EDITING
Davide
Bregola
Gli
scrittori prima di consegnare al mondo la loro ars poetica
cercano di limare e di riscrivere il loro romanzo o il loro racconto
fino a quando non considerano le correzioni definitive e il libro
pronto per andare in stampa. Non è mai da escludere il
fatto che si possa scrivere un buon racconto o un romanzo dai
semplici dettami dell'ispirazione e considerare sacra la prima
versione di uno scritto al punto tale da ritenerla intoccabile.
Però è anche vero il fatto che io non ho mai sentito
dire da un bravo scrittore: quel romanzo l'ho scritto di getto
e non è stata corretta nemmeno una frase!
Di solito la stesura di un corpo narrativo implica due momenti
fondamentali di revisione: una personale, fatta dall'autore prima
di dare il libro in lettura a qualcuno, l'altra con un addetto
ai lavori che di mestiere fa l'editor per la casa editrice in
cui si è dato in lettura il proprio libro.
Per quanto riguarda l'esperienza di scrittura degli scrittori
italiani della migrazione, non bisogna escludere che usando una
lingua d'adozione, l'italiano, può succedere a volte che
forma e contenuto non vadano di pari passo. Corpi narrativi molto
interessanti nella tematica e nella trama potrebbero rischiare
di non essere valorizzati perché l'ortografia non è
all'altezza del resto, o viceversa scritti grammaticalmente ineccepibili
potrebbero migliorare e diventare suggestivi cambiando il contenuto.
Sviluppare una narrazione in tutte le sue parti implica un'esperienza
e una conoscenza tale della nostra lingua che a volte non è
completa nemmeno negli scrittori delle patrie lettere che studiano
questa lingua da quand'erano bambini; tant'è vero che la
figura dell'editor è presente anche durante la revisione
di scritti d'autori italiani.
Per quanto riguarda l'intromissione di un editor nella revisione
di testi di scrittori allofoni in lingua italiana, la questione
diventa delicata perché il rischio è di forzare
o travisare lo scritto che l'autore italiano della migrazione
ha consegnato in casa editrice, ecco allora che autori come Helga
Schneider a proposito dell'editing cui sottopone i suoi testi
ha detto: La mia caratteristica è di scrivere frasi brevi.
Dopo l'ennesima stesura di un racconto mi metto a togliere. Prendo
lo scalpello e tolgo, prendo la lima e limo. Tolgo e tolgo. Rileggo
le cose e appena inciampo perché qualcosa è troppo
lungo, troppo complicato, vado in levare. Voglio una scrittura
che dica molto con poco, anche perché sono convinta che
il risultato sia più drammatico.
E rispetto al lavoro di revisione da fare con un editor di casa
editrice che interviene per cercare di migliorare il testo: Sono
una delle poche autrici che ammette un editor e un suo eventuale
intervento. Tanti grandi autori l'hanno avuto. Un editor interviene
sempre, ogni libro subisce un editing, ma non piagnucolo a vedere
un taglio apportato consapevolmente e deciso assieme ad un professionista
dell'editing come possono essere quelli di Adelphi o Rizzoli.
Io non ho la presunzione di rimanere aggrappata ad una frase infelice,
soprattutto perché riconosco il valore delle persone che
intervengono su un mio scritto. Dico senza rimpianto: taglia!
Quando si è in un'equipe importante si lavora assieme e
si discute da professionisti. Si deve avere l'intelligenza di
collaborare; anche gli scrittori grandi non sono mai stati perfetti.
E' assurdo impuntarsi su una propria povera frase. Forse perché
io non mi considero mai un'eccelsa, ho sempre un residuo di umiltà
e modestia che non ho mai voluto perdere. Forse è per questo.
Oppure Smari Abdel Malek ammette: Quando correggo o lavoro
alle riscritture provo una tristezza incolmabile quando devo tagliare
alcune parole, ma l'arte di scrivere l'ho imparata da un editor
di Il Saggiatore: Luca Fontana, una persona molto sensibile e
preparata. Ho conosciuto tanta gente, eppure lui è quello
che mi ha insegnato di più. Fontana è un genio.
Ha contribuito a rendermi più consapevole. Prima del suo
intervento scrivevo in modo classico partendo da un punto di vista
arabo. Magari in un paese arabo la mia scrittura sarebbe andata
bene, lui invece ha insistito perché mi rendessi cosciente
di ciò che potevo fare per ottenere il meglio da me stesso.
Mentre Younis Tawfik, autore di La straniera per Bompiani
racconta: Dopo aver finito La straniera ho letto, corretto,
ristampato, corretto di nuovo e alla fine ho dato ad un amico
la copia. Lui ha fatto da editor e mi ha dato suggerimenti. Di
nuovo un'altra copia, fino a farglielo leggere 4 volte. Alla fine,
prima della consegna alla Bompiani, ho letto di nuovo e ho tolto
circa 50 pagine. La figura dell'editor comunque è stata
fondamentale.
Mentre Christiana De Caldas Brito alla mia domanda specifica:
Con lei, scrittrice, mi piacerebbe affrontare il tema dell'editing
al testo. Con ciò non mi riferisco alla revisione che un
autore apporta a stile e contenuto di ciò che scrive, ma
al lavoro, molte volte imposto dalle case editrice, per rendere
ciò che si scrive "appetibile" per un eventuale
pubblico di lettori dei "mondi nord". Spesso il testo
di un autore migrante viene sottoposto a riscrittura incondizionata
e viene, inevitabilmente, travisato. Come può un autore
difendere in qualche modo le proprie ragioni, la propria "grammatica
meticcia" ed imporla come un rinnovamento della lingua se
gli si pone il quesito: se accetti l'editing pubblichi, se non
accetti, rimarrai inedito?
E lei, puntuale, mi ha risposto: Se l'editing travisasse il
mio pensiero, preferirei non pubblicare il mio testo. Cercherei
un altro editore. E se non lo trovassi, preferirei mantenermi
fedele al testo inedito. L'editing prima di tutto dovrebbe essere
un aiuto, non un'intrusione nella creatività di un autore.
Oltre alla parte grafica, che si occupa della distribuzione estetica
e razionale di un testo in un determinato spazio di carta, l'editing
dovrebbe eliminare solo quello che priva un testo del suo ritmo,
quello che "graffia" una frase, che non favorisce lo
scorrere della lettura. Se io non riesco a comunicare il mio pensiero
con chiarezza, l'editing dovrebbe evidenziare questa lacuna. Il
pericolo di ogni editing non è solo quello di alterare
cosa dice uno scrittore, ma di alterare il come. Per un scrittore,
soprattutto se straniero, gli errori di italiano vanno eliminati,
ma solo quando le correzioni non alterano la creatività
dello scrittore. Le correzioni non devono interferire nella poetica
dello scrittore o nella caratterizzazione di un suo personaggio.
Come può un autore difendere la propria scrittura da un
appiattimento editoriale, da un'omologazione di un editing che
travisa la sua creatività? Se io scrivo legata a ricordi
di un'altra cultura e ad una lingua diversa che ha lasciato tracce
indelebili nella mia mente, come faccio ad impedire che tutto
questo sia presente nella mia scrittura? Umiltà e dignità
debbono camminare di pari passo nella difesa della propria individualità
letteraria. Umiltà perché abbiamo molto da imparare
se scriviamo nella lingua italiana. Dignità per riconoscere
che il nostro contributo letterario è prodotto di vissuti
storici diversi e ha come base musica, colori, suoni e ritmo diversi.
Linguisticamente non voglio essere una scrittrice "ben educata".
La grammatica non può essere una madre castrante che mi
dà regole invalicabili di buon comportamento letterario.
Vorrei scrivere bene in italiano senza tradire la mia mente lusofonica.
Un buon editing sarà quello che rispetterà la mia
forma mentis anche quando scrivo in italiano. La lingua sarà
filtrata dalla mia sensibilità che si è formata
altrove. Come deve essere l'editing? Il Professor Armando Gnisci
ha appena pubblicato sulla rivista Kuma, da lui progettata e diretta,
(www.disp.let.uniroma1.it/kuma.html) un eccellente articolo: "editing
(doppiaggio)". Nell'articolo, Armando Gnisci operativamente
mostra una sua attività di editing. Secondo me, tre sono
le qualità dell'editing del Professor Gnisci, (e le ho
sperimentate anch'io, non direi sulla mia pelle, ma sulla mia
carta
): rispetto del pensiero dello scrittore; sintonia
creativa con il testo letto; delicatezza nei suggerimenti che
aumentano la fluidità del testo.
Jarmila Ockayova invece, a proposito di "sentire" quando
una pagina scritta sia riuscita e quindi sia terminato il lavoro
di editing, dice: Personalmente, considero riuscita una mia
pagina quando ha un cuore. Proprio così: un cuore, vivo,
pulsante. Pascal diceva che il cuore conosce ragioni che la ragione
ignora; Paul Valery lo parafrasava dicendo che quelle del cuore
non sono ragioni ma ben altro: sono forze. Ecco, il mio giudizio
di valore è questa massima valeryana. Vorrei che ogni mio
scritto avesse un suo cuore, con la sua forza e con il suo ritmo,
un cuore invisibile, un centro motore nascosto ma che pulsi e
irrori di vita ogni pagina come il sangue che scorre nell'apparato
circolatorio di un corpo.
Tahar Lamri, invece, accenna al fatto di aver scritto di getto
alcuni racconti e alla sua voglia di confrontarsi per avere giudizi
sulla scrittura: Prima di sapere che avrei potuto pubblicare
avevo scritto un racconto che è ancora inedito. Era un
periodo fecondo per la mia scrittura, mi veniva tutto naturale,
impiegavo magari un solo giorno per scrivere un racconto, scrivevo
di getto e senza correggere. Non è una cosa da poco, non
succede mai, di solito. In quel periodo avevo scritto un altro
racconto che mi piaceva molto, era legato all'Algeria, ma non
era il più bello. Finito il racconto, non conoscendone
il valore, mi sono deciso ad osare e ho chiamato Giunti editore,
che aveva la collana Astrea e mi sembrava potesse andare bene.
Mi hanno fatto parlare col direttore editoriale, gli ho spiegato
che non volevo pubblicare, volevo solo sapere se potevo mandare
un racconto per avere una critica. Volevo rendermi conto se valevo
qualcosa o se ero un semplice imbratta carte. Tieni conto che
sono arrivato in Italia nell'87 e questi fatti avvenivano nel
'90, capisci quanta poca consapevolezza
come fai a sapere?
Scrivere non è come parlare che ti dicono, ah, parli bene,
senza accento, ma con la scrittura, se uno non è del mestiere
non capisce. Così, al direttore ho dato un racconto, mi
ha detto che avrebbe impiegato molto per leggere. Dopo sei mesi
mi hanno mandato una critica circostanziata in cui dicevano che
le mie cose erano estranee alle loro linee editoriali, ma che,
se avessi unito a quel racconto altre cose si sarebbe potuto pubblicare.
Io non ho unito nulla e non ho pubblicato. Il racconto si chiamava
L'Henné e parlava di una donna ripudiata dal marito perché
uscita di casa senza il suo permesso. Dopodiché l'uomo,
pentito, l'avrebbe voluta ancora, ma le leggi islamiche vietano
di riprendere la moglie, a patto che lei si sposi con un altro
uomo. Una storia molto lontana dall'immaginario occidentale. Esotica,
se vuoi. Nella lettera della casa editrice c'erano delle critiche
molto interessanti che mi sono servite. E' aumentata la mia consapevolezza
sulle potenzialità più che sulla tecnica. La tecnica
si impara facendo artigianato. Tanti scritti li ho lasciati abbandonati,
lavorando e avendo famiglia è difficile scrivere, ci vuole
tempo mentale per scrivere come intendo io, poi li ho ripresi
in mano.
Parlando di revisione di un corpo narrativo con Julio Monteiro
Martins è scaturita questa risposta: Tanti scrittori
che conosco ci tengono a dire che scrivono e riscrivono una dozzina
di volte ogni loro testo. Io ne dubito, francamente, a meno che
non si tratti di autori che hanno fatto, dell'operazione di riscrittura,
il loro punto di forza, la loro specifica ricerca stilistica,
come il già citato Manganelli, o la Duras, Gadda o Guimarães
Rosa. Secondo me, nella maggior parte dei casi, quest'affermazione
è solo un modo di aggiungere più "sacralità"
al risultato della loro scrittura. Comunque, io non mi includo
tra questi. Il processo più duro, più travagliato,
ma anche il più piacevole, del lavoro, lo faccio prima
e durante la stesura della bozza del testo. È il momento
della creazione, della materializzazione di una atmosfera diffusa,
una "nebbia" piena di personaggi fantomatici, di spazi
immaginari e di espressioni soffiate nell'etere, come una sorta
di brezza linguistica, di "soffio" del verbo. È
un momento di grande eccitazione ed entusiasmo. Cortázar
ha scritto un ottimo testo che parla su questo momento, e che
ho pubblicato sul numero uno della rivista Sagarana, chiamato
Il racconto breve e i suoi dintorni.
Poi, lascio il testo "riposare" per qualche giorno,
o per qualche settimana, e nel momento in cui ho una mezza giornata
libera riprendo quelle bozze - fino a lì scritte a penna
o matita su fogli sciolti di carta - e le digito al computer,
facendo le modifiche necessarie, e, a volte, aggiungendo una frase
o un intero paragrafo. Allora il testo è pronto. Lo mostro
ad un amico, ad un altro scrittore, per conoscere la sua opinione,
i suoi suggerimenti, e dopo questa fase è molto raro che
faccia ulteriori cambiamenti. Un'eccezione importante a ciò
è data dal racconto Le due città: cinque anni dopo
averlo finito, l'ho riscritto interamente seguendo un nuovo punto
di vista narrativo e passando addirittura dalla terza alla prima
persona. A narrare è un soldato ancora preadolescente che
ha presenziato a tutta la tragedia dei Taboriti boemi e, già
anziano, la ricorda e la racconta ai bambini attorno a lui (come
ho visto fare tutte le domeniche nel Peace Memorial Park, costruito
nel luogo esatto in cui è esplosa la bomba, dagli anziani
sopravvissuti alla catastrofe di Hiroshima, gli hibakusha).
Allora, per ciò che riguarda la questione della revisione,
vorrei esprimere una mia preoccupazione: ho notato una pericolosa
tendenza negli studiosi della cosiddetta "letteratura della
migrazione" perché tendono a sopravvalutare l'importanza
di queste revisioni. Secondo me, sottolineare tale aspetto può
essere un modo - forse inconscio - per accennare ad una presunta
autonomia impossibile di questi autori non-europei in una cultura
europea. Il fatto è che l'autonomia è assoluta.
Nel mio caso, quando finisco un racconto, una poesia o un brano
di un romanzo, chiedo ad un amico fidato di leggerli insieme a
me e di darmi alcuni suggerimenti. Ma questo l'ho sempre fatto,
anche quando scrivevo in Portoghese. Da questo punto di vista,
non c'è alcuna differenza significativa tra il tipo di
revisione che faccio oggi e quella che facevo dieci anni fa.
Inoltre, gli autori di madrelingua italiana non hanno anche loro
un revisore, a volte offerto dalla loro casa editrice? E questo
revisore, talvolta un vero editor, non propone anche lui delle
correzioni e delle modifiche? E quando l'opera è pubblicata,
nessuno si ricorda di porre domande sulla revisione del loro libro...
Allora, perché con noi dovrebbe essere diverso? Non occorre
e non è onesto trasmettere la falsa impressione che gli
scrittori che hanno avuto una madrelingua diversa dall'Italiano
non possano muoversi in questa lingua senza le stampelle di un
revisore italiano nato per garantire loro il "nulla osta".
Camminano sì, e spesso corrono molto veloci. L'opera dello
scrittore è l'opera che lui presenta alla critica e al
pubblico nel libro stampato. I procedimenti tecnici e i provvedimenti
di natura editoriale che ha impiegato per raggiungere il risultato
a cui è arrivato non sono importanti, a meno che un ricercatore
non studi proprio questo, e allora dovrebbe studiarlo nell'opera
di tutti gli scrittori, di madrelingua o no, studiare a fondo
le varianti che vanno dal primo abbozzo fino all'opera pubblicata.
Ma per la critica in generale, per quelli che sono interessati
alla letteratura e non alle metodologie editoriali, questi arzigogoli
non devono interessare.
Alla mia domanda: Che tipo di editing consiglieresti ad uno
scrittore inedito che ha fatto la sua opera prima? Leggersi dopo
aver lasciato il testo a decantare? Fare leggere il testo ad altri,
fidati, e sentire i loro commenti e farne tesoro? Qualcos'altro?
Helena Janeczek ha risposto: Sì, prima l'uno e, quando
si è sufficientemente convinti, l'altro, magari anche se
dovesse trattarsi di un testo ancora incompiuto, per avere un
po' di incentivi, ma questo dipende dal carattere di ognuno. Se
le persone cui si mostra il lavoro sono davvero quelle per cui
si prova fiducia e stima (come lettori qualificati, intendo),
mi sembra la cosa migliore.
La sfida per gli scrittori italiani della migrazione, ma che si
può estendere a tutti i narratori che vogliono fare Letteratura,
è quella di passare dal proprio linguaggio mentale, pieno
di pensieri, silenzi, sentimenti che non hanno una verbalizzazione
immediata, alla lingua italiana con la sua sintassi, cercando
di non perdere la propria voce particolare. Se per raggiungere
la propria voce fosse necessario affidarsi a un editor rispettoso
del pensiero dello scrittore; in sintonia creativa con
il testo letto; delicato nei suggerimenti che aumentano
la fluidità del testo, come ha detto Christiana De
Caldas Brito, non si può far altro che affidarsi con umiltà
e dedizione allo scambio di idee con addetti ai lavori autorevoli
e "deontologicamente" corretti delle altrui intenzioni.
Davide Bregola è
nato 30 anni fa in provincia di Ferrara. Vive tra Mantova e Ferrara.
Ha frequentato la facoltà di giurisprudenza a Ferrara per
poi dedicarsi al lavoro in una libreria e alla narrativa. Ha pubblicato
interventi sulla scrittura allofona in lingua italiana su "Atelier"
e "Fernandel". Tra la fine del 2002 e l'inizio del 2003
è prevista l'uscita del suo libro "Da qui verso casa"
che include interviste agli scrittori italiani della migrazione.
.
Precedente IBRIDAZIONI
Pagina
precedente
|