ADWA
Armando Gnisci
Può un europeo occidentale, per giunta cittadino di un
paese che è stato in Africa da colonialista come l'Italia,
concepire, covare ed infine esprimere una poetica africana?
Che tipo, o esempio o singolo euroccidentale? A che pro? Per sentirsi
meglio, o per farsi del male? E da dove potrebbe muovere il suo
discorso? E come, e perché, verrebbe a formarsi? E quale
azione potrebbe, o dovrebbe, diventare? africana a basta? Migrando
verso il continente nero senza tornare? O avanzerebbe in una avventura
creola, meticcia e anfibia, di doppia vita? E sarebbe una poetica
africana tra altre poetiche (una poetica da viaggio, o una ad
hoc per poter parlare di Africa in maniera originale?) quella
che un letterato italiano potrebbe elaborare, o una poetica
estrema, proprio e in quanto africana?
Rispondo.
Frantz Fanon ha disegnato e vissuto la poetica della decolonizzazione
per il colonizzato dai coloni europei. Sartre ha provato a pensare,
insieme a lui, la decolonizzazione dalla parte bianca.
Ha cominciato a pronunciare, per la prima volta in Europa, al
di là del relativismo culturale e della carità cristiana,
il dettato della decolonizzazione degli europei. Tutto questo,
però, è finito alla morte da giovane di Fanon, quaranta
anni fa.
Se il colonizzato per decolonizzarsi, come ci ha insegnato Fanon,
deve ribellarsi contro chi lo ha disumanizzato e rispondere
con la violenza alla "civilizzazione" europea, il colono-disumanizzatore,
se è un umanista e letterato, deve cercare il proprio modo
responsabile di corrispondere alla condizione passata e presente
del continente che ha devastato con la sua civilizzazione. All'Africa
(cosiddetta) post-coloniale non è stato permesso di alzare
la testa tra i mondi e di riprendere ad avanzare nella libera
ri-cerca del proprio moto. A me europeo sembra che solo
attraverso la letteratura e la musica gli africani hanno potuto
elaborare il valore di frontiera avanzata del più liberamente
umano del loro continente: la traccia infinita e intrecciata del
dolore e della speranza, entrambi portati avanti. Più
avanti di qualsiasi altra comunità civile, perché
avanzante nel massimo pericolo.
Sostengo che la via dell'europeo - o, almeno quella che io ho
tracciato per me e per chi voglia seguirla - è quella dell'ascesi
e dell'oltranza. Ascesi significa: scorticare il colono intellettuale
che è in noi euroccidentali, come diceva Sartre. Oltranza
significa difendere, fino al rischio della propria identità,
l'Africa come la terra dell'estremamente umano, dall'attacco
contro la specie che una parte della specie, quella ricca cinica
e minoritaria, conduce sul suo continente sfruttato e abbandonato:
uno degli esperimenti - il più massiccio, ma invisibile
- del disumano a venire; andare a scuola dagli africani:
scuola del sapere e della cura, del ben vivere e dell'amore, della
danza e del colloquio che canta.
Per questa strada un umanista e letterato euroccidentale costruisce
una poetica africana, imprevedibile e sana, e può insegnarla
e diffonderla.
Fino
a qui riesco a pensare. Poi preferisco fare un gesto e pronunciare
un proclama gridando:
Se fossi vissuto da giovane alla fine del XIX secolo mi sarei
dedicato a diventare un "traditore della patria" italiana.
Sarei andato in Etiopia per combattere dietro le insegne di Menelik
e della regina Taitù a Adwa! [Riconosco che questa
"esternazione" potrebbe anche essere una innocua dichiarazione
di saudade storica, o essere presa come una stravaganza
anarchica e "terzomondista"].
Dirlo oggi, per ieri e per oggi, è una sfida ancora
attuale in Italia: un paese che ha colonizzato diverse nazioni
africane, ma che non ha ancora aperto la propria autocritica post-coloniale.
Dirlo significa anche farsi d'Africa, del suo moto proprio,
partecipare di quel suo senso del futuro, che risana l'amputazione
del passato rilanciandosi nell'avvenire dell'umano. Che
vuol dire: non in quello del dominio della ricchezza cinica
e della tecnologia armata. Noi euroamericani siamo convinti di
vivere nel migliore dei mondi reali, la nostra corda utopica è
tagliata e muta, tirano solo quelle corde che fanno risuonare
le campane della sopraffazione e del progresso. Gli africani,
invece, sperano: che il loro futuro sia migliore. Hanno
davanti lotta, desiderio e avventura, rischio, sogni e opere:
e migliorano, per loro stessi e per noi. Anche se sembra
il contrario. In effetti, non possono che migliorare, che fare
e andare verso il meglio, anche se stanno nel Peggio e vengono
minacciati di annientamento dalla selezione terminale pilotata
dai popoli che comandano e governano il destino della specie.
[Questa è una poetica di decolonizzazione e di rivolta:
è un punto di senso della trascendenza/oltranza al quale
l'ascesi ha fatto da preparazione; ed è propria, elettiva
e doverosa di un letterato (uno storico sarebbe accusato di impazzimento,
se non di peggio, un filosofo di perdita di identità professionale
[europea])].
Dopo la difficile, ma esaltante, pronuncia del grido resta tanto
da fare. Per salvarsi l'un l'altro, come diceva il filosofo
epicureo Filodemo di Gadara, appena prima dei due millenni cristiani:
ma secondo la nostra - di noi-insieme, ex-coloni ed ex-colonizzati,
entrambi e reciprocamente decolonizzatisi - poetica africana
del futuro.
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