LA
CULTURA È IN PERICOLO
Pierre
Bourdieu
Da
tempo mi sono messo in guardia dalla tentazione profetica e dalla
pretesa degli specialisti delle scienze sociali dall'annunciare,
per denunciare, i mali presenti e futuri. Ma, a poco a poco, mi
sono trovato, condotto dalla logica del mio lavoro, ad oltrepassare
i limiti che mi ero imposto, in nome di un'idea di dignità
della mia professione che mi è apparsa, piano piano, come
una forma di censura. E' così che, oggi, davanti alle minacce
che pesano sulla cultura, e che sono ignorate dalla maggior parte
delle persone, ma anche, molto spesso, dagli scrittori, dagli
artisti, e dagli stessi eruditi, comunque i primi ad esserne interessati,
io credo necessario far conoscere, più ampiamente possibile,
quello che mi sembra essere il punto di vista della ricerca più
avanzata sugli effetti che i processi, definiti di mondializzazione,
possono avere in materia di cultura.
L'autonomia
minacciata
Ho
descritto e analizzato (in particolar modo nel mio libro intitolato
"Le regole dell'arte") il lungo processo di autonomizzazione
alla fine del quale si sono costituiti, in un certo numero di
paesi occidentali, questi microcosmi sociali che io definisco
campi, campo letterario, campo scientifico o campo artistico:
ho dimostrato che questi universi obbediscono a delle leggi che
gli appartengono (è il senso etimologico del termine "autonomia")
e che sono diverse da quelle del mondo sociale circostante (specialmente
sul piano economico, per esempio, il mondo letterario o artistico
essendo largamente affermato, per lo meno nel suo settore più
autonomo, quello della legge dei soldi e dell'interesse). Ho anche
sempre insistito sul fatto che questo processo non aveva niente
a che vedere con un tipo di sviluppo lineare e orientato di tipo
hegeliano e che i progressi verso l'autonomia potevano essere
interrotti, improvvisamente, come si è potuto vedere, con
l'instaurazione, in Germania, in Spagna o particolarmente in Russia,
dei regimi dittatoriali, capaci di espropriare gli universi artistici
delle loro conquiste passate. Ma ciò che accade oggi, nella
totalità dei paesi sviluppati, negli universi di produzione
artistica, è qualcosa di assolutamente nuovo, e davvero
senza precedenti: infatti l'indipendenza, difficilmente conquistata,
della produzione e della circolazione culturale nei confronti
delle necessità dell'economia, si ritrova minacciata, nel
suo stesso principio, dall'intrusione della logica commerciale
a tutti i livelli della produzione e della circolazione dei beni
culturali.
I profeti del nuovo vangelo neo-liberale professano che in materia
di cultura, come in altri campi, la logica del mercato non può
apportare che dei benefici. Dichiarano, così, incompetente
la specificità dei beni culturali, sia in maniera tacita,
che in maniera esplicita, come riguardo il libro, per cui rifiutano
ogni specie di protezione, affermano, per esempio, che le novità
tecnologiche e le innovazioni economiche che ne derivano, non
potranno far altro che accrescere la quantità e la qualità
dei beni culturali offerti, quindi la soddisfazione dei consumatori,
a condizione che, evidentemente, tutto ciò che i nuovi
gruppi di comunicazione fanno circolare, libri, film, quiz televisivi,
globalmente e indifferentemente accomunati sotto nome di informazione,
sia ritenuto come una merce qualsiasi, ossia trattata come un
prodotto qualunque, perciò sottomessa alla legge del profitto.
In questa maniera l'abbondanza legata alle moltiplicazioni delle
catene televisive numerate a tema dovrebbe coinvolgere, io cito,
una "explosion of media choices" (esplosione di scelte
mediatiche) tale che tutte le domande, tutti i gusti saranno soddisfatti;
la concorrenza, in questo dominio, come altrove, dovrebbe, per
sua stessa logica, favorire la creazione; la legge del profitto
sarebbe, anche in queste materie, democratica; dal momento che
approva i prodotti eletti dalla maggioranza.
A cosa servono questi argomenti? Alla mitologia della scelta si
può contrapporre la totalità dell'offerta, sia su
scala nazionale che internazionale: la concorrenza, lontana dal
diversificare, omogeneizza, dal momento che la ricerca del sommo
pubblico conduce i produttori a ricercare (in particolar modo
copiandosi a vicenda) dei prodotti universali, validi per un pubblico
di ogni luogo e di ogni nazione, perché poco diversificati
e diversificanti; telenovele, soap opera, serie poliziesche, musica
commerciale, teatro di strada o di Broadway, settimanali pieni
di pubblicità, ossia l'insieme di ciò che potremmo
chiamare la "cultura MacDonald's". Inoltre, la concorrenza,
che implica un minimo di differenza, non smette di regredire con
la concentrazione della macchina di produzione e soprattutto,
forse, di diffusione. L'integrazione verticale dei gruppi favorisce
la subordinazione della produzione alla diffusione (è l'esempio
dei cinema Multischermo, completamente sottomessi agli imperativi
dei distributori), che impone una vera censura con i soldi (si
sa la situazione paradossale dei paesi anticamente "comunisti"
dove la censura di un potere autocratico è stato rimpiazzato
da una censura, ugualmente terribile, dei soldi). Ma soprattutto,
l'esclusivo dominio della logica economica tende ad imporre all'intero
sistema gli imperativi del profitto a breve scadenza e le corrispondenti
scelte estetiche. Le conseguenze di una tale politica sono esattamente
le stesse nel campo dell'editoria, dove si nota una forte concentrazione
(almeno negli Stati Uniti, il commercio del libro, eccetto due
editori indipendenti, W.W Norton e Houghton Mifflin, alcune stampe
universitarie e alcuni piccoli editori battaglieri, è nelle
mani di otto grandi corporazioni mediatiche), la stessa influenza
della distribuzione sulla produzione, la stessa ricerca di profitti
a breve termine (con, tra le altre cose, l'invasione delle stars
dei mass media tra gli autori e la censura per colpa dei soldi).
Come non accorgersi che la logica del profitto, soprattutto a
breve termine, è la negazione stretta della cultura, che
presuppone degli investimenti a fondo perduto, dedicati a dei
ritorni incerti e molto spesso postumi?
Come quelle specie animali che sono in pericolo perché
le condizioni ecologiche per la loro sopravvivenza si sono trasformate
o sono state distrutte, la cultura è minacciata perché
le condizioni economiche e sociali, in cui si può sviluppare,
sono profondamente minacciate dalla logica del profitto. I microcosmi,
relativamente autonomi, all'interno dei quali si produce la cultura,
devono assicurare, in concomitanza con il sistema scolastico,
la produzione dei prodotti e dei consumatori. I pittori hanno
impiegato circa cinque secoli per conquistarsi il diritto di scegliere
i colori da impiegare, il modo in cui impiegarli e anche, infine,
specialmente con l'arte astratta, il soggetto stesso, sul quale
pesava particolarmente il potere del committente; alla stessa
maniera, non si finirebbe mai di enumerare le condizioni che devono
essere rispettate affinché si presentino delle opere cinematografiche
di ricerca e un pubblico che le apprezzi; per non parlare poi
delle riviste specializzate e dei critici che le mantengono in
vita, delle piccole sale che proiettano dei film d'arte, dei cine-clubs
animati da dei presentatori, spesso i più servizievoli,
dei cineasti pronti a sacrificare tutto per fare dei film senza
successo immediato, dei produttori abbastanza informati e acculturati
per finanziarli, in breve, tutto questo microcosmo sociale all'interno
del quale il cinema d'avanguardia è riconosciuto, che ha
del valore, e che oggi è minacciato dall'irruzione del
cinema commerciale e soprattutto dal dominio dei grandi distributori,
con i quali i produttori, (quando non sono loro stessi distributori),
devono misurarsi.
Risultato di un lungo processo d'emergenza, di evoluzione, oggi
questi universi autonomi sono entrati in un processo di involuzione:
sono il punto iniziale di una regressione dell'opera verso il
prodotto e dell'autore verso l'ingegnere o verso il tecnico che
mettono in gioco delle risorse professionali che loro stessi non
hanno inventato, come i famosi effetti speciali, o le dive illustri,
celebrate dai giornali a grande tiratura, e adatte ad attirare
il grande pubblico, poco preparato per apprezzare le ricerche
specifiche, specialmente formali. E soprattutto, devono mettere
questi mezzi estremamente costosi al servizio di fini puramente
commerciali, ossia organizzarli in maniera quasi cinica, con l'intento
di sedurre il più gran numero possibile di spettatori soddisfacendo
le loro pulsioni primarie,- e che altri tecnici, gli specialisti
in marketing, cercano di prevedere. È cosi che si vede
apparire anche, in ogni universo (ne potremmo trovare degli esempi
nel campo del romanzo come in quello del cinema), delle produzioni
culturali false, che possono arrivare perfino a imitare le ricerche
dell'avanguardia giocando sulle forze più tradizionali
delle produzioni commerciali, come la violenza e il sesso, che,
per la loro ambiguità, possono indurre i critici e i consumatori
a pretese moderniste grazie ad un effetto allodossia.
La scelta non è, come si può vedere, tra la "mondializzazione",
intesa come la sottomissione alle leggi del commercio quindi al
regno del "commerciale", che è sempre e comunque
il contrario di ciò che si intende per cultura, e tra la
difesa delle culture nazionali o quella forma particolare di nazionalismo
culturale. I prodotti kitsch della "mondializzazione"
commerciale, quella del film di grande spettacolo e ad effetti
speciali, o quella ancora della "world fiction" in cui
gli autori possono essere italiani, indiani o inglesi come pure
americani, si oppongono, sotto tutti gli aspetti, ai prodotti
della letteratura internazionale, artistica e cinematografica,
cerchio scelto dove il centro è ovunque e da nessuna parte,
anche se è stato situato per lungo tempo a Parigi. Come
ha dimostrato Pascale Casanova nella Repubblica delle lettere,
L' "internazionale snazionalizzata dei creatori", i
Joyce, Faulkner, Kafka, Beckett o Gombrowicz, prodotti puri dell'Irlanda,
degli Stati Uniti, della Cecoslovacchia o della Polonia ma che
sono stati fatti a Parigi, o i Kaurismaki, Manuel de Oliveira,
Satyajit-Ray, Kieslowsky, Kiarostami, e molti altri, cineasti
contemporanei di tutti i paesi, che ignorano superbamente l'estetica
di Hollywood, non sarebbero mai potuti esistere e sussistere senza
una tradizione internazionale d'internazionalismo artistico e,
più precisamente, senza il microcosmo di produttori, di
critici e di esperti recettori che è necessario per la
sua esistenza, che, costituita da molto tempo, è riuscita
a sopravvivere, in alcuni luoghi risparmiati dall'invasione commerciale.
Per
un nuovo internazionalismo
Questa
tradizione d'internazionalismo specifico, propriamente culturale,
s'oppone radicalmente, malgrado le apparenze, a ciò che
definiamo la "globalizzazione". Questa parola, che funziona
come una parola chiave e d'ordine, è effettivamente la
maschera giustificatrice di una politica tesa a universalizzare
gli interessi e la tradizione delle potenze economicamente e politicamente
dominanti, in particolar modo gli Stati Uniti, e ad espandere
al mondo intero il modello economico e culturale più favorevole
a tali potenze, presentarlo contemporaneamente come una norma,
un dover essere, e come una fatalità, un destino universale,
in modo da ottenere una adesione o, almeno, una rassegnazione
universale. Ossia, in materia di cultura, a rendere universali,
imponendole al mondo intero, le particolarità di una tradizione
culturale nella quale la logica commerciale ha conosciuto il suo
pieno sviluppo. (E, infatti, ma sarebbe troppo lungo farne la
dimostrazione, la forza della logica commerciale si attiene al
fatto che, presentando delle arie di modernità progressista,
non è altro che l'effetto di una forma radicale del lasciar-fare,
caratteristica di un ordine sociale che si abbandona al suo più
grande declivio, alla legge del minor sforzo, ossia alla logica
quasi naturale dell'interesse egoista e del desiderio immediato,
trasformato in fonte di profitto, contro la quale, come osservava
Durkheim, l'idea stessa di cultura si costruisce come una forma
di ascetismo, di rifiuto della sottomissione ai bisogni primari
e istantanei. E'così che i campi di produzione culturale
che si sono fondati molto progressivamente e, al prezzo di immensi
sacrifici, sono profondamente vulnerabili davanti alle forze della
tecnologia associata con le forze dell'economia; infatti, quelli
che, all'interno di detti campi, possono accontentarsi di piegarsi
alle esigenze della domanda e trarne i profitti economici o simbolici,
sono sempre, per definizione, temporaneamente meno numerosi e
meno influenti di coloro che lavorano senza la minima concessione
a qualsiasi forma di domanda, ossia per un mercato che non esiste).
Quelli che restano attaccati a questa tradizione d'internazionalismo
culturale, artisti, scrittori, ricercatori, ma anche editori,
direttori di gallerie, critici di ogni paese, oggi devono mobilitarsi,
in un momento in cui le forze dell'economia tendono, per loro
stessa natura, a sottomettere la produzione e la diffusione culturale
alla legge del profitto immediato, riscontrano un rinforzo considerevole
nelle politiche dette di liberalizzazione che le potenze economicamente
e culturalmente dominanti mirano a imporre universalmente sotto
il nome di "globalizzazione". Io mi riferisco, in particolare,
all'Accordo generale del commercio dei servizi (AGCS), sottoscritto
da diversi stati che hanno rappresentanza nell'Organizzazione
mondiale del commercio (OMC) e di cui la messa in pratica è
attualmente in corso di negoziazione. Si tratta, in effetti, d'imporre
ai 136 stati membri l'apertura di tutti i servizi alle leggi del
libero scambio, rendendo così possibile la trasformazione
in merce e in fonti di profitto tutte le attività di servizio,
comprese quelle che rispondono a quei diritti fondamentali che
sono l'educazione e la cultura. Sarebbero state compromesse, chiaramente,
anche la nozione di servizio pubblico e di esperienze sociali
così decisive come l'accesso di tutti all'educazione gratuita
e alla cultura nel senso ampio del termine (dal momento che il
provvedimento è censito per essere applicato anche, a favore
di una ritrattazione delle categorie di classificazione in vigore,
a dei servizi come quello audio-visivo nella loro totalità,
alle biblioteche, agli archivi e ai musei, ai giardini botanici
e zoologici e a tutti i servizi legati ai divertimenti, all'arte,
al teatro, alla radio e televisione, allo sport, ecc...). Come
non accorgersi che un tale programma, che intende trattare come
degli "ostacoli al commercio" le politiche nazionali,
intente a salvaguardare le proprie particolarità culturali
e nazionali, e di fatto a costituire degli impacci per le industrie
culturali transnazionali, non può avere altro effetto che
quello di proibire alla maggior parte dei paesi, e in particolare
ai meno dotati di risorse economiche e culturali, qualsiasi speranza
di uno sviluppo adeguato delle particolarità nazionali
e locali e il rispetto delle diversità, in materia culturale
come in tutti gli altri domini? Così, chiaramente impone
loro di sottomettere tutte le misure nazionali, le regolamentazioni
interne, le sovvenzioni alle fondazioni o alle istituzioni, licenze,
ecc.., alle ragioni di una organizzazione che cerca di confrontare
gli andamenti di una norma universale con le esigenze delle potenze
economiche transnazionali.
Una tale politica, che sa mettere al servizio degli interessi
economici le risorse intellettuali che i soldi permettono di mobilizzare,
come i think tank che raggruppano pensatori e ricercatori di servizio,
giornalisti e specialisti delle relazioni pubbliche, dovrebbe
suscitare la mobilizzazione unanime di tutti gli artisti, gli
scrittori e i sapienti più attaccati ad una ricerca autonoma,
di cui, anche se non lo sanno chiaramente, sono le vittime designate.
Ma, oltre al fatto che non hanno sempre i mezzi per accedere alla
coscienza e alla conoscenza dei meccanismi e delle azioni che
concorrono alla distruzione del mondo, al quale la loro stessa
esigenza è legata, sono poco preparati, per il loro attaccamento
viscerale e sommamente giustificato, all'autonomia, specialmente
nei confronti della politica, a impegnarsi sul terreno della politica,
sia anche per difendere la loro autonomia. Pronti a mobilizzarsi
per delle cause universali, di cui l'eterno paradigma è
rappresentato dall'azione di Zola a favore di Dreyfus, sono meno
disposti a impegnarsi nelle azioni che, avendo per oggetto principale
la difesa dei loro interessi più specifici, sembrano loro
segnate da una sorta di egoista corporatismo. Ottengono che, difendendo
gli interessi più direttamente legati alla loro stessa
esistenza, (per delle azioni come quelle che i cineasti francesi
hanno tracciato contro l'AMT- Accordo Multilaterale sugli investimenti-),
contribuiscono così alla difesa dei valori più universali
che, per mezzo di loro, sono direttamente minacciati.
Le azioni di questo tipo sono rare e difficili: la mobilitazione
politica, per cause che vanno al di là degli interessi
corporativi di una specifica categoria sociale, camionisti, impiegati
di banca o cineasti, ha sempre richiesto molti sforzi e molto
tempo, a volte, molto eroismo (basta, per convincersene, leggere
The Making of English Working Class, di E.P Thompson). Oggi i
"bersagli" di una mobilitazione politica sono estremamente
astratti e molto lontani dall'esperienza quotidiana dei cittadini,
anche colti: le grandi aziende multinazionali e i loro consigli
di amministrazioni internazionali, le grandi organizzazioni internazionali,
OMC, FMI e banche mondiali dalle molteplici suddivisioni designate
da sigle e da acronimi complicati e spesso impronunciabili, e
tutte le realtà corrispondenti, commissioni e comitati
di tecnocrati non eletti, poco conosciuti dal grande pubblico,
in breve, tutto questo governo mondiale, che si è da qualche
anno istituito e il cui potere viene esercitato sugli stessi governi
nazionali, è un organo che passa inosservato e rimane sconosciuto
alla maggior parte della gente. Questa specie di Grande Fratello
invisibile, che si è dotato di collegamenti con tutte le
istituzioni economiche e culturali, è già là,
che agisce, efficiente, che decide su ciò che noi potremo
mangiare o non mangiare, leggere o non leggere, vedere o non vedere
alla televisione o al cinema, e così via, mentre i pensatori
più ispirati sono ancora al punto, nel migliore dei casi,
di cullarsi con le speculazioni irreali su dei progetti di Stato
universale, alla maniera dei filosofi del XVIII secolo.
Attraverso il dominio quasi assoluto che detengono sui nuovi strumenti
di comunicazione, i nuovi padroni del mondo tendono a concentrare
tutti i poteri, economici, culturali e simbolici, e sono anche
fortemente in grado di imporre una visione del mondo conforme
ai loro interessi. Nonostante non siano propriamente i produttori
diretti a parlare, e le impressioni che danno nelle dichiarazioni
pubbliche dei loro dirigenti non siano tra le più originali
o le più sottili, i grandi gruppi di comunicazione contribuiscono,
per una decisiva parte, alla circolazione quasi universale della
doxa invadente e insinuante del neo-liberalismo, di cui dovremmo
analizzare dettagliatamente la retorica: accertamenti normativi
(del tipo "l'economia si mondializza, bisogna mondializzare
la nostra economia"; "le cose cambiano molto velocemente,
bisogna cambiare"), "deduzioni" così perentorie
come abusive ("se il capitalismo si espande ovunque, significa
che è iscritto nella profonda natura dell'uomo"),
tesi "economiche" infalsificabili ("è creando
della ricchezza che si crea del lavoro", "molte tasse
uccidono la tassa", formula che, per i più istruiti,
può raccomandarsi nella famosa curva di Laffer, di cui
un altro economista , Roger Guesnerie, ha dimostrato, - ma chi
lo sa?,- che è indimostrabile...), evidenze così
indiscutibili per cui è la discussione stessa un problema
per coloro che la enunciano ("Lo Stato-Provvidenza e la sicurezza
del lavoro appartengono al passato"; e "Come possiamo
ancora difendere il principio del servizio pubblico?"), paralogismi
spesso teratologici (del tipo "più mercato, significa
più uguaglianza" o "l'egualitarismo condanna
milioni di persone alla miseria"), eufemismi tecnocratici
("ristrutturare le imprese" per dire licenziare), e
tante nozioni o locuzioni già fatte, semanticamente pressappoco
indeterminate, banalizzate ed educate dall'usura di un lungo uso
automatico, che funziona come delle formule magiche, instancabilmente
ripetute per il loro valore incantatore ("sregolatezza",
"disoccupazione volontaria", "libertà di
scambio", "libera circolazione di capitali", "competitività",
"creatività", "rivoluzione tecnologica",
"crescita economica", "combattere l'inflazione",
"ridurre il debito dello stato", "abbassare i costi
del lavoro", "ridurre le spese sociali"). Questa
doxa imposta da un effetto di sviluppo continuo analogo a quello
che esercitano i sistemi pedagogici più invadenti, come
quello dei Gesuiti, finisce col presentarsi con la tranquilla
forza delle evidenze indiscutibili. Coloro che si impegnano a
combatterla non possono contare, nei campi stessi della produzione
culturale, né sul giornalismo strutturalmente solidale
(che non esclude delle eccezioni) delle produzioni e dei produttori
più direttamente orientati verso la diretta soddisfazione
del più vasto pubblico, né, inoltre, sugli "intellettuali
mediatici", che, preoccupati, prima di tutto del successo
temporale, devono la loro esistenza alla loro sottomissione alle
attese del mercato, e che possono, in certi casi estremi, ma anche
particolarmente rivelatori, vendere sul terreno del commercio
l'idea stessa d'avanguardia che si è costituita contro
di lui. E'come dire che la posizione dei più autonomi produttori
culturali, poco a poco spogliati dei loro mezzi di produzione
e soprattutto di diffusione, non è senza dubbio mai stata
così minacciata e così debole, ma anche così
rara, utile e preziosa.
(Traduzione
dal Francese di Samanta Catastini)
Pierre Bourdieu, filosofo francese tra i più grandi del
secolo, da sempre impegnato politicamente nelle cause libertarie,
e scomparso recentemente, è autore, tra altri, di La
distinction, La genesi e la struttura del campo artistico,
Sur la télévision e Ce que parler veut
dire e Indirizzo ai padroni del mondo.
..
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