LIBERTÀ
TRANSCULTURALE
Sergio
Paulo Rouanet
Il professor Amartya Sen, premio Nobel per l'economia nel 1998,
è stato recentemente intervistato dal programma "Roda
Viva", della TV Cultura di San Paolo. Alcuni partecipanti
al dibattito hanno sollevato delle obiezioni alla tesi centrale
di Sen, quella dello sviluppo come libertà, argomentando
che la libertà ha poco valore per coloro che vivono in
condizioni di estrema povertà. E' una obiezione antica,
derivante direttamente dalle critiche che da più di due
secoli vengono mosse alle cosiddette "libertà formali".
Rientra tanto nella tradizione questa riserva, che non varrebbe
la pena nemmeno commentarla se, questa, non avesse dato occasione
a Sen di spiegare il suo concetto di libertà. Come egli
ha ben chiarito, non si tratta, solo, di libertà politica,
ma di libertà nell'accezione più ampia, e in questo
senso è perfettamente plausibile dire che la libertà
è al contempo l'obiettivo dello sviluppo, poiché
punta sempre ad una maggior autonomia dell'individuo nella partecipazione
alla vita politica, alle opportunità economiche, all'educazione
e alla salute pubblica e un mezzo per lo sviluppo, poiché
ognuna di queste libertà aiuta a promuovere tutte le altre.
Concetto
condizionato
Vi è tuttavia un'obiezione non conforme alla tradizione
che, negli ultimi tempi, occupa il centro del dibattito e che
non è stata sollevata da nessuno dei partecipanti: quella
secondo cui la libertà è un concetto culturalmente
condizionato, valido solo nell'Occidente, e incapace, come tale,
di servire da criterio universale per definire e misurare lo sviluppo.
Questo argomento è stato ripetutametne esaminato da Sen,
non soltanto nel capitolo decimo del suo libro che è servito
da spunto alla discussione nella traduzione brasiliana, "Sviluppo
come libertà" (Companhia das Letras, 2000), come pure
nella conferenza pronunciata nel 1998 all'Università di
Oxford ("Il primato della ragione sull'identità")
e in un lungo saggio pubblicato nel luglio dello scorso anno dalla
rivista "The New York Review of Books" dal titolo "Oriente
e Occidente - la ragione a portata di mano".
Al centro del dibattito vi è la tesi dei "valori asiatici",
secondo la quale i principi di libertà e tolleranza provengono
dalla cultura individualista dell'Occidente e pertanto non sarebbero
applicabili all'Asia, la cui cultura privilegia valori comunitari,
basati sulla disciplina e sull'unione familiare. Sen mostra che
questa tesi è il risultato della congiunzione di due ideologie,
le quali, apparentemente opposte, sono in realtà complementari:
l'etnocentrismo europeo che rivendica per l'Occidente il monopolio
delle idee liberali, con l'affermazione che esse mai fiorirono
in altre regioni del mondo, e il nazionalismo autoritario dell'Asia,
che accetta questo giudizio, trasformandolo in un valore positivo.
E' ovvio che la tesi dei valori asiatici è invocata solo
dai governi dei paesi autoritari, che con ciò pretendono
di giustificare un regime, e non dai dissidenti, che si accontentano,
modestamente, dei valori universali. Ma la questione è
sapere se questa tesi ha fondamento. La risposta di Sen è
negativa. Gli intellettuali europei costruiscono un'entità
immaginaria chiamata "Oriente" attraverso un esame selettivo
della tradizione asiatica, considerando solo quegli elementi che
più si distanziano dall'immagine che l'Europa ha di sé
stessa. Con ciò, si cristallizza una cultura "esotica",
la cultura orientale, che presumibilmente dà più
valore all'autorità che alla ragione e disconosce i principi
di tolleranza e di mutuo rispetto, che sarebbero, al contrario,
pilastri della civilizzazione occidentale. Mutatis mutandis,
i nazionalisti asiatici accettano questa costruzione. Orbene,
essa è totalmente falsa, perché basata su una selettività
inaccettabile.
Senza dubbio, ci sono stati importantissimi pensatori dell'Occidente
che difesero i valori della ragione e della libertà, come
Aristotele, ma ci sono stati autori ugualmente influenti che avvalorarono
una filosofia autoritaria, come Platone e Sant'Agostino. Diversamente,
ci sono stati filosofi asiatici difensori di posizioni autoritarie,
come Confucio e l'indiano Kautylia (IV sec. a.C.), ma sono numerose
le correnti intellettuali che si batterono per la ragione e per
la tolleranza.
Sempre per restare in India, vi è tutta una letteratura
secolare e agnostica in lingua pali e sanscrito. L'imperatore
Ashoka (III sec. a.C.) sparse per tutto il suo regno editti scolpiti
sulla pietra, proclamando libertà e tolleranza per tutti,
senza escludere le donne e i barbari. Il Gran Mogol Akbar praticò
quattrocento anni fa una politica di neutralità religiosa
da parte dello stato, nello stesso momento in cui Giordano Bruno
(1548-1600) veniva bruciato per eresia a Roma. Nonostante fosse
musulmano, Akbar abolì le misure che discriminavano gli
indù, invitò a corte saggi e artisti indù
ed affidò ad un generale indù il comando delle forze
armate. Akbar scrisse che "la ricerca della ragione e il
rifiuto del tradizionalismo stanno al di sopra di qualsiasi controversia.
Se il tradizionalismo fosse appropriato, i profeti avrebbero solo
ripetuto gli anziani, invece di annunciare un nuovo messaggio".
Valore
universale
La vena secolare di personalità come Gandhi, Nehru e Tagore
forse deriva sia da questa tradizione sia dall'influenza degli
inglesi, che non erano esattamente paladini della visione secolare
del mondo. Anche fuori dall'India ci sono begli esempi di tolleranza.
L'ebreo Maimonides, perseguito dai cristiani spagnoli nel dodicesimo
secolo, trovò rifugio alla corte del sultano musulmano
Saladino. Ancor più vicino a noi, c'è una lettera
del 1526 nella quale il re del Congo comunica al re del Portogallo
che non avrebbe tollerato la schiavitù nel suo regno.
Per questo, ha molto più senso un sistema di classificazione
transculturale, che metta in un campo Aristotele e Ashoka e nell'altro
Platone e Kautylia, piuttosto che un sistema di classificazione
storicistico, stile Samuel Huntington, il quale crede in specificità
civilizzazionatrici irriducibili e non esiterebbe a riordinare
i campi secondo criteri geoculturali.
Se Sen conoscesse meglio la nostra regione, non gli sarebbe stato
difficile trovare difensori irriducibili della tesi dei "valori
latinoamericani". Ho scritto molto su questo tema (si veda
"Elogio dell'incesto", in "Malessere nella Modernità")
e per questo evito di entrare in dettaglio su questo aspetto del
nostro nazionalismo culturale. Sottolineo solo che, come nel caso
dei "valori asiatici", si tratta di una posizione di
destra, sotto le spoglie di un atteggiamento progressista. Durante
il regime militare, molti dei nostri generali dicevano che la
democrazia e i diritti umani erano valori dei paesi sviluppati,
che nulla avevano a che vedere con la "realtà brasiliana".
Lungi dall'essere un'ideologia occidentale, la dottrina dei diritti
umani serve per condannare lo stesso Occidente, le cui politiche
imperialiste violano il più elementare dei diritti dell'uomo,
il diritto di costruire il proprio destino.
Sí, la libertà è un valore universale, per
parodiare il titolo di un libro di Nelson Coutinho, scritto in
una prospettiva marxista. Amartya Sen è lontano dall'essere
marxista, ma è erede di una tradizione universalista che
influenzò lo stesso Marx, quella dell'economia politica
inglese. Sen fa molto bene a mantenersi fedele a questa tradizione,
rifiutandosi di accettare l'argomentazione politicamente reazionaria
di coloro che considerano la libertà un concetto di validità
limitata a una cultura specifica. Nel senso integrale che gli
ha dato Sen, la libertà è più della fine
dello sviluppo, e più di un mezzo per lo sviluppo, è
anche un parametro critico che permette di valutare i modelli
di sviluppo esistenti.
E' di fronte a questo tribunale che il processo di sviluppo attualmente
in corso in Brasile deve giustificarsi. Sarebbe increscioso se
gli avvocati del reo riuscissero a strappare la sospensione di
giudizio, allegando che il libello d'accusa si basa su un concetto
estraneo alla realtà brasiliana: quello della libertà.
(Traduzione
dal portoghese di Cristiana Sassetti)
L'autore, Sergio Paulo Rouanet.
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