della cassa; qualche volta serviva. Una domenica pomeriggio, nel bel mezzo di un quartetto di Schubert, la musica si spense completamente. Jim ebbe un bel colpire ripetutamente la cassa della radio, ma questa non diede nessun segno di vita e il quartetto di Schubert andò perduto per sempre. Jim promise allora a Irene di acquistare una radio nuova e lunedì, quando ritornò a casa dal lavoro, le annunciò che ne aveva comperata una. Ma si rifiutò di descriverla, dicendo che sarebbe stata una sorpresa.
La radio fu consegnata alla porta di servizio il pomeriggio seguente e, con l'aiuto della domestica e del garzone, Irene la tolse dall'imballaggio e la portò nel soggiorno. Fu subito colpita dalla bruttezza di quella grossa cassa in radica. Irene andava orgogliosa del suo soggiorno, aveva scelto lei l'arredamento e i colori con la stessa cura che dedicava al suo abbigliamento, e ora le sembrava che la nuova radio troneggiasse tra le sue cose personali come un'intrusa aggressiva. Tutte quelle manopole e quei comandi la confondevano e li studiò attentamente prima di infilare la spina in una presa sul muro e di accendere la radio. I comandi si illuminarono di una sgradevole luce verdastra e in lontananza udì la musica di un quintetto con pianoforte. Il quintetto rimase in lontananza per un istante soltanto; poi, con una velocità superiore a quella della luce, investì e inondò l'appartamento col rumore della musica, amplificata a tal punto da far cadere un soprammobile di porcellana dal tavolo. Irene corse verso lo strumento e ne abbassò il volume. La violenza delle forze annidate in quella brutta cassa le dava un senso di disagio. Poi i bambini ritornarono a casa da scuola e lei li accompagnò al parco. Fu soltanto tardi nel pomeriggio che Irene poté riaccendere la radio.
La domestica aveva servito la cena ai bambini e sovrintendeva al loro bagno quando Irene accese la radio, ne ridusse il volume e si mise a sedere per ascoltare un quintetto di Mozart che conosceva e amava molto. La musica le arrivava limpidamente, la nuova radio aveva un tono molto più puro, pensò Irene, di quella vecchia. Concluse quindi che il tono era la cosa più importante, e che avrebbe potuto nascondere la cassa della radio dietro a un divano. Ma non appena si fu rappacificata con la radio, ebbero inizio le interferenze. Un crepitio, simile a quello di una miccia accesa, cominciò ad accompagnare la voce degli strumenti a corda. Sotto la musica si sentiva un fruscio che le ricordava sgradevolmente quello del mare e, mentre il quintetto proseguiva, a questi rumori se ne aggiunsero altri. Provò a girare tutte le manopole, ma niente riuscì ad attenuare le interferenze e alla fine Irene si mise a sedere, delusa e perplessa, sforzandosi di seguire il filo della melodia. La tromba dell'ascensore del caseggiato passava accanto alla parete del soggiorno, e fu appunto il rumore dell'ascensore a farle intuire la causa delle scariche elettriche. Il rantolo dei cavi dell'ascensore, il rumore delle porte che si aprivano e chiudevano venivano riprodotti nell'altoparlante, e quando capì che la radio era sensibile a ogni genere di elettricità, Irene cominciò a distinguere nella musica di Mozart lo squillo del telefono, la composizione dei numeri telefonici, e il lamento dell'aspirapolvere. Ascoltando più attentamente riusciva a distinguere perfino i rumori dei campanelli delle porte, del pulsante dell'ascensore, dei rasoi elettrici e dei frullatori, rumori che venivano raccolti dagli appartamenti circostanti e trasmessi attraverso l'altoparlante della radio. Quel potente e brutto apparecchio con la sua discorde ipersensibilità, era una cosa che lei non poteva sperare di dominare, quindi lo spense e andò a vedere i bambini nella loro stanza.
Quando ritornò a casa quella sera, Jim Westcott si avvicinò fiducioso alla radio e ne azionò i comandi. Fece subito la stessa esperienza di sua moglie. Una voce maschile parlava alla stazione che Jim aveva scelto e quella voce giunse immediatamente dalla lontananza a una potenza tale da far tremare l'appartamento. Jim azionò il regolatore del volume e ridusse la voce. Poi, un minuto o due dopo, ebbero inizio le interferenze. Interferirono gli squilli dei telefoni e dei campanelli, a cui si aggiunsero lo stridore delle porte dell'ascensore e il turbinio degli elettrodomestici. Il genere dei rumori era diverso da quello udito da Irene di giorno. I rasoi elettrici erano stati staccati dalle prese, gli aspirapolvere erano stati tutti riposti negli sgabuzzini e le scariche elettriche riflettevano quel mutamento di ritmo che scende nella città quando è calato il sole. Jim continuò ad armeggiare con le manopole ma non riuscì a eliminare i rumori, e alla fine spense la radio e comunicò a Irene che il mattino dopo avrebbe telefonato a quelli che gliel'avevano venduta per dirgliene quattro.
Il pomeriggio seguente, quando Irene ritornò a casa dopo una colazione con le amiche, la domestica la informò che era venuto un tale ad aggiustare la radio. Irene andò in soggiorno prima ancora di togliersi il cappello e la pelliccia e provò ad accendere l'apparecchio. Dall'altoparlante le giunsero le note del Valzer del Missouri, che le ricordarono quella musica acuta e stridente che le capitava talvolta di ascoltare da un antiquato fonografo sul lago dove trascorreva le vacanze. Lasciò che il valzer finisse, in attesa della presentazione del disco che però non ci fu. Alla musica segui il silenzio, poi si ripeté quella lamentosa e stridente registrazione. Girò il regolatore di sintonia e incontrò una piacevole esplosione di musica caucasica, con trepestio di piedi nudi sul terreno e tintinnio di collanine di monete, ma sullo sfondo poteva sentire ancora squilli di campanelli e brusio di voci. Quando i bambini tornarono da scuola, Irene spense la radio e andò nella loro stanza.
Al suo ritorno a casa quella sera, Jim era stanco. Fece un bagno e si cambiò d'abito, poi raggiunse Irene in soggiorno. Aveva appena acceso la radio, quando la domestica annunciò che la cena era servita, quindi Jim lasciò la radio accesa e con Irene andò a tavola.
Jim era troppo stanco per mostrare anche solo una parvenza di socievolezza e la cena non offrì alcun motivo di interesse per Irene, la cui attenzione si spostò dalle vivande ai depositi di lucido sui candelabri d'argento, e da lì alla musica nell'altra stanza. Rimase in ascolto per alcuni minuti di un preludio di Chopin, poi a un tratto fu sorpresa nell'udire una voce maschile che si sovrapponeva. "Cristo, Kathy", esclamò la voce. "Possibile che tu debba sempre suonare il piano quando io ritorno a casa?" La musica si interrompe bruscamente. "è l'unica occasione che ho," rispose una voce femminile. "Sono in ufficio tutto il giorno." "Anch'io," replicò la voce maschile. L'uomo aggiunse qualcosa di osceno a proposito di un pianoforte verticale, e sbatté una porta. Si udì di nuovo quella musica appassionata e malinconica.
"Hai sentito?", domandò Irene.
"Che cosa?" Jim stava mangiando il dessert.
"La radio. Un uomo ha detto qualcosa mentre si sentiva ancora la musica, qualcosa di osceno".
"Probabilmente è una commedia."
"Non penso che sia una commedia."
Si alzarono dal tavolo e andarono a bere il caffè in soggiorno. Irene chiese a Jim di provare un'altra stazione, e lui girò la manopola. "Hai visto per caso le mie giarrettiere?", domandò un uomo. "Abbottonami il vestito e ti troverò le giarrettiere," replicò la donna. Jim passò a un'altra stazione. "Vorrei che non lasciassi i torsoli delle mele nei posacenere," disse un uomo. "Mi dà fastidio l'odore."
"Che strano...", commentò Jim.
"Non ti pare?", disse Irene.
Jim girò ancora la manopola. "Sulla costa di Coromandel, dove fioriscono le prime zucche," diceva una voce femminile con uno spiccato accento inglese, "nel mezzo dei boschi viveva l'Yonghy-Bonghy-Bò. Due vecchie sedie e mezza candela; una brocca senza manico..."
"Dio mio!", esclamò Irene. "Questa è la bambinaia dei Sweeney."
"Queste erano tutte le sue proprietà terrene," proseguì la voce con l'accento inglese.
"Spegni quella radio," disse Irene. "Può darsi che anche loro possano ascoltare noi." Jim spense la radio. "Quella era la signorina Armstrong, la bambinaia dei Sweeney," proseguì Irene. "Stava leggendo una fiaba alla bambina. Abitano nell'appartamento 17-B. Ho parlato con la signorina Armstrong al parco e conosco molto bene la sua voce. Dobbiamo ricevere anche le voci di altri appartamenti."
"Ma è impossibile!", replicò Jim.
"Be', quella era la bambinaia dei Sweeney," ribadì Irene animatamente. "Conosco la sua voce, la conosco molto bene. Mi domando se anche loro possono ascoltare noi."
Jim riaccese la radio. Dapprima da lontano, poi da vicino, sempre più vicino, quasi fosse portata dal vento, arrivò di nuovo l'impeccabile dizione della bambinaia dei Sweeney: "Lady Fingly! Lady Fingly!" diceva, "che siedi dove fioriscono le zucche, vuoi essere mia moglie?, disse lo Yonghy-Bonghy-Bò..."
Jim si avvicinò alla radio e disse ad alta voce: "Pronto?", all'altoparlante.
"Sono stanco di vivere da solo," proseguì la bambinaia, "su questa costa così selvaggia e pietrosa, sono stanco della mia vita, se tu vorrai essere mia sposa, la mia vita sarà sempre serena..."
"Penso che non possa ascoltarci," osservò Irene. "Prova da qualche altra parte."
Jim passò a un'altra stazione e il soggiorno di casa fu inondato dal baccano di una festa che aveva oltrepassato il limite. Qualcuno stava suonando il piano cantando Whiffenpoof Song, e le voci che stavano intorno al piano erano concitate ed euforiche. "Mangiate qualche altro panino," strillava una voce femminile. Si udirono scrosci di risate e lo schianto di un piatto che andava in frantumi sul pavimento.
"Questi devono essere i Fuller, all'11-E," osservò Irene. "Sapevo che davano una festa questo pomeriggio. Ho visto lei nel negozio dei liquori. Non è una cosa fantastica? Prova da qualche altra parte. Vedi se riesci a trovare quella gente del 18-C."
Quella sera i Westcott ascoltarono un monologo sulla pesca del salmone in Canada, una partita a bridge, una serie di commenti su un filmato che, a quanto pareva, doveva essere stato girato durante una vacanza di due settimane a Sea Island, e un'aspra contesa familiare a proposito di uno scoperto in banca. Spensero la radio a mezzanotte e se ne andarono a letto sfiniti dalle risate. A un certo punto della notte, il bambino chiese un bicchier d'acqua; Irene andò a prenderlo e lo portò nella sua stanza. Era ancora molto presto, tutte le luci nel vicinato erano spente, e dalla finestra della stanza del bambino Irene vedeva la strada deserta. Andò nel soggiorno e provò ad accendere la radio. Si unì un debole colpo di tosse, un gemito, poi una voce d'uomo. "Stai bene, cara?", domandò. "Sì," rispose stancamente una donna. "Sì, sto bene, mi pare," poi soggiunse, con tono più animato: "Ma sai, Charlie, non mi sento più la stessa. Certe volte ci sono quindici o venti minuti alla settimana in cui non mi sento la stessa. Non vorrei andare da un altro medico, perché i conti dei medici sono già abbastanza spaventosi, però non mi sento più la stessa, Charlie. Proprio non mi sento la stessa." Non erano persone giovani, pensò Irene, e dal timbro delle loro voci arguì che erano di mezza età. La soffusa malinconia di questo dialogo e la corrente d'aria che veniva dalla finestra aperta della camera da letto la fecero rabbrividire, e Irene ritornò a letto.

Il mattino seguente, Irene preparò la prima colazione per la famiglia, perché la domestica non saliva mai prima delle dieci dalla sua stanza nel seminterrato; fece le trecce alla bambina e attese sulla porta di casa che figli e marito fossero scesi con l'ascensore. Poi andò in soggiorno e provò ad accendere la radio. "Non voglio andare a scuola," strillava un bambino. "Odio la scuola, non voglio andare a scuola. Odio la scuola." "E tu andrai a scuola," replicò la voce infuriata di una donna. "Abbiamo pagato ottocento dollari per mandarti a quella scuola, e tu ci andrai a costo di ammazzarti." La successiva stazione mandò in onda la logora registrazione del Valzer del Missouri. Irene girò la manopola e penetrò nell'intimità di alcune tavole apparecchiate per la prima colazione, ascoltò manifestazioni di cattiva digestione, di amore carnale, di vanità senza fondo, di fede e disperazione. La vita di Irene era quasi sempre stata semplice e riservata quale appariva, e il linguaggio spiccio, talvolta brutale, che le arrivò dall'altoparlante quel mattino la stupì e la sgomentò. Continuò ad ascoltare la radio finché non arrivò la domestica. Allora spense in fretta, perché quell'intromissione, lei se ne rendeva ben conto, doveva restare segreta.
Irene aveva un appuntamento con un'amica per colazione, quel giorno, e uscì da casa poco dopo le dodici. Nell'ascensore, quando si fermò al suo piano, c'erano già alcune donne. Irene ne studiò i volti belli e impassibili, le pellicce, i fiori artificiali sui cappellini. Quale di loro era stata a Sea Island? - si domandò Irene. E quale aveva uno scoperto sul conto in banca? L'ascensore si fermò al decimo piano ed entrò una donna con una coppia di Skye terrier; i capelli erano acconciati con cura in alto sulla testa e aveva una stola di visone. Canticchiava a bocca chiusa il Valzer del Missouri.
Irene bevve due aperitivi prima di colazione, e scrutava la sua amica, domandandosi quali segreti nascondesse. Avevano in programma di andare per compere, dopo colazione, ma Irene trovò una scusa per ritornare a casa. Disse alla cameriera che non voleva essere disturbata, poi andò in soggiorno, chiuse le porte e accese la radio. Nel corso di quel pomeriggio ascoltò la zoppicante conversazione di una donna che intratteneva sua zia, l'isterica conclusione di un pranzo e una padrona di casa che dava istruzioni alla domestica sugli invitati per l'aperitivo. "Non devi dare lo Scotch migliore a quelli che non hanno i capelli bianchi," ammoniva la padrona di casa. "Vedi se riesci a liberarti di quel paté di fegato prima di servire gli stuzzichini caldi, e non potresti prestarmi cinque dollari? Devo dare la mancia all'uomo dell'ascensore."
Col trascorrere del pomeriggio le conversazioni aumentarono d'intensità. Da dove era seduta, Irene vedeva il cielo sopra l'East River, disseminato da centinaia di nuvole, come se il vento del sud avesse frantumato l'inverno e lo soffiasse verso nord, e intanto alla sua radio udiva l'arrivo degli invitati per l'aperitivo e il ritorno a casa di bambini e impiegati dalle scuole e dagli uffici. "Ho trovato un diamante di una certa dimensione sul pavimento del bagno, questa mattina," diceva una voce di donna. "Dev'essere caduto dal braccialetto che portava la signora Dunston ieri sera." "Vendiamolo," propose una voce d'uomo. "Portalo al gioielliere di Madison Avenue, e vendiglielo. La signora Dunston non se ne accorgerà nemmeno e noi potremmo tirarci fuori un paio di centoni..." "Aranci e limoni, dicono le campane di Saint Clement," cantava la bambinaia di casa Sweeney. "Mezzo penny e un quartino, dicono le campane di Saint Martin. Quando mi pagherete? Chiedono le campane dell'Old Bailey..." "Non è un cappello," gridava una donna, mentre alle sue spalle impazzava una festa. "Non è un cappello, è una faccenda d'amore. È questo che ha detto Walter Florell. Ha detto che non è un cappello, è una faccenda d'amore," e poi, a voce più bassa, la stessa donna soggiunse: "Parla con qualcuno, te ne prego tesoro, parla con qualcuno. Se lei ti vede qui impalato senza parlare con nessuno, ci cancellerà dal suo elenco degli invitati, e lo sai che io adoro queste feste."
I Westcott erano fuori a cena quella sera e, quando Jim ritornò a casa, Irene si stava vestendo. Sembrava malinconica e distratta, e lui le portò qualcosa da bere. Erano a cena in casa di amici che abitavano nei dintorni, e si incamminarono a piedi. Il cielo era sgombro e pieno di luce. Era una di quelle splendide serate di primavera, che stimolano i ricordi e i desideri, e l'aria che accarezzava le mani e il viso era molto tenera. Sull'angolo della strada una banda dell'Esercito della Salvezza stava suonando Gesù è il più dolce. Irene tirò il marito per un braccio e lo trattenne un minuto per ascoltare la musica. "Sono proprio brava gente, non ti pare?", osservò. "Hanno facce così simpatiche. A dire la verità, sono meglio di tante persone che conosciamo." Prese una banconota dalla borsetta, si avvicinò e la lasciò cadere sul tamburello. Sul suo viso, quando ritornò da suo marito, era dipinta un'espressione di radiosa malinconia che a lui sembrò nuova. E anche il comportamento di Irene a cena, quella sera, gli parve strano. Interruppe più volte bruscamente la padrona di casa, e continuò a scrutare la gente dall'altra parte del tavolo con una petulanza che avrebbe rimproverato ai suoi figli.
L'aria era ancora mite quando ritornarono a piedi dalla cena, e Irene guardava in alto le stelle di primavera. "Come lancia lontano i suoi raggi, quella piccola candela," esclamò a un tratto. "Altrettanto brilla una buona azione in un mondo cattivo." Quella sera Irene attese che Jim fosse addormentato, poi andò in soggiorno e accese la radio.

Jim ritornò a casa verso le sei, la sera seguente. Emma, la domestica, andò ad aprirgli la porta. Si era tolto il cappello e stava levandosi il cappotto, quando Irene arrivò di corsa nel corridoio. Il suo viso era rigato di lacrime e aveva i capelli in disordine. "Sali al 16-C, Jim," gridò. "Non toglierti il cappotto, sali subito al 16-C. Il signor Osborn sta picchiando sua moglie. È dalle quattro che stanno litigando e ora lui la sta picchiando. Vai su e fallo smettere."
Dalla radio in soggiorno Jim poteva udire grida, parolacce e colpi sordi. "Lo sai che non devi ascoltare queste cose," le disse. Entrò con passo deciso in soggiorno e spense la radio. "È indecente," le disse. "È come spiare attraverso le finestre. Lo sai bene che non devi ascoltare queste cose. Potevi benissimo spegnere la radio."
"Oh, è una cosa così orribile, così tremenda," singhiozzava Irene. "È tutto il giorno che l'ascolto, è una cosa così deprimente." "E allora, se è così deprimente, perché l'ascolti? Io ho comperato questa maledetta radio per darti un po' di divertimento," replicò lui. "E l'ho pagata un bel po' di soldi. Pensavo che potesse renderti felice. Volevo renderti felice."
"No, no, non bisticciare con me," gemette Irene, posandogli la testa su una spalla. "Gli altri hanno continuato a litigare per tutto il giorno. Tutti stanno litigando. Sono tutti preoccupati per i soldi. La madre della signora Hutchinson sta morendo di cancro in Florida e loro non hanno abbastanza soldi per mandarla alla clinica Mayo. Almeno è quello che dice il signor Hutchinson, che non hanno abbastanza soldi. E una donna che abita in questa casa ha una relazione con l'uomo tuttofare, con quell'orribile uomo. È troppo disgustoso! E la signora Melville ha disturbi al cuore, e il signor Hendricks perderà il suo posto di lavoro in aprile, e la signora Hendricks dice delle cose orribili su questa faccenda, e quella ragazza che fa suonare il Valzer del Missouri è una prostituta, sì una comune prostituta, e l'uomo dell'ascensore ha la tubercolosi, e il signor Osborn sta picchiando la signora Osborn." Irene gemeva, tremava per il tormento e cercava di tergersi le lacrime dal viso con il dorso della mano.
"E allora, perché stai ad ascoltare?", domandò ancora Jim. "Perché ascolti tutte queste cose, se ti fanno sentire così infelice?"
"Oh, no, no, no!", gridò Irene. "La vita è troppo spaventosa, troppo sordida e angosciosa. Ma noi non siamo mai stati come loro, vero tesoro? Lo siamo stati? Voglio dire, noi siamo sempre stati buoni e sensibili e affettuosi l'uno con l'altro, non è vero? E abbiamo due bambini, due bellissimi bambini. La nostra vita non è sordida, vero che non lo è, tesoro? È vero?" Gli gettò le braccia al collo e attirò il suo viso verso il proprio. "Noi siamo felici, non è vero, tesoro? Siamo felici, non è vero?"
"Certo che siamo felici," rispose lui stancamente. Il suo risentimento cominciava a cedere. "Certo che siamo felici. Domani stesso farò aggiustare quella maledetta radio o la farò portar via." Accarezzò i capelli morbidi di lei. "Mia povera bambina," le disse.
"Tu mi ami, non è vero?", domandò ancora lei. "E noi non siamo ipercritici e non siamo preoccupati per i soldi e nemmeno disonesti, non è vero?"
"No, tesoro," rispose lui.
Al mattino arrivò un uomo che aggiustò la radio. Irene la accese con circospezione, e fu lieta di ascoltare una pubblicità del vino di California, poi una registrazione della Nona di Beethoven che comprendeva l'Ode alla Gioia di Schiller. Tenne la radio accesa tutto il giorno, e dall'altoparlante non giunse niente di anormale.
Suonavano una suite spagnola quando Jim arrivò a casa. "Tutto bene?," domandò. Sembrava pallido, pensò lei. Bevvero l'aperitivo, poi andarono a cena al suono del "Coro dell'Incudine" dal Trovatore, al quale fece seguito La Mer di Debussy.
"Ho pagato il conto della radio, oggi," disse Jim. "È costata quattrocento dollari. Spero che per te sia un divertimento."
"Oh, certo che lo è," assicurò Irene.
"Quattrocento dollari sono molti di più di quello che posso permettermi," proseguì lui. "Volevo acquistare qualcosa che ti divertisse. Ma è l'ultima follia che potremo concederci quest'anno. Ho visto che non hai ancora pagato i conti della sarta. Li ho visti sulla toelette." La guardò negli occhi. "Perché mi hai detto che li avevi pagati? Perché mi hai detto una bugia?"
"Volevo soltanto non preoccuparti, Jim," spiegò lei. Bevve un sorso d'acqua. "Riuscirò a pagare quel conto con l'assegno di questo mese. Ci sono state le stoffe per i mobili, il mese scorso, e quella festa."
"Devi imparare a usare il denaro che ti do con un po' più d'intelligenza, Irene," le disse lui. "Devi capire che quest'anno non avremo tanti soldi come l'anno scorso. Ho avuto un colloquio molto spassionato con Mitchell, quest'oggi. Nessuno compera più nulla. Dedichiamo tutto il nostro tempo alla promozione di nuovi articoli, e tu sai quanto tempo ci vuole. E io non è che ringiovanisco, lo sai bene. Ho trentasette anni. I miei capelli saranno grigi l'anno prossimo. No, non me la sono cavata bene come speravo. E non credo proprio che le cose andranno meglio."
"Sì, caro," disse lei.
"Dobbiamo cominciare a ridurre le spese," riprese Jim. "Dobbiamo pensare ai bambini. Per essere del tutto franco con te, sono molto preoccupato per i quattrini. Non sono per niente sicuro del futuro. Nessuno lo è. Se dovesse capitarmi qualcosa, c'è l'assicurazione, ma con quella non si va molto lontano al giorno d'oggi. Ho lavorato come un mulo per assicurare a te e ai bambini una vita confortevole," soggiunse con amarezza, "e non mi piace vedere che tutte le mie energie, tutta la mia giovinezza vadano sprecate in pellicce e in radio e in stoffe per i mobili e in..."
"Ti prego, Jim," disse lei. "Ti prego. Ci sentiranno."
"E chi mai ci può sentire? Emma non può sentirci."
"La radio."
"Oh, sono stufo!", gridò lui. "Sono stufo marcio della tua ansietà! La radio non può sentirci. Nessuno può sentirci. E anche se ci sentono chi se ne frega?"
Irene si alzò da tavola e andò in soggiorno. Jim arrivò fino alla porta e da lì le gridò: "Come mai sei diventata una santarellina tutt'a un tratto? Che cosa ti ha trasformato in una suora di clausura da un giorno all'altro? Hai rubato i gioielli di tua madre prima che fosse omologato il suo testamento. Non hai mai dato a tua sorella un centesimo di quei soldi che erano destinati a lei, nemmeno quando ne aveva bisogno. Hai reso impossibile la vita a Grace Howland, e dov'erano poi tutta la tua carità e la tua virtù quando sei andata a fare quell'aborto? Non dimenticherò mai com'eri fredda. Hai fatto la valigia, e sei andata a far ammazzare quella creatura come se stessi andando a Nassau. Se avessi avuto qualche motivo, se avessi avuto qualche buon motivo..."
Irene rimase per un attimo davanti a quell'odioso mobile della radio, umiliata e disgustata, ma trattenne la mano sull'interruttore prima di far tacere la musica e le voci, sperando che quello strumento potesse parlarle dolcemente, che le giungesse la voce della bambinaia dei Sweeney. Jim continuava a gridare dalla porta. La voce alla radio era suadente e distensiva. "Un disastro ferroviario all'alba di questa mattina a Tokio," diceva l'altoparlante. "Ventinove persone sono rimaste uccise. Un incendio in un ospedale cattolico per bambini ciechi, nei pressi di Buffalo, è stato estinto nelle prime ore del mattino dalle suore. La temperatura è di otto gradi, l'umidità ottantanove".



(Tratto dalla collana Il nuotatore, traduzione di Marco Papi, Fandango Libri, Roma, 2000)





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