IN
CERCA DI JOHNNY
A.
M. Homes
Qualche anno fa sono scomparso:sono scomparso e poi sono tornato.
Non è stato un gran mistero. Non è stata una cosa
tipo teletrasporto di Star Trek, non è che stavo da una
parte e all'improvviso mi sono ritrovato da un'altra parte. Non
sono arrivato su un altro pianeta, niente del genere. Sono stato
via per qualche giorno, poi sono tornato a casa e la polizia ha
voluto sapere tutto. Hanno voluto sapere della macchina, chi c'era
nella macchina, dove ero stato, cos'era successo. Hanno detto
che potevo fare disegni, spiegarglielo con delle bambole, ma io
non sapevo cosa dire. Sono scomparso quando ero bambino. Sono
scomparso quando avevo nove anni.
Ero tornato a casa da scuola, mi ero preso un po' di biscotti
e un'aranciata ed ero andato in salotto a guardare la tv. In salotto
c'era anche Rayanne, mia sorella ritardata, che continuava a fare
l'imitazione della gente che vedeva in tv. Era più grande
di me ed era ritardata sul serio. Continuava a parlare con la
televisione e quando le dicevo di smetterla non la smetteva. Alla
fine non ne potei più e me ne andai. Dissi:"Ciao mamma,
torno fra un po'", presi il pallone da basket e andai al
parco giochi. C'erano altri bambini e quasi tutti avevano il loro
pallone. Ci saranno stati una decina di palloni in giro, e ogni
tanto sbattevano uno contro l'altro a mezz'aria e rimbalzavano
in una direzione completamente sbagliata. Ogni tanto inciampavo
contro un altro ragazzino che stava andando sotto canestro e quello
mi mollava un calcio in culo e mi diceva "coglione",
o qualcosa di simile.
Si fece tardi e si fece buio e gli altri ragazzini se ne andarono
a uno a uno o a volte in gruppetti di due o di tre. Ero da solo
sul campo a tirare a canestro, e non sbagliavo mai. La palla continuava
a infilarsi nella retina e mi sentivo un mago. Quando arrivai
a quindici canestri di fila sentii qualcuno che applaudiva. Smisi
di giocare e notai un tizio fermo in piedi all'estremità
opposta del campo.
"Ne hai messi dentro quindici di fila", disse. Io alzai
le spalle. Tirai di nuovo e la palla volò attraverso il
cerchio.
"Vai forte, Johnny".
Raccolsi la palla che veniva giù dal canestro e provai
un gancio. Lungo. Il tizio arrivò di corsa, prese la palla
e se la tenne stretta contro il fianco, come un insegnante che
me la stesse sequestrando.
"Non mi chiamo Johnny".
"Johnny non è un nome. E' come dire "ehi, tu',
solo che è meno sgarbato".
Palleggiò un paio di volte, poi si fermò con la
palla in mano.
" Sei pronto ad andare? Tua madre mi ha detto di venirti
a prendere. Lei doveva andare da qualche parte".
Ricordo che mi incazzavo sempre con mia madre perché era
fatta così. Era il tipo di persona che andava a portare
Rayanne da qualche parte e mi faceva venire a prendere da qualcuno
che non conoscevo. Lei conosceva un sacco di gente che io non
conoscevo, specie per via di Rayanne. Conosceva tutti quelli che
avevano figli ritardati, gente a cui non volevo mai essere presentato.
"Ti stavo cercando, Johnny", disse il tipo.
Alzai le spalle." Mi chiamo Erol. Capito? Erol", dissi.
Si tenne il mio pallone e si incamminò verso la macchina.
Era una vecchia station wagon bianca, una Rambler con gli interni
rossi.
"Doveva accompagnare mia sorella da qualche parte?"
"Non ti preoccupare, Johnny. Ci fermiamo da McDonald's".
Parlava come se non sentisse una parola di quello che dicevo.Parlava
come se dovesse tenersi costantemente in esercizio per riuscire
bene.
"Hai fame?"
Non sono ritardato, io.Se ci fosse stato qualcosa di veramente
strano, tipo se il tizio avesse una gamba di legno, me ne sari
accorto. Mi sarei alzato dal tavolo e me ne sarei andato. Me ne
sarei andato quando si alzò e disse che andava a chiamare
mia madre. Disse che la chiamava per chiederle se voleva che tornando
a casa portassimo la cena anche a loro. Mi lasciò lì
seduto con gli hamburger e le patatine davanti, e io mi chiesi
quante delle sue patatine potevo rubare, non se sarei mai tornato
a casa. Non avevo ragioni per andarmene; ero da McDonald's con
due panini, le patatine grandi e un milkshake. Non sapevo cosa
fosse un pazzo. Non sapevo che certe volte i pazzi non si distinguono
dalle persone normali ed è proprio per questo che sono
pazzi..
Il tipo, tornò, disse che mia madre non c'era e che mi
avrebbe portato a casa sua finché lei non tornava. "Ehi,ehi,
Johnny", disse il tipo. In macchina giocai con il pallone
da basket. Me lo feci girare sulle gambe tutto il tempo.
"Devo fermarmi a prendere una cosa. Va bene. Johnny, Tu vuoi
niente?" Scossi la testa. "Ti va qualcosa?"
"No", dissi io.
Rimasi ad aspettare mentre lui entrava nel supermercato.Era uno
di quei momenti in cui il sole è tramontato ma non è
ancora buoi. C'era una strana luce azzurra pesava su ogni cosa,
disegnava bene i contorni.Rimasi in piedi accanto alla station
wagon a palleggiare.
"Ciao Erol", disse la signora Perkins. Stava attraversando
il parcheggio con un carrello della spesa anche se in teoria era
vietato. Spinge il carrello e faceva più rumore di un treno.
Le ruote giravano da tutte le parti. Sopra c'erano i suoi due
bambini, strizzati sul seggiolino davanti dove a stento ne entra
uno solo.
"Ciao", dissi mentre mi passava davanti.
"Sei con la mamma?", chiese. La signora Perkins abitava
a tre case di distanza dalla nostra e pensava che tutto ciò
che aveva a che fare con chiunque abitasse sulla nostra strada
fosse di sua stretta competenza.
"Sto aspettando un suo amico".
La signora Perkins scosse la testa e riprese a spingere il carrello.
Mia madre diceva sempre che alla signora P. non piacevamo perché
non avevamo un uomo in famiglia. A lei sembrava giusto, e mia
madre era d'accordo. Anche mia madre pensava che ci volesse un
uomo in famiglia, ma dopo che mio padre se ne era andato non era
riuscita a trovarne un altro. Io penso la colpa fosse di Rayanne.
Nessun uomo in gamba vorrebbe vivere nella stessa casa con una
ragazzina ritardata.
"Chi era quella?", chiese il tipo quando rientrò
in macchina.
"Non lo sai che non devi parlare con gli sconosciuti?"
Chiuse la porta sbattendola.
"Era la signora Perkins. È una nostra vicina di casa.
Ha due bambini. Non è una sconosciuta". Il tipo non
rispose e ci allontanammo a gran velocità.
"Ho una cosetta per te, Johnny", disse. Tirò
fuori una boccetta da una busta di cartone. "Medicina preventiva.
Hai l'aria di uno che sta per ammalarsi".
"Mi sento bene", dissi.
"Siamo senza cucchiaino, quindi devi berla dal cappuccio
della bottiglietta".
"Ma non mi sento male".
"Senti", disse il tipo. Tolse gli occhi dalla strada
per guardarmi e la macchina sbandò nell'altra corsia, contromano.
"Se ti dico di prendere la medicina, tu la prendi e basta.
Non sono abituato a farmi rispondere dai bambini. Ai tuoi genitori
potrà anche stare bene, ma a me no. Intesi?"
Volevo dirgli che io non avevo dei genitori, che mio padre non
viveva nemmeno con noi, non lo sapeva?, ma non ci riuscii. Sembrava
che fosse già arrabbiato con me. Pensai che fosse perché
mia madre non era a casa, così lui non aveva potuto lasciarmi
lì e adesso era costretto a scarrozzarmi dappertutto.
Si mise la boccetta fra le gambe e torse il tappo finché
non si aprì. "Quattro coperchietti", disse passandomela.
Anche se mi sentivo bene, obbedii. Era difficile da morire versare
la medicina dentro il tappo con la macchina che si muoveva e avevo
paura di farla cadere, ma ce la feci. Inghiottii. Sciroppo per
la tosse, come l'uva ma un po' più cattivo. Sapeva della
roba che usava mia madre per lucidare i mobili. "Bravo",
disse il tipo. Si tirò fuori un KitKat dalla tasca della
camicia e me lo diede. "Per levarti il sapore".
Restammo in silenzio e lui continuò a guidare. Era buio.
Guardavo le macchine che ci vanivano incontro, due occhi bianchi
che mi fissavano fino a farmi abbassare i miei.
"Adesso è tornata mia mamma?", chiesi. Cominciavo
a essere stanco.
"L'ho chiamata dal supermercato e mi ha detto di non riaccompagnarti
a casa stasera. Credo che volesse stare da sola".
" E Rayanne?"
"Da sola con Rayanne. Non voleva averti tra i piedi per un
po', niente di grave".
Scrollai le spalle e pensai quanto odiavo i ritardati, quanto
ti rubavano sempre la scena per niente.
"Dove abiti", chiesi.
"Fra un po' arriviamo".
"Sono stanco", dissi. "E poi devo ancora colorare
la cartina per geografia".
"Non ti preoccupare, Johnny".
"Tu come ti chiami?"
"Ramdy", disse.
E poi non so cosa successe. Mi ritrovai con la testa fuori dal
finestrino con la nausea per tutta quella roba, i panini, le patatine,
il milkshake e le barrette di cioccolato. Stavo vomitando fuori
dal finestrino mentre Randy guidava e lui non accostò neppure.
Non mi mise una mano sulla fronte come faceva mia madre. Continuò
semplicemente a guidare e a chiamarmi Johnny.
"Sveglia,
Johnny", disse Randy scotendomi per una spalla.
Mi ci volle qualche istante per riuscire a tenere aperti gli occhi,
per ricordarmi dov'ero. "Ecco qua", disse lui, spingendomi
in bocca una cucchiaiata della stessa medicina al sapore di uva.
"Mi fa vomitare", dissi, dopo aver ingoiato quella roba.
Mi ripromisi di non ingoiarla mai più. Mi ripromisi di
tenerla in bocca, dentro una guancia come i criceti, ma di non
ingoiarla.
"Te l'ho detto che non stavi bene. Ma tu non mi hai voluto
dare retta, eh?" Mi portò un bicchiere d'acqua. "Vuoi
una tazza di tè, un toast, una limonata?"
Io alzai le spalle e mi sentiti girare la testa.
"Devi mangiare", disse lui, poi uscì dalla stanza.
Rimasi steso sul letto e sentii che ero lì lì per
svenire, steso così. Mi resi conto che ero nudo. Non avevo
niente addosso, tranne la biancheria, e ripensai a quello che
ci diceva sempre mia madre, specie a Rayanne, di stare attenti
alla gente che voleva metterci le mani addosso. Diceva che chiunque
poteva essere una persona che voleva fare una cosa del genere.
Me l'aveva detto un milione di volte, ma non aveva detto niente
su cosa fare se qualcuno ti toglieva i vestiti mentre dormivi.
Di questo non aveva mai parlato, ma comunque sapevo che non mi
piaceva. Mi alzai a sedere e vidi i miei vestiti tutti ripiegati
ai piedi del letto. Li vidi e pensai che era tutto a posto perché
uno che ti ripiega i vestiti e li appoggia ai piedi del letto
non pare il tipo di persona che metterebbe le mani addosso a un
ragazzino. Mi allungai, presi i vestiti e me li infilai sotto
le coperte.
"Ehi, Johnny", disse Randy quando tornò nella
stanza. Aveva in mano una vassoio fatto di cartone. Sul vassoio
c'erano un piatto di uova e toast e un bicchiere di succo di frutta.
"Non mi sento bene, non ho fame".
"Ah, ma devi mangiare, sei nell'età dello sviluppo".
"Voglio tornare a casa".
"Tua madre non ti vorrà mica, se sei malato".
"Invece lei mi curerà"
"Non fare il bambino, Johnny".
"Oggi in classe tocca a me raccogliere i soldi per il pranzo",
dissi io.
"Hai detto che ti senti male. Quando ti senti male ci vai
a scuola? Non fare scherzi con me. Mangia la colazione".
Feci di no con la testa.
"Hai sentito cosa ho detto?, urlò. Gli saltarono fuori
le vene del collo e diventò bianco come lo zucchero. "Tu
fai come ti dico io e no non me lo dici, capito? Non mi dire mai
di no".
Guardai Randy e pensai che ce ne sono di coglioni, in giro. Pensai
che non vedevo l'ora di essere grande, di avere una tv tutta mia,
di starmene sempre da solo. "Allora, cosa ti ho detto?"
"Di mangiare la colazione", dissi io.
"E allora avanti".
"Sono allergico alle uova". Diedi piccoli morsi al toast.
"Sul serio?", chiese lui. "Vuoi dei cereali? Ci
sono i Rice Krispies, in cucina. Vuoi i Rice Krispies?".
"No". Un attimo di silenzio. "Voglio chiamare mia
madre e dirle che mi sento male. Lei mi verrà a prendere".
"Non ce l'ho il telefono, Johnny.Non c'e il telefono, qui".
Randy rimase lì a guardarmi.Guardava ogni cosa che facevo
come se fosse sotto la lente di un microscopio. "Ti piace
leggere?" Io alzai le spalle: tirò fuori una pila
di vecchie riviste da sotto il letto. "Queste le ho conservate
per te. Devo fare dei lavoretti di fuori. Ti serve qualcosa?"
"Dov'è la tv?"
"Non mi parlare di tv. La tv ti ammazza. Ti impedisce di
pensare. Tu sei capace di pensare, Johnny?"
Scrollai le spalle e lui uscì dalla stanza. Le riviste
di Randy erano di quelle tutte lisce che leggono i genitori. Erano
le tipiche riviste che Rayanne stendeva sul pavimento dello studio
del dentista per poi sciarci sopra per il corridoio. La prima
stanza era quella di Randy. Era piccola e piena di luce. C'erano
due finestre e da qualche parte entrava un venticello. L'aria
sembrava vorticare, raccogliendo polvere dal pavimento, facendola
danzare e brillare come oro. C'era un materasso con le lenzuola
a righe verdi e lungo tutti i bordi della stanza, sul davanzale
della finestra, dappertutto, erano disposte file di bottiglie
di acqua tonica vuote, Yahoo, Royal Cola e Mountain Dew alternate.
Ero lì nella stanza a guardare quando le mani di Randy
mi piombarono sulle spalle come se mi stessero azzannando. Mi
prese per il muscolo in cima alla schiena, quello che attraversa
le spalle.
"Stavo solo guardando", dissi.
"Di chi è questa stanza?", disse lui.
Io alzai le spalle.
"Di chi è?", chiese.
"Tua".
"Ti ho dato il permesso di guardare? Ti ho dato il permesso
di entrare qui dentro? Me l'hai chiesto? No! ", mi strillò
in faccio. "Ci sono cose che appartengono a una persona e
basta. Sono private, e non gliele puoi portare via".
Sentivo l'odore del suo fiato. Era caldo, come quello di un cane.
Cercai di voltare la testa dall'altra parte, ma lui me la teneva
dritta. La teneva premendomi il pollice sotto il mento.
"Non puoi avere tutto. Io non entro nella tua stanza per
guardare le tue cose, o sbaglio?"
Volevo dirgli che la mia stanza era a casa mia e che nella stanza
in fondo al corridoio non c'era un bel niente tranne un letto
con le lenzuola a fiori blu e una coperta di un rosa shocking
come quello del Pepto-Bismol. Volevo dirgli che cominciava a ricordarmi
Rayanne, che mi chiedeva sempre di spiegarle le cose e poi me
le ripeteva tutte sbagliate.
"Guarda che sei veramente un tipo", disse, e poi uscì
dalla stanza. Io lo seguii lungo il corridoio" "Che
sei, un cane randagio?", chiese.
"No", dissi io.
Mi posò una mano sulla spalla e pensai che stesse per darmi
uno spintone e mandarmi vaffanculo o qualcosa del genere. Pensai
che poteva spaccarmi la testa contro il muro.
"Ti senti meglio, Johnny? Sei pronto per andare a pesca?
Hai la febbre?" Mi premette la mano sulla fronte, tenne il
palmo lì per un attimo, poi la rigirò in modo da
toccarmi la testa col dorso. Sentii le nocche che affondavano
nella sottile fessura che ho in mezzo alla fronte. "È
passata", disse, togliendo la mano e allontanandosi di qualche
passo lungo il corridoio.
Anche dopo che mi ebbe tolto la mano dalla testa continuai a sentire
le nocche in quella piccola spaccatura del cranio. Pensai a come
ero sempre stato convinto che quella fessura fosse una specie
di deformità congenita. Non sapevo che fosse normale. Credevo
che fosse qualcosa che avrebbe potuto cominciare a muoversi, un
terremoto della mente. Pensavo che le due metà si sarebbero
potute separare, spaccandomi la testa in due. Pensavo che la fessura
si sarebbe potuta richiudere, spremendomi il cervello fuori dalle
orecchie. Mi sembrava sempre che se in quel punto fosse successo
qualcosa avrei fatto la fine di Rayanne. Stava lì a ricordarmi
che qualcosa poteva andare storto e mi sarei ritrovato tale e
quale a mia sorella. Mi massaggiai, e desiderai con tutto il cuore
che Randy non mi avesse toccato lì.
"Ehi, Johnny, è ora della medicina!"
"Mi sento bene", dissi io.
"Ti fa bene, vieni qua". Randy protendeva il flacone.
Teneva le dita sopra l'etichetta. Svitò il tappo e ne bevve
un piccolo sorso, se lo passò da una parte all'altra della
bocca e lo inghiottì. Io feci di no con la testa. "Non
ti voglio costringere. Non voglio proprio".
Richiuse il flacone e lo posò sulla mensola sopra il lavandino.
"Mia madre certe volte ci drogava. Certe volte la sera lei
voleva che dormissimo ma noi andavamo ancora a duemila, allora
veniva in camera da letto, mi tappava il naso finché non
aprivo la bocca e mi versava in gola qualcosa; a volte era brandy,
a volte non lo so che cos'era. Lo faceva sempre a me e mai a mio
fratello, perché lui aveva l'asma, parecchio grave, e lei
non voleva incasinarlo ancora peggio", Si interruppe. "Hai
fame? Io alzai le spalle. Randy aprì il frigo. "Un
biscotto ai fichi potrebbe andar bene. Non sono un patito dei
biscotti, ma quelli con i fichi non sono veri biscotti, sono una
specie di medicina, no? C'è anche un po' di latte qui.
Ecco, Johnny". Mi passò le confezioni di cartone.
"Voglio comunque chiamare mia mamma".
"Non c'è il telefono".
"Si starà chiedendo che fine ho fatto".
"No, Johnny. Lo sa che sei con me. Te l'ho detto ieri".
"Ma non dovrei tornare a casa il prima possibile? E perché
non ha il telefono? Il telefono ce l'hanno tutti. Mi sa che è
illegale non avercelo".
"Non mi parlare di legge e ordine. Tutti hanno il telefono
e la televisione, e una persona su due ha il videoregistratore
e la lavatrice. E il forno a microonde. Non vuol dire che siano
più intelligenti. Se ti metti ad accumulare oggetti finisci
nei guai. Cominci a pensare che a quella roba ci tieni veramente
e ti dimentichi che sono solo oggetti, oggetti fabbricati dall'uomo.
Diventano una parte di te e poi quando non ce li hai più
ti sembra di essere sparito pure tu. Quando hai della roba e a
un certo punto la perdi è come se scomparissi anche tu".
"Ma tu hai file di bottiglie vuote per tutta la stanza",
dissi io.
"I vuoti non sono roba. Che sei, stupido?"
"Non sono stupido".
"E allora non ci diventare", disse Randy, e poi se ne
andò e sentii sbattere la porta a zanzariera.
Girai
da una stanza all'altra mangiando quei biscotti ai fichi e bevendo
latte direttamente dal cartone. Mi ricordo di aver pensato che
meraviglia, nessuno mi costringe a versarlo in un bicchiere. Il
resto della casa non era un granché, solo un salotto con
un divano sfondato e una poltrona verde fatta della stessa roba
con cui fanno i sedili delle macchine, quella roba che d'estate
ti si appiccica alle gambe. Mi sedetti sul divano e poi dovetti
spostarmi per salvarmi da una di quelle molle che non si vedono
ma che all'improvviso saltano su e ti infilzano il culo.
Rimasi lì seduto a mangiare biscotti e più o meno
a sognare a occhi aperti. Pensai che era quello il tipo di vita
che avrei fatto se fossi stato solo io e mio padre, senza mia
madre e senza Rayanne. Pensai a come in casa nostra tutto diventava
strano quando veniva a trovarci papà. Mia madre correva
da tutte le parti impilando le cose sopra la tv o il tavolino
del salotto. Poi andava al supermercato e comprava roba tipo broccoli
e bistecche di vitello. Dovevamo metterci vestiti puliti e stare
seduti con lei in salotto finché non sentivamo arrivare
il camion di papà, il rumore che faceva scalando le marce.
Mio padre entrava in casa e ci trovava seduti lì come soldatini
e dalla faccia si capiva subito che si pentiva di essere venuto.
Era come se volesse entrare di soppiatto e farsi trovare seduto
lì che guardava la tv come se non se ne fosse mai andato.
Era come se si imponesse di pensare che lui non era così
importante, che il fatto che se ne fosse andato non era così
importante. A volte cercava di farci fessi. Passava senza avvertire.
Magari io, mamma e Rayanne eravamo fuori in giardino e sentivamo
il camion che girava l'angolo e imboccava la nostra strada. Rayanne
alzava gli occhi e lo vedeva seduto a dieci metri d'altezza nell'abitacolo
e partiva al galoppo verso il camion con quella sua andatura da
ritardata, con le gambe che gli si attorcigliavano una sull'altra,
mai sicura su quale piede mettere a terra un attimo dopo.
La porta con la zanzariera si chiuse col suono di uno schiaffo
e da qualche parte nella mia testa la sentii, ma non capii veramente
dov'ero. Stavo ancora pensando a mio padre, al suo camion e alla
vista da lassù, dall'abitacolo.
"Ehi, ehi, Johnny", disse Randy. "Che fai, dormi?"
"Non esattamente", borbottai.
"E allora, esattamente, che stai facendo?"
Alzai le spalle.
"Non devi passare per forza tutto il giorno chiuso in casa.
Quando ti ho visto là fuori che giocavi a basket, ho pensato
che eri il tipo che sta sempre all'aria aperta".
Feci di no con la testa.
"Mi piace guardare la tv. Mi metto a guardare la tv e arriva
mia sorella. Io non la sopporto, e così alle volte devo
uscire di casa. Mia sorella è ritardata, lo sapevi?"
Randy annuì.
"Non importa anche se cresce, non sarà mai meglio
di una bambina di sette anni. Chiama mio padre zio perché
dice che i papà vivono a casa e che quelli che vengono
ogni tanto a trovare i bambini sono gli zii".
"Sì, be' adesso alzati. Andiamo a pesca. Quello che
prendiamo ce lo mangiamo per cena".
"Io non so pescare".
"Ti insegno io, Johnny".
Io alzai le spalle.
"Ma non ti importa di niente?"
Alzai di nuovo le spalle.
"Non alzare le spalle. Parla o stai zitto, ma non alzarmi
le spalle, cazzo. È come mandarmi a quel paese, anzi peggio.
Stai dicendo che non vale neanche la pena di sprecare energie
per dirlo a parole".
Camminavo
per il bosco dietro a Randy.
"Il trucco", disse, "è fare come nella vita.
Non fargli capire che li vuoi. Fai finta che non te ne freghi
e quelli si faranno fregare".
Spinse la barca dentro il lago ed entrammo in acqua anche noi.
I jeans mi si bagnarono fino alle ginocchia e mi sembrava di avere
dei pesi attorcigliati alle gambe. Randy remò verso il
largo. Mi passò un barattolo da caffè. "Prendine
uno e mettilo lì sulla punta".
Io guardai nel barattolo e vidi qualcosa come mille vermi. "Non
ce la faccio", dissi.
"Ce la puoi fare eccome, e lo farai" disse Randy, porgendomi
l'amo. Aveva lo stesso tono di voce che usava mia madre con Rayanne
quando voleva che facesse qualcosa. "Guarda che possiamo
restare seduti qua finché la luna non diventa blu".
Voltai la testa dall'altra parte e infilai la mano nel barattolo.
I vermi erano rotolini soffici e lisci quasi come la seta. Erano
tutti appiccicati, ammucchiati uno sopra l'altro. Dovetti guardare
dritto dentro il barattolo per tirarne fuori uno solo. Lo passai
a Randy.
"Sull'amo", disse. "Mettilo sull'amo". Io
lo ficcai sull'amo, squarciandolo, facendo schizzare nell'aria
succo di verme.
Randy gettò la lenza verso il centro del lago, spiegandomi
che il segreto stava tutto nel movimento del polso. Mi passò
la canna e io guardai il filo sottile di plastica. Guardai dall'altra
parte del lago e sulla riva vidi un uomo. Mi alzai in ginocchio,
facendomi quasi cadere di mano la canna da pesca, e agitai un
braccio. Continuai finche Randy non mi fece abbassare la mano
con uno schiaffo. Ma l'uomo dall'altra parte del lago mi aveva
visto. Rispose al saluto e a quel punto Randy dovette ricambiare
il saluto per farlo smettere.
"Qui la gente vuole essere lasciata in pace", disse
Randy. "Non avresti dovuto dargli fastidio".
Cominciai a piangere, ma non forte, solo fra me e me. Piangevo
e pensavo che volevo tornare a casa, mettermi dei vestiti asciutti,
parlare con mia mamma e guardare la tv.
"Che hai, Johnny? È una bellissima giornata, sei uscito
a pescare, non eri mai andato a pescare in vita tua ma ora hai
una canna in mano, e stai facendo più storie di una vecchia
befana".
Ci fu uno strattone all'altro capo della lenza e mi alzai a sedere
dritto.
"Tira su piano, appena appena".
Feci come diceva.
"Non fargli capire che l'hai preso. Se pensa di poter scappare
cercherà di prendere tempo. Ma se gli fai capire che l'hai
preso, lotterà come un pazzo".
Lo tirammo su ed eccolo lì il pesce, appeso all'amo, che
mi fissava. Randy lo buttò sul fondo della barca. Il pesce
si dimenò da tutte le parti.
"Ti presento la tua cena", disse Randy.
"Io non mangio".
"Mangerai eccome".
Feci di no con la testa.
"Infila un'altra esca".
Guardai il pesce finché le branchie smisero di sbattere,
finché fui sicuro che era morto. Lo guardai per una decina
di minuti e poi ficcai un altro verme sull'amo. Randy sentì
abboccare alla sua lenza e tirò su un pesciolino. Lo staccò
dall'amo e lo ributtò in acqua.
"Non sono un assassino, Johnny", disse.
Quando ci ritrovammo con tre pesci Randy mise via le canne e mangiammo
dei panini proprio lì sulla barca coi pesci in mezzo ai
piedi: "Questa sì che è vita", disse Randy.
Sentivo battermi il sole sulle spalle, nel punto dove Randy mi
aveva afferrato quando ero entrato nella sua stanza. Sentivo il
calo9re del sole attraversare la camicia ed era come se delle
mani mi massaggiassero un punto indolenzito. Mi sdraiai sulla
barca e usai uno dei salvagenti come cuscino.
"Ehi, ehi, Johnny, sveglia". Randy aveva remato di nuovo
fino a riva. "Dormi un sacco per un ragazzino della tua età".
"È perché non sto bene".
"Sei stato fuori tutto il pomeriggio e non mi sembra che
stai male. È solo una tua impressione. Sei malato solo
nella tua testa".
Uscii dalla barca e lo aiutai a tirarla in secca nel bosco. "Ieri
sera hai detto che stavo male. Ho vomitato".
"Non ti conoscevo come ti conosco oggi". Una pausa.
"Anche le donne incinte vomitano, ma non sono mica malate.
È solo una tua impressione, Johnny".
Per cena Randy cucinò il pesce. Mangiammo e poi lo aiutai
a mettere a posto.
"Mio padre fra poco viene a trovarci e io ci devo essere",
dissi. "È la legge. Mia madre ci mette in fila vicino
al pianoforte e io ci devo essere".
"Johnny, lei lo sa dove stai. Se ti volesse ti verrebbe a
prendere".
La mattina dopo Randy mi svegliò, mi disse di sbrigarmi,
mi mise in mano un panino col formaggio e disse che avrei dovuto
mangiarlo in macchina.
"Dove stiamo andando?"
"Hai mai tagliato la legna?", mi chiese.
"Ho scortecciato i rami degli alberi".
"Hai mai tenuto in mano un'accetta?"
"No".
Randy guidò fino a un piccolo centro commerciale e si fermò
vicino al negozio di ferramenta. Vicino al ferramenta c'era un
supermercato 7-Elevan con un telefono a gettoni davanti all'ingresso.
Entrai con Randy nel ferramenta, ma mi misi la mano in tasca per
sentire se avevo una moneta. Mentre Randy parlava con il tizio
di asce e cunei io feci finta di perdermi cercando roba per la
pesca, uscii, andai al telefono, infilai la moneta e feci il numero.
Feci il numero di mia madre e aspettati. Pensavo che Randy sarebbe
uscito e mi avrebbe ammazzato. Pensavo che sarebbe uscito con
l'accetta e mi avrebbe tagliato la testa. Non mi importava. Il
telefono fece un paio di clic e poi diede il suono occupato. Un
paio di persone uscirono dal 7-Eleven e io pensai di chiedergli
aiuto, ma non sapevo bene cosa dire. Infilai di nuovo la moneta
e feci il numero. Occupato. Riaggancia, mi ripresi la moneta e
la infilai dentro un'altra volta. Cominciò a squillare,
ma poi pensai di aver sbagliato numero. Avevo una moneta sola
e mi pareva di aver fatto un otto al posto di un cinque. Riagganciai,
rimisi dentro la monetina e rifeci il numero. Occupato di nuovo.
Pensai di chiamare l'operatore o la polizia. Attaccai, riprovai
ancora. Randy uscì dal negozio e mi vide al telefono. Aveva
l'accetta in una mano e un pacchetto nell'altra.
"Cosa stai facendo?", mi chiese.
"Provo a chiamare mia mamma".
"Ce l'hai fatta?"
"È sempre occupato".
Si avvicinò al telefono e rimase fermo lì. Non si
arrabbiò. Non mi uccise. Rimase lì fermo ad ascoltare
il bip del telefono. "Riprova", disse.
Io attaccai, rimisi dentro la moneta e rifeci il numero. Occupato.
"Ma perché è al telefono?"
"Starà parlando con qualcuno", disse Randy. Si
appoggiò al muro come se non gli importasse che stessi
telefonando a casa.
Mi sentii un idiota a vederlo lì davanti che non cercava
di fermarmi. Mi sentii un malato di mente. Randy stava dicendo
la verità. Mia madre non era preoccupata. Era a casa, seduta
in poltrona che parlava al telefono.
"Andiamo", disse alla fine.
"Dai, fai un ultimo tentativo". Fui lì lì
per infilare di nuovo la moneta, ma poi mi chiesi che cosa avrei
detto. Cosa potevo dire con Randy lì di fronte che mi diceva
avanti, riprova a chiamare? Mi rimisi la moneta in tasca.
Tornammo a casa e Randy mi fece vedere come si taglia la legna:
come impugnare l'accetta con tutte e due le braccia tese, come
portarla di slancio sopra la spalla e poi sbatterla giù
dritta contro il ceppo. Mi spiegò che dovevo inserire i
cunei di metallo come una focaccina.
Dopo aver finito Randy mi insegnò a cucinare; preparammo
dei panini e delle frittelle con i Rice Krispies e i marshmallow.
Poi andammo in salotto, cenammo, giocammo a poker e ci passammo
un cartone di latte. Certe volte nel bere inclinavo troppo il
cartone e il latte mi si versava in faccia, mi scorreva dietro
le orecchie e giù per il collo.
"Un ragazzino come te dovrebbe avere più cose da dire",
disse Randy. "Dovresti essere sempre su di giri, pieno di
luce, cose che vuoi fare, roba del genere".
Non lo guardai.
"È come se non avessi tutte le rotelle a posto",
disse.
Stavo guardando la sporcizia nelle fessure del pavimento. Randy
disse che non avevo tutte le rotelle a posto e io pensai a Rayanne
e mi chiesi se aveva un sacco di cose intrappolate in testa. Pensai
al fatto che non capiva davvero di essere così ritardata,
e che mi credeva una specie di genio. Pensai che forse anche io
ero come lei, non al punto che lo notasse chiunque ma abbastanza
perché un tipo come Randy se ne accorgesse. Pensai che
probabilmente era colpa dei miei genitori non avermelo detto.
Forse era per questo che mio padre se n'era andato. Forse io,
mia madre e Rayanne eravamo tutti uguali, forse eravamo tutti
ritardati.
"Stai dormendo, Johnny?", chiese Randy.
Feci di no con la testa.
"Che hai?"
Alzai le spalle e aspettai che mi desse uno schiaffo. La padella
dei Rice Krispies era sul tavolinetto davanti al divano, con dentro
ancora un paio di pezzetti avanzati. C'era anche il cartone di
latte. Allungai il piede e con la punta della scarpa da ginnastica
rovesciai la padella. Buttai giù la padella proprio sotto
gli occhi di Randy.
Lui rimase lì seduto a guardarmi. La sua faccia non cambiò.
"Ti senti meglio adesso?", chiese alla fine, radunando
le carte e ricomponendo il mazzo. Io scrollai le spalle. Lui si
alzò e io mi feci piccolo piccolo. Non volevo, ma era in
piedi proprio sopra di me e mi venne da fare così. "Non
aver paura di me, Johnny", disse. "È di te stesso
che devi aver paura". Raccolse il cartone di latte e lo riportò
in cucina. Sentii lo sportello del frigorifero che si apriva e
si chiudeva. Sentii Randy che prendeva una sedia e si sedeva.
Mi alzai dal divano e mi misi a quattro zampe. Raccolsi la padella,
la portai in cucina e la appoggiai sul ripiano della credenza.
"Notte, Johnny", disse Randy. Stava facendo un solitario.
"Notte". Percorsi il corridoio fino alla mia stanza.
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La mattina dopo Randy non c'era. Mi sedetti sul divano del salotto
e aspettai. Uscii e mi sedetti sul gradino di cemento davanti
all'ingresso. Dall'altra parte della spianata di terra polverosa
che era il giardino c'erano ancora pezzi di legna che andavano
tagliati e accatastati. Presi l'accetta. Mi sembrò più
pesante di come me la ricordavo. La sollevai e mi misi al lavoro.
Una mezz'ora dopo arrivò Randy, in macchina.
"Dov'eri andato?", chiesi.
Lui alzò le spalle. "Mettiti le scarpe", disse.
"Mai lavorare all'aperto senza scarpe".
Rientrai in casa dietro di lui. "Mi dispiace per quello che
ho fatto ieri sera", dissi. Era tutta la mattina che mi provavo
quella frase in testa.
Lui annuì.
Andai in fondo al corridoio a prendere le scarpe. Randy era in
cucina a prepararsi delle uova. "Ho detto che mi dispiace".
"Ti ho sentito". Con una spatola staccò le uova
dalla padella e le mise su un piatto. Continuai a guardarlo e
lui guardò me. "Hai finito tutta la legna?" Feci
di no con la testa. Randy cominciò a mangiare e io uscii
e mi rimisi a spaccare e accatastare.
Quando la legna fu tutta tagliata andai nella mia stanza e mi
addormentai. Mi svegliò lo slap-slap di un pallone da basket.
Randy stava palleggiando per il corridoio. Si fermò sulla
soglia e continuò a palleggiare. "Alzati, Johnny",
disse. "Andiamo".
"Dove?"
Lui scrollo le spalle e mi tirò il pallone, forte.
Io lo presi. Era il mio pallone. Non l'avevo più visto
dalla sera che Randy era venuto a prendermi. Lo tenni in mano
per un attimo e poi lo appoggiai sul letto.
"Portatelo dietro", disse
Lo segui fino alla macchina. "Sei capace di guidare?"
"Sono troppo piccolo".
"Non si è mai troppo piccoli". Spostò
il sedile più avanti possibile. Se mi sedevo abbastanza
dritto per poter vedere fuori, le gambe non mi arrivano neanche
vicino ai pedali. "Sei troppo basso", disse Randy. Mi
feci da parte per lasciar guidare lui. Tirò la leva del
sedile e tutto il sedile anteriore scivolò all'indietro.
"Andiamo di nuovo a pescare", dissi io.
"Non credo proprio, Johnny", disse lui, e per un sacco
di tempo rimasi in silenzio. La strada diventò un'autostrada
e sentivo che faceva andare la macchina sempre più forte.
Era pomeriggio. Il sole cominciava a calare.
"Dove stiamo andando?", chiesi.
Lui non disse niente per un po'. "Non sei la persona che
credevo che fossi".
"Che vuol dire?"
Uscì dall'autostrada e ci trovammo in un posto dove non
ero mai stato prima. Mi rigirai il pallone da basket sulle gambe.
"Ti riporto a casa", disse. Fece qualche altra svolta
e capii dov'eravamo.
"Cos'ho che non va?"
"Non sei il bambino giusto. Non sei Johnny". Randy accostò
al marciapiede proprio ai piedi della collina sotto i campi da
basket. Era esattamente lo stesso posto dove aveva parcheggiato
quando era venuto al campo e mi aveva chiamato Johnny. "Scendi",
disse. Rimasi lì seduto a guardare il cruscotto. "Hai
passato tre giorni a frignare che volevi tua madre e tornare a
casa. Adesso sei a casa. Avanti, scendi".
"Perché?"
Si piegò dalla mia parte e aprì lo sportello sul
mio lato della macchina.
"Fuori", disse, spingendomi per una spalla.
Io scesi.
Randy ripartì, fece inversione e si allontanò giù
per la collina.
Io tornai a casa a piedi tagliando per i giardini dietro le case,
come sempre. Facevo la stessa strada ma tutto mi sembrava diverso.
Tutte le cose che mi erano sempre piaciute, sapere chi abitava
dove e come si chiamava il loro cane, mi facevano solo sentire
peggio. Passai davanti ai fili del bucato e invece di pensare
che era buffo veder la biancheria a fiori della signora Perkins
stesa ad asciugare, mi venne voglia ti tirarla giù. Volevo
tirare via tutto e strapparlo in mille pezzi. Attraversai il giardino
dei Simons ed entrai in quello di casa nostra.
Rayanne era lì tutta sola che giocava nella mia buca di
sabbia. Aveva tredici anni, era più alta di mia madre e
stava giocando nella buca di sabbia. Io rimasi lì in piedi
finché non mi vide. Alzò gli occhi e cercò
di saltare in piedi. Voleva alzarsi ma si mosse troppo in fretta
e non sapeva cosa stava facendo. Cadde e dovette rialzarsi. "Erol,
Erol", disse, attraversando il giardino al galoppo. "Erol",
disse, ma venne fuori qualcosa come "Error, Error".
Mi venne incontro e io lasciai cadere il pallone. Mi girai e mi
misi di nuovo a correre per i giardini. Corsi finché non
sapevo più il nome della gente che abitava nelle case intorno
a me. Corsi per i giardini finché non sentii più
la voce di Rayanne che gridava "Error".
(Tratto
dal libro La sicurezza degli oggetti di A.M. Homes, Edizione
Minimun fax, Roma, 2001, traduzione di Martina Testa)
A.
M. Homes
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