IL SAPERE E LA SAGGEZZA


Ali Mumin Ahad



Secondo B. Russel, "Ogni incremento dell'abilità, se si vuole che produca un incremento anziché una diminuzione della felicità umana, richiede una corrispondente crescita della saggezza". È indubbio che negli ultimi secoli della storia dell'umanità, di incrementi in abilità e scoperte scientifiche capaci di apportare grande sollievo nella vita delle persone ce ne sono stati. È altrettanto indubbio che, oggi, ci sono tutte le possibilità per mettere fine a tanti problemi che affliggono l'umanità, come l'analfabetismo e la mancanza di istruzione, la fame conseguente all'ignoranza e alla mancanza di abilità a produrre, le malattie causate della fame e della malnutrizione, nonché l'incapacità di curarsi o di ottenere i necessari rimedi; ma ciò che manca o sembra mancare è quella corrispondente saggezza che il filosofo ritiene essere quell'elemento necessario ed indispensabile alla felicità del genere umano, per via e conseguenza del sapere e delle sue applicazioni. E' chiaro che il genere di saggezza da ricercare è quello che non confina la felicità in un emisfero del pianeta. È quella saggezza che nasce dalla consapevolezza che ogni essere umano è parte del nostro essere, così come il granello di sabbia è parte del tutto. Di fronte alla mancanza della necessaria saggezza a comprendere l'unità del genere umano (e alla sua parità nei diritti fondamentali), gli incrementi sempre maggiori di tecniche e di sapere in una parte sola della famiglia umana, rischiano di tradursi sempre di più in mezzi per diminuire la felicità di quell'altra. Le fortissime disparità di condizioni economiche, sanitarie e di godimento d'alcuni diritti fondamentali, sono la conseguenza di una storia dell'umanità. Una storia nella quale il sapere non è stato, certamente, condiviso e ripartito in eguale misura da tutti e che ovunque è stato possesso di pochi eletti. Non solo, ma utilizzato più spesso per soggiogare che per liberare le moltitudini di esseri umani resi schiavi dalla loro stessa ignoranza e dall'avidità senza fine di una minoranza.
"L'origine della questione coloniale, non sta certamente in una cattiva pulsione di una parte dell'umanità, ma è la conseguenza di una disparità di livelli di accumulo e di utilizzazione dei saperi. È, soprattutto, la differenza di capacità tecnologica nell'utilizzazione delle risorse naturali la causa che permise ad alcune nazioni di auto-eleggersi a guide del resto dell'umanità. Quella parte dell'umanità che esse stesse definirono (attraverso un uso, potremmo dire, strumentale del sapere) come poco umana e minimamente dotata di sentimento morale. È stata questa convinzione, più di qualsiasi altra cosa, a giustificare tutto ciò che accadde (di conquiste e di occupazione coloniale) nella storia dell'umanità. Laddove la diffusione e l'utilizzazione del sapere (pensiero filosofico, scoperta scientifica, asserzione morale) sono stati resi possibili, attraverso il libro e la parola scritta, l'umanità ha saputo con molta più abilità facilitare il suo modo di vivere; dove, invece, il sapere è divenuto tradizione orale, trasmessa da e solo a pochi eletti, sia gli uni che gli altri ne sono rimasti svantaggiati. Per una parte dell'umanità i saperi sono divenuti sempre più condivisibili, un bene comune, mentre per l'altra, si sono fatti superstizione, aure magiche di chi deve comandare su gli altri. Si tratta di due atteggiamenti verso il sapere, di due modelli culturali nettamente diversi. Questo è quanto può essere desunto dal fondo e dal corso della storia per descrivere un divario che nasce non da fattori genetici, ma soltanto da una questione di ideologie e di sistemi culturali, di tecniche e di utilizzazione dei saperi, di pratica e di sistemi di potere. Questo è quanto potrebbe affermare oggi chiunque non si ponga ideologie da salvaguardare o un passato storico da giustificare. Ieri non era così. La civilizzazione europea veniva giustificata proprio dall'implicito presupposto che là dove non era arrivata vi sarebbe sempre stato il regno dell'infanzia del genere umano" (1).
L'eredità dell'esperienza coloniale consiste, per molti paesi ex-colonie, in deboli istituzioni ed economie legate al sistema di sfruttamento delle risorse e delle materie prime. La debolezza delle istituzioni è causa della mancanza di diritti garantiti e di democrazia in molti Stati, laddove le persone sono costrette sempre di più ad emigrare per stabilirsi in Stati più democratici dove il rispetto dei diritti della persona è assicurato insieme al rispetto delle leggi.
Un'altra eredità dell'epoca coloniale (nella quale vi è ben poca della saggezza del filosofo già citato), è l'erigersi e l'esistenza di un sistema economico mondiale di sfruttamento delle risorse e degli uomini. La logica di questo sistema crea, inconsapevole la maggior parte degli individui, una persistente dipendenza delle economie arretrate (quelle che non hanno avuto l'opportunità di beneficiare delle applicazioni scientifiche e delle moderne tecnologie produttive). Questa dipendenza si manifesta per gli Stati del terzo e del quarto mondo nell'incapacità assoluta di provvedere ai bisogni ed alle necessità dei propri cittadini, pur in presenza di tutte le risorse potenziali: acqua, terra, ricchezze minerarie, ecc. Si manifesta nell'incapacità assoluta di provvedere alla loro sicurezza e protezione da malattie e disastri naturali (alluvioni, desertificazione di vaste aree, carestie, ecc.). A tutto ciò si aggiungono le guerre tribali ed etniche, la lotta per il dominio sulle risorse, rese scarse dalla non acquisizione delle più moderne tecniche di produzione e d'organizzazione del lavoro umano. Di fronte ai vari disastri dei quali sono soggetti questi Stati, la comunità internazionale si sente spesso invocata. Essa, dietro la spinta di persone consapevoli del comune destino del genere umano, accorre, interviene ed allevia momentaneamente i mali, ma non li risolve. Non potrebbe, d'altronde. La logica della dipendenza del sistema economico internazionale glielo impedisce. Quella stessa logica fa sì che le forze produttive si dirigano verso laddove le persone pensano sia possibile ottenere impiego, maggiore possibilità di consumo e probabilità di sopravvivenza. Là dove si concentra la ricchezza della terra, nelle aree economicamente privilegiate del globo, dove si produce per il mercato globale la totalità dei beni e dei servizi di cui l'umanità ha bisogno, ma anche di quelli di cui non ha bisogno o che sono addirittura dannosi. Dal grano e dal mais per sfamare le popolazioni africane che muoiono di malnutrizione, sopra terre fertili ed irrigabili, attraversate da fiumi perenni; alla medicina per curare tutte le patologie di questo mondo; dalle automobili ai carri armati; dai macchinari agricoli alle mine ed ai fucili mitragliatori. Quest'enorme concentrazione produttiva e di potere (associato), di tecnologia e di sapere, confluisce in pochi centri la cui missione principale non è certamente di tipo filantropico. Essi oppongono resistenza contro ogni azione che non è diretta ad aumentare il profitto od allargare il campo d'azione del potere di decidere per tutti.
La stessa globalizzazione, che più spesso è sinonimo d'espansione di mercati ed ignora un'estensione ad ogni persona umana del diritto alla felicità, sembra essere nulla più che un sistema di potere in mano a soggetti impersonali (multinazionali e colossi finanziari) senza un briciolo di saggezza. Valga un solo caso come esempio per spiegare sia la poca saggezza sia l'ignoranza (o il disprezzo) del diritto alla vita e, dunque, alla felicità di ogni essere umano: la questione posta dal sistema dei brevetti che le case farmaceutiche imposero contro l'estensione del beneficio dei ritrovati della scienza medica e, dunque, del sapere umano, verso coloro che, loro malgrado, si trovano a vivere in condizioni economiche e sociali che costringono all'esodo le competenze professionali e scientifiche che sarebbero, qualora ciò non fosse accaduto, più direttamente impegnate nel loro benessere e felicità. Se potessero rimanere in loco quelle competenze professionali, le condizioni di indigenza così diffuse oggi in Africa, con molta probabilità sarebbero meno estese. Le instabilità politiche ed il senso di insicurezza ad esse associate, le cattive retribuzioni, la mancanza di incentivi, l'inefficienza dei servizi e delle infrastrutture, tutto l'insieme contribuisce a quest'esodo e scoraggia ogni volontà di ritorno di quelli che ne sono usciti. Oggi, però, solo questi ultimi rappresentano la speranza e costituiscono lo strumento ideale per una rinascita africana. Non gli azzeramenti dei debiti generati da quel sistema, non gli aiuti umanitari d'emergenza. Attraverso di loro è possibile operare un trasferimento di sapere e di tecnologia, da coniugare con la naturale saggezza e la pacifica disposizione d'animo degli africani.

Difficoltà di trasferimento del sapere e delle sue utilizzazioni
C'è stato un periodo, storicamente molto recente, in cui l'avvicinamento culturale dei popoli attraverso il trasferimento dei saperi, delle conoscenze, delle abilità e delle tecniche, avveniva con meno egoismo e più disponibilità umana. Lo facevano anni fa, e bene, i Peace Corps di kennediana memoria; continuano a farlo i Missionari; ci sta provando a farlo, con altri metodi e sistemi, con altra filosofia, il Volontariato europeo. Tutto questo, però, non basta da solo per colmare il gap tecnologico che oggi separa il continente africano dagli altri. Servono programmi di sviluppo sociale, servono mezzi finanziari, ma, soprattutto, è indispensabile coinvolgere gli africani. Questo coinvolgimento dovrebbe interessare due aspetti:
1. Prendere in considerazione, a livello politico, le proposte formulate dagli africani e, insieme loro, elaborare i piani di sviluppo per il continente.
2. Per le iniziative nazionali o sopranazionali, come nel caso dell'Unione Europea, inserire nei progetti della cooperazione allo sviluppo le comunità della diaspora africana.

Quello che risulterebbe, alla fine, è una cooperazione allo sviluppo insieme umano, tecnico-professionale ed economico attraverso la qualificazione e la restituzione delle risorse umane qualificate del continente. Solo così, nella nostra opinione, è possibile realizzare l'obiettivo di uno sviluppo sociale nel continente africano.
Tra tutti i paesi africani in difficoltà economica e politica, se prendiamo la Somalia -ma le cose che diremo riguardono quasi tutti i paesi africani- è evidente come il ruolo dell'Unione Europea sia fondamentale nella soluzione dei problemi economici, sociali e politici del paese. Nell'U. E. vi è attualmente presente un rilevante strumento per il trasferimento di tecnologia e di saperi verso la Somalia. Si tratta degli oltre 120.000 somali che vivono nell'Unione come rifugiati (sotto vario titolo), per lo più giovani e persone con un livello medio/alti di scolarizzazione. Un vero e proprio capitale sociale. La valorizzazione di questa risorsa umana (attraverso l'istruzione e la formazione professionale nell'U. E., da associare a un periodo di lavoro da svolgere nel paese di origine) e la sua finalizzazione al rafforzamento della pacificazione ed alla democratizzazione delle istituzioni del paese (formazione di quadri amministrativi capaci di trasmettere ed utilizzare l'esperienza storica ed istituzionale europea a vantaggio del loro paese) sono un grande fattore di trasformazione e di sviluppo sociale. Inoltre, ciò rafforzerebbe le basi per maggiori interventi sia in campo economico sia nel rispetto dei diritti umani. Da dove cominciare? Si potrebbe partire, ad esempio, dall'istituzione di un centro la cui attività consiste nel:
preparare studi relativi al recupero, all'integrazione ed al potenziamento della risorsa umana rappresentata dai rifugiati somali negli Stati dell'Unione Europea;
preparare quadri tecnico-professionali ed amministrativi per lo sviluppo e per la governance dei processi di democratizzazione;
provvedere, attraverso l'utilizzazione di persone qualificate e già formate, specifiche attività di potenziamento della società civile nei paesi africani.
Nel caso della Somalia, un programma che si poggia su questi due aspetti (bisogni definiti localmente ed interventi che impiegano rifugiati somali in Europa ed in America) può dare soluzione alla questione somala, meglio d'ogni altro intervento. La risoluzione dei conflitti è un aspetto che, per la sua importanza, richiede strumenti qualificati oltre che soggetti adeguati allo scopo dell'estensione dei risultati. Fornire, perciò, ai soggetti interlocutori interni una comune preparazione tecnica di peace-building e personale formato per la governance, costituisce un passo importante verso la ricostituzione dello Stato in Somalia. La sfida è: chi potrebbe essere in grado di attuare un programma di tale portata?


NOTE
(1) Ali Mumin Ahad, "Africa dall'esilio" in Poetiche africane (volume a cura di A. Gnisci), Meltemi Editore, 2002





Ali Mumin Ahad è nato a Beled-Weyne, in Somalia, nel 1958.
Dal 1975 al 1985 responsabile per la biblioteca e per le attività ricreative presso il Centro Culturale Italiano dell’Ambasciata d’Italia a Mogadiscio (Istituto Italiano di Cultura), nel 1984 si è laureato in economia con una tesi sui rapporti economici tra Comunità Economica Europea ed i Paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (A. C. P. ), presso la facoltà di Economia e Commercio dell'Università Nazionale Somala di Mogadiscio. Dal 1984, è stato ricercatore e, successivamente, docente di Economia Internazionale presso la stessa Facoltà di Economia dell'Università Nazionale Somala (Somali National University). Ricercatore in storia coloniale e contemporanea (con particolare attenzione alla storia somala ed alla storiografia coloniale) nonché pubblicista di tematiche inter-culturali, in Italia, oltre a svolgere un'intensa attività di ricerca e collaborazione presso Università ed organismi internazionali, tra il 1992 ed il 2002 ha pubblicato numerosi articoli di analisi sociale e politica, e di dialogo inter-religioso, su riviste, periodici e quotidiani, e i saggi: I peccati storici del colonialismo in Somalia, in "Democrazia e Diritto" (n°4, 1993), Africa dall’esilio, in Poetiche africane (Meltemi ed., Roma 2002).


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