DELHI
- un brano del romanzo -
Khushwant
Singh
Delhi
Ritorno
a Delhi come torno a Bhagmati, la mia amante, quando mi stufo
di andare a puttane in terre straniere. Delhi e Bhagmati hanno
un sacco di cose in comune. Maltrattate da tempo immemorabile
da gente rozza, hanno entrambe imparato a nascondere il proprio
fascino dietro una maschera di bruttezza ripugnante. Rivelano
la loro vera natura solo agli amanti, tra i quali annoverano anche
il sottoscritto.
Ad uno straniero Delhi può apparire come una metastasi
purulenta di bazar rumorosi e squallide catapecchie, che si espande
intorno ad alcuni forti e moschee sconquassate, lungo un fiume
imputridito. Se al visitatore capita di avventurarsi per i vicoli
angusti e tortuosi della città, facilmente avrà
un attacco di nausea per il puzzo degli scarichi a cielo aperto.
I cittadini di Delhi non si danno un gran da fare per risultare
gradevoli al prossimo. Sputano catarro dappertutto, per non parlare
del succo di betel (1): certi schizzi che sembrano sangue.
Urinano e defecano dove e quando vogliono; sono sboccati, esagerano
con le loro offese incestuose, e mentre parlano si grattano le
parti intime. Lo stesso vale per Bhagmati. Chi non la conosce
la trova poco attraente. Pelle scura, volto deturpato dai segni
del vaiolo. Bassa e tozza, denti storti e ingialliti a forza di
masticare tabacco e fumare bidi (2). Vestiti chiassosi,
la voce ancor peggio. Discorsi volgari e maniere ancor peggio.
Ma questa - dico io - è solo la superficie: come quegli
unguenti puzzolenti che la gente si cosparge sulla pelle per tenere
lontani zanzare, moscerini e altri parassiti che succhiano il
sangue. Per vedere le cose nella giusta prospettiva, dovreste
coltivare un senso di appartenenza a Delhi, e affezionarvi a una
persona come Bhagmati. In questo caso i cieli sopra ai palazzi
marmorei di Delhi diventeranno azzurri come acquamarina, tra le
moschee a cupola e gli aguzzi minareti si staglieranno ponti d'arcobaleno,
la terra trasuderà la fragranza intensa del khas
(3), del gelsomino e della maulsiri (4). Allora la sera
Bhagmati scivolerà verso di voi, facendo ondeggiare i larghi
fianchi come la danzatrice di un tempio, la sua bocca profumerà
di chiodi di garofano appena colti, e inizierà a parlare
come Sua Maestà l'Imperatrice dell'Hindustan. Solo quando
farà l'amore si comporterà - e così dovrebbe
essere per ogni donna - come una prostituta scatenata. La formula
è semplice: usa il cuore e non la testa, l'emozione anziché
la ragione.
Così descritte, Delhi e Bhagmati sembrano molto misteriose.
La verità è che ho le idee un po' confuse. Insomma,
sto solo cercando di dire che, sebbene io detesti vivere a Delhi
e mi vergogni della mia relazione con Bhagmati, non riesco a stare
lontano da loro troppo a lungo. In queste pagine spiegherò
lo strano paradosso del rapporto di amore e odio che da una vita
rilega alla città e alla donna.
Bhagmati
E'
tutta la vita che sono tormentato dai fantasmi. Poiché
a Delhi ci sono più fantasmi che in qualsiasi altra città
al mondo, qui la vita può essere un incubo senza fine.
Non ho mai visto un fantasma, e non credo che esistano. Nondimeno,
per me sono reali. Ho cercato di superare questa "spettrofobia"
contemplando morti e moribondi, frequentando campi di cremazione
e cimiteri. Non è servito a granché. Dopo queste
esperienze mi sento in pace con me stesso e m'illudo di avere
esorcizzato la paura. Ma non appena il giorno comincia a morire,
gli spiriti dei morti ritornano in vita. Porte che si aprono da
sole, tende che si scuotono senza un alito di vento: sento la
presenza dei morti tutt'intorno a me. Bhagmati è l'unica
a cui confido le mie paure, perché lei nei fantasmi ci
crede. Ma non è un gran conforto. Ride, mi chiama baccha,
bambino, e minaccia: "Quando morirò, verrò
a giacere con te. Allora ti libererai di queste paure infantili.
Ma se ti scopro a fare l'amore con qualcun'altra, ti tormenterò
tutte le notti." (Non mi aveva ancora perdonato di essermi
scopato Kamala, la moglie del generale di brigata. Comunque adesso
Kamala è tornata dal marito: si sono trasferiti in una
caserma con alloggi per le famiglie, e a Bhagmati è passata
la rabbia!)
Tra i tanti incontri che ho avuto con i fantasmi, ce n'è
uno che non potrò mai dimenticare. E' avvenuto qualche
anno fa. Qualcuno telefonò dicendomi che mio zio era ammalato
e dovevo vederlo prima che morisse. Da anni lo zio era in fin
di vita. L'asma l'aveva ridotto a uno scheletro barbuto, dagli
occhi grandi e feroci. In un certo senso era da anni un fantasma
vivente, e qualcosa mi diceva che avrei fatto meglio a tenermi
alla larga dal suo capezzale. Ma alla fine prevalse la mia morbosa
attrazione per la morte e i lutti, e ignorai i miei presentimenti.
Insomma, in un batter d'occhio mi ritrovai in una stanza piena
di parenti premurosi, seduti intorno al letto del malato. Alcuni
pregavano, altri parlottavano sommessamente. Lo zio era appoggiato
a una pila di cuscini, con la testa infilata tra le ginocchia.
Sua moglie, di fianco a lui, reggeva una sputacchiera piena di
catarro. Lo zio iniziò a tossire, un lungo, interminabile
gorgoglio; poi sollevò la testa. Sua moglie gli accostò
la sputacchiera al mento, e un rivolo di catarro giallo, simile
a pus, scorse lungo la barba nera e colò nel recipiente.
La moglie pulì la barba dello zio con un tovagliolo, e
gli comunicò che ero venuto a trovarlo. Lui mi fissò
con quegli occhi enormi, senza dar segno di riconoscermi. Poi
riabbassò la testa fra le ginocchia. Un attimo dopo crollò
su un fianco, gli occhi e la bocca spalancati. Era morto.
Mia zia si schiaffeggiò la fronte con entrambe le mani
e urlò: "Hai (5)! Sono finita!Gente, sono rimasta
vedova!" Infranse i suoi braccialetti di vetro contro il
baldacchino del letto. I presenti l'attorniarono per confortarla.
Qualcuno chiuse bocca e occhi del defunto, gli annodò una
fascia intorno al mento e riempì d'ovatta le narici. Le
lamentazioni andarono avanti per qualche tempo, poi fu la volta
degli inni sacri: "C'è solo un Dio. Egli è
la Realtà Suprema
" eccetera, eccetera.
Era la stagione del monsone, il cielo era carico di nubi temporalesche.
Ero terrorizzato all'idea di dormire a casa da solo, ma era impossibile
trovare Bhagmati e convincerla a passare la notte con me. Chiesi
a Budh Singh di portarmi il letto sul prato dietro casa, con la
scusa che l'aria condizionata non funzionava. Sul prato si affacciavano
molti appartamenti, si udiva il suono confortevole di voci umane,
si vedevano le luci degli alloggi della servitù. Sistemai
una zanzariera, e mi sdraiai protetto da quello schermo diafano.
Nonostante tutti gli accorgimenti, non riuscivo a chiudere occhio.
Per quanto mi sforzassi, non potevo fare a meno di rivedere gli
occhi dello zio che mi fissavano. Le luci si spensero a una a
una. Le voci umane sfumarono in un sinistro silenzio. Nel cielo
si diffuse la luce grigia della luna. I gufi stridevano tra i
gelsi. Uno spiccò il volo, svolazzò intorno, si
tuffò verso la strada e risalì con un topo tra gli
artigli
Senza volere mi si chiusero gli occhi e cominciai
a rivivere la scena della morte avvenuta quella mattina. Lo zio
era tornato in vita. Camminava sul prato a passi lenti, diretto
verso di me. Scostò il lembo della zanzariera e accostò
la faccia alla mia. Ero pietrificato dal terrore, senza voce.
Poi dalla mia gola emerse un sordo gorgoglio che alla fine esplose
in un urlo straziante. Il morto mi afferrò una spalla ed
esclamò: "Wah Guru! Wah Guru!" Sono solo
io, Budh Singh. Comincia a piovere. Mi lasci portare il letto
dentro casa.
Ero inzuppato di sudore freddo. Vidi le luci degli appartamenti
dei vicini che si accendevano. Una voce domandò: "Che
succede?" Budh Singh rispose in mia vece: "Niente, ha
avuto un incubo!"
Entrai in casa, accesi le luci in tutte le stanze e ordinai a
Budh Singh di andarsene. Sprofondai nella poltrona e m'imposi
un esame di coscienza. Mi sentivo estremamente sciocco. Mi ero
reso ridicolo. Adesso Budh Singh sarebbe andato in giro a dire
che il suo padrone sessantenne si era comportato come un bimbetto
impaurito.
Decisi di superare questa fobia stupida e irrazionale. Erano le
tre e mezza di mattina. M'infilai i calzoni e uscii. Iniziai a
camminare nella pioggerella. Ero determinato: mi sarei abituato
ai morti. Percorsi la strada deserta fino al Lodhi Park. Lì
c'erano diverse tombe. Mi ci sarei seduto sopra e avrei detto
"ciao!" agli amici sepolti lì sotto.
Iniziai andando a trovare Mohammad Shah, il terzo sovrano della
dinastia dei Sayyid, morto nel 1444. Un grande mausoleo ottagonale
su un alto plinto. Gli dissi che non aveva motivo di starsene
lì, perché il parco apparteneva ai Lodhi. Lui non
disse niente, ma i pipistrelli sotto la cupola risposero: "Lui
è venuto prima: i Lodhi sono arrivati dopo. E quel tizio,
Sikandar Lodhi, ha ancor meno diritto di starsene qua, visto che
ha passato più tempo ad Agra che a Delhi."
Mi rituffai nella pioggerella diretto alla moschea Bara Gumbad,
fatta costruire da Sikandar Lodhi. Splendida cupola! Identica
al seno di Kamala, la donna del sud, terra delle noci di cocco:
ben arrotondata, con il capezzolo turgido puntato verso il cielo.
Camminai intorno alla moschea, sedetti su una tomba in rovina
e osservai Sheesh Gumbad, a pochi metri di distanza. La cupola
era leggermente meno rovinata. Nel buio grigiore lunare era impossibile
ammirare i fronzoli di piastrelle colorate che avvolgevano la
semisfera come un reggiseno di pizzo. Raggiunsi la tomba di Sikandar
Lodhi. Il coraggio mi venne a mancare. Quel simpaticone era sepolto
all'interno di un giardino quadrato, racchiuso tra le mura. Non
osavo entrare là dentro di notte: se poi un fantasma mi
avesse bloccato la ritirata?
Salii i gradini, ma li ridiscesi subito. Feci un paio di tentativi,
ma proprio non mi riusciva di oltrepassare la soglia. "Consideriamola
cosa fatta", decretai. In ogni caso a quel tizio non piaceva
Delhi, e non volevo mettermi a litigare con lui. Inoltre suo figlio,
Ibrahim Lodhi, si era fatto sconfiggere e uccidere a Panipat dal
capostipite dei Mughal, Babar. Perciò non era indispensabile
rendere troppi omaggi ai Lodhi.
Ormai l'orizzonte a oriente appariva più luminoso, e il
canto dei dronghi annunciava l'alba. I primi passanti mattutini
attraversavano il ponte di Athpula. Davanti al Bara Gumbad si
era riunito un gruppo di persone per praticare lo yoga all'aria
aperta. Il mondo dei vivi si era risvegliato e il mondo dei morti
per il momento di era estinto.
Bhagmati
La
grande passione di Bhagmati, a parte me (almeno così mi
piace credere), sono i manghi. E' stata una buona annata per i
manghi, ma non per il monsone. A Delhi capita spesso. Il primo
raccolto di manghi arriva dal Tamil Nadu, verso metà aprile.
Consistenza grassa e carnosa, senza alcun carattere. A maggio
nei mercati di Delhi arrivano gli ambitissimi Alfonso del Maharashtra.
Deliziosi, ma intollerabilmente costosi. E da quando la comunità
straniera ha cominciato ad apprezzarli, la situazione è
ulteriormente peggiorata. Posso assaggiare gli Alfonso solo quando
qualche ricco industriale o un ministro in carica me ne regalano
una cassetta. Ne distribuisco qualcuno ai miei vicini, sperando
che mi rendano il favore quando arriveranno i deliziosi manghi
dell'Uttar Pradesh. Finché dura la stagione sono sempre
a caccia di manghi, perché dopo le incursioni di Bhagmati
resto immancabilmente a bocca asciutta. Senza preoccuparsi di
chiedermi il permesso, ne mangia tre o quattro alla volta, e succhia
i noccioli di gusto, finché non resta la minima fibra.
Conclude il banchetto con un gran rutto, si lava mani e faccia
e poi raccoglie la frutta rimasta sul tavolo tra i lembi della
sari per portarsela a casa. "Tanto lo so che non l' hai pagata",
dice. "La mia povera famiglia quest'anno non ha ancora assaggiato
un mango", aggiunge uscendo di casa.
Non esiste un frutto paragonabile ai Duessehri, ai Langda e ai
Rataul dei frutteti dell'Uttar Pradesh. Tra le quasi mille varietà
di mango, sono quelli che mi piacciono di più. Sfortunatamente,
sono anche i preferiti da Bhagmati. Durante la stagione dei manghi
le sue visite si fanno più frequenti. Arriva, sbaffa i
miei manghi e si porta via quelli che non riesce a mangiare. Dice
che fanno bene alla digestione e sono il rimedio migliore contro
la costipazione, Bhagmati non bada alla linea.
Come vi ho detto, abbiamo avuto un monsone scarso. La prima settimana
di giugno, ho sentito cantare l'uccello che annuncia l'inizio
delle piogge. Di solito il monsone arriva dopo pochi giorni. Ci
sono stati forti rovesci in altre zone dell'India. Le strade di
Bombay e Calcutta sono sommerse dall'acqua, l'Assam è devastato
dalle inondazioni. Invece a Delhi neanche una goccia d'acqua,
né in luglio, né in agosto. Il dannato meghapapiha,
il cuculo delle nubi, non si sente da tre mesi. "Ci sarà
una carestia", profetizza Bhagmati trangugiando il quinto
Langda. "La gente morirà di fame per le strade di
Delhi". Poi aggiunge con filosofia: "Non importa. In
questa città maledetta la gente non fa che morire. Se non
è la fame ci pensano il colera, la peste, il vaiolo, gli
omicidi, i suicidi. O la vecchiaia."
Delhi
Una
luna pallida e antica vagabonda nel cielo. Nel tempio dietro al
mio appartamento si accende una luce. L'elettricità torna
quando meno serve. Mi alzo e mi trascino in salotto.
Accendo la lampada da tavolo. Le cinque e un quarto di mattina.
Spalanco la finestra. Le tende tremolano. Una fresca brezza, intrisa
del profumo della madhumalati (6) che ricopre il muro esterno,
spazza via gli umidi rimasugli di aria putrida del giorno appena
trascorso. Sprofondo nella mia poltrona e guardo fuori dalla finestra.
I lampioni delle strade si spengono di botto, in silenzio. Attraverso
le foglie di gelso traluce l'alba grigia.
Pipistrelli sfrecciano silenziosi nell'aria, tornano ad appollaiarsi
tra i rami di enormi alberi di arjun (7). L'anziana signora
che vive nell'appartamento di sopra avanza ciabattando lungo la
strada. Si ferma davanti alla mia siepe d'ibisco, si guarda attorno
per sincerarsi che nessuno la stia osservando, coglie in fretta
qualche fiore, se l'infila nel dupatta (8) e riprende a
ciabattare verso il tempio. La tallona il vecchio marito. Anche
lui. Anche lui si ferma vicino alla mia siepe d'ibisco, si guarda
intorno per sincerarsi che nessuno lo stia ascoltando, si preme
il pancione ed emette una lunga sofferta scoreggia. Procede con
passo più spedito sul volto ha dipinta un'espressione del
tipo: "Chi mai sarà stato?" Nel caseggiato di
fronte si accende una luce. Una donna solleva le tende, raccoglie
i capelli scompigliati in una crocchia e stira le braccia nella
mia direzione. Altre luci si accendono e si spengono. La stella
del mattino è appena visibile nel cielo rosa. I corvi cominciano
a gracchiare tra di loro. I passero cominciano a litigare sui
rami di gelso. La voce del muezzin s'innalza in cielo. Le campane
del tempio suonano a distesa per cercare di svegliare gli déi
dai loro sogni. Il lattaio scorrazza in bicicletta introno al
caseggiato, producendo un clamore penetrante con i contenitori
del latte. Un altro ciclista lo segue scampanellando e urlando:
"Paperwalla! Giornalaio!Ishtaitman, Taim of India,
Hindustan Taim, Express, Herald. Paperwalla!" Sento il
fruscio dei giornali che vengono infilati sotto la porta. Resto
seduto nella mia poltrona. La brezza mattutina diffonde la luce
dell'alba nella camera. E' fresca, fragrante, impregnata di tristezza
e struggimento: è il bad-i-saba, il vento del mattino
sacro agli innamorati. E io sono di nuovo nella mia amata città.
Costeggio
le mura della città mughal (9) e la moschea di Zeenat
Mahal. Arrivo al crematorio elettrico, rallento. Niente clienti,
niente fumo. Supero le arcate a tre ponti, diretto al campo di
cremazione del Nigambodh Ghat, sulla Jamna. Parcheggio la macchina
ed entro.
Cos'è successo ai delhiwalla (10)? Non muoiono neanche
più come una volta! Solo una pira che arde, e tre mucchietti
di ceneri incandescenti. Nessun parente in lutto. Raggiungo il
bordo della banchina per vedere se c'è un po' più
di movimento. Che scena!
Sulle gradinate che s'immergono nel fiume è steso un cadavere
avvolto in un sudario rosso. Una dozzina di uomini e donne gridano
e si percuotono il petto. Un bramino li spinge da parte, recita
un'oscura litania in sanscrito, spruzza acqua sul cadavere. Un
uomo di mezza età scosta il sudario. E' una ragazzina,
ha il volto cereo, sembra immersa in un sonno profondo. L'uomo
la fissa, geme e scrolla la testa, incredulo. Di fronte a lui
una donna bacia ripetutamente la fronte della fanciulla e stringe
il cadavere tra le braccia. Qualcuno scosta gentilmente la coppia
disperata, e ricopre il volto della ragazza defunta. Il prete
tende una mano. Uno dei convenuti gli dà una rupia. Il
brahmino fissa la rupia indignato, poi si allontana su per gli
scalini, zoccolando con i suoi sandali di legno. I parenti della
defunta sollevano il feretro e lo seguono.. appoggiano il cadavere
a terra e iniziano ad allestire una piattaforma con grossi ceppi
di legno. La coppia di mezza età riprende le lamentazioni.
La donna si getta polvere tra i capelli e si percuote la testa
con i pugno urlando: "Hai!Hai!Hai!" L'uomo scopre
di nuovo il viso della fanciulla, la fissa intento per un minuto,
poi geme: "Hai Rabba!" (11) Non riesce a staccare
gli occhi dalla figlia morta. Le stringe le braccia e le gambe,
le massaggia la pianta dei piedi. La pira è pronta. Sollevano
il cadavere e lo sistemano sulla legna. Vengono aggiunte altre
fascine, e mazzi di erbe profumate, poi sulla pira viene svuotato
un lota (12) colmo di burro chiarificato. Un uomo accende
un bastone infilato in un fagotto di stracci inzuppati nel kerosene,
e passa la torcia intorno alla pira. Le fiamme divampano. Un altro
uomo prende un bastone di bambù appuntito, sonda la pira
ardente per localizzare la testa della fanciulla, glielo affonda
nel cranio.
I genitori sprofondano la faccia nella polvere, percuotono il
terreno, urlano. Il postale Toofan da Calcutta supera sferragliando
il ponte sulla Jamma, diretto alla stazione di Delhi.
Lascio il Nighambodh Ghat, il calore delle fiamme continua a bruciarmi
il volto e l'urlo disperato dei genitori non smette di echeggiarmi
nelle orecchie. Questo sì che è dolore! Trafigge
il cuore come un ago incandescente. Se non fosse per la grazia
di Dio, su quel ghat (13) avrei potuto esserci io, a piangere
la morte della mia bambina! E invece, per grazia di Dio, eccomi
a guidare l'Ambassador verso casa! Cosa sono la mia rabbia, la
mia invidia e la mia frustrazione, paragonate alla pena delle
persone che mi sto lasciando alle spalle! Torneranno a casa e
sentiranno il vuoto lasciato dalla loro bambina. Io tornerò
a casa e mi berrò uno scotch.
Budh Singh mi sta aspettando. Fa il presentat'arm con il suo bastone.
Mi rifiuto di sentirmi a disagio. Si avvicina e mi confida: "Scusi,
signore. Suo hijda (14) è venuto a trovarlo. Io
detto che non ancora tornato da estero: Spero non è
arrabbiato con me. Va bene una donna, va bene un ragazzo, ma un
hijda
"
Potrei prendere a schiaffi la faccia barbuta di Budh Singh. Invece
mi chiudo delicatamente la porta alle spalle e mi preparo un drink.
Questa è Delhi. Quando la vita si fa insopportabile, non
devi far altro che passare un'oretta al Nigambodh Ghat, osservare
i morti che vengono dati alle fiamme, ascoltare i familiari che
li piangono. Poi torna a casa e butta giù un paio di whisky
e soda. A Delhi la morte e il whisky rendono la vita degna di
essere vissuta.
(Brano tratto dal romanzo Delhi,
appena uscito in Italia dalla casa editrice Neri Pozza, 2002,
Vicenza. La traduzione è di Vincenzo Mingiardi.)
NOTE
(1) foglia di un arbusto rampicante (piper betel), che viene spalmata
con una pasta a base di noce di areca tritata, tabacco, calce,
lime e varie spezie. La masticazione produce una copiosissima
secrezione salivare di colore rosso acceso.
(2) sigarino costituito da una singola foglia di tabacco non conciato.
(3) arbusto odoroso, al cui profumo acre vengono attribuite proprietà
rinfrescanti.
(4) grande pianta sempreverde (Mimusops elengi), i cui fiori odorosissimi
vengono usati per la produzione di essenze profumate.
(5) Esclamazione d'incredulità o dolore
(6) una varietà di gelsomino
(7) pianta d'alto fusto dalle foglie decidue
(8) scialle
(9) da Moghul, dinastia musulmana che regnò sull'India
dal Cinquecento a metà Ottocento
(10) abitante di Delhi
(11) Oh Signore!
(12) piccolo contenitore bombato usato per le abluzioni, solitamente
di rame o ottone
(13) ampie gradinate che consentono l'accesso a un fiume o a un
bacino
(14) ermafrodita, eunuco
Khushwant Singh è nato nel 1915 a Badali, nel Punjab. Dopo
aver studiato al Government College di Lahore e al King's College
di Londra, ha lavorato a lungo presso l'Alta Corte di Lahore.
Scrittore tra i più famosi e venduti in India, Singh ha pubblicato
numerose opere, tra le quali una monumentale Storia dei Sikh e i
romanzi Train to Pakistan e La compagnia delle donne (tradotto in
Italia da Neri Pozza).
Delhi è il suo romanzo più celebre (Neri Pozza, Vicenza
2002). Nella prefazione l'autore spiega la genesi di questo lungo
romanzo di 480 pagine: "In questo romanzo ho cercato di raccontare
la storia di Delhi dall'inizio ai giorni nostri. A tal fine mi sono
servito delle cronache di testimoni oculari. Ecco perché
gran parte del romanzo è narrata in prima persona. Le cronache
storiche mi hanno fornito l'ossatura, io ho aggiunto la carne, il
sangue e un bel po' di liquido seminale. L'impresa è durata
venticinque anni, e non so se sia stata coronata con successo."
Khushwant Singh è stato definito il Bukowski indiano (Panorama)
Per i lettori che volessero saperne di più sulle sue opere
tradotte in Italia possono visitare il sito www.neripozza.it
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