LA BENEDIZIONE DELLE ACQUE

Colin Thubron


Fuori della grande e sgraziata cattedrale di Omsk, che ai tempi di Stalin era stata trasformata in un cinema, mi imbattei in una comitiva di pellegrini in partenza per un monastero rurale. Mi accettarono di buon grado a bordo del pullman. Erano appena state gettate le fondamenta del monastero, dissero, e loro avrebbero partecipato alla benedizione delle acque. Nel 1987, in quel sito - vicino alla fattoria statale di Recnoj - una scavatrice portò alla luce una fossa comune, e il posto si rivelò un complesso di campi di lavoro abbandonati dopo la morte di Stalin. I reclusi, per lo più appartenenti all'intelligencija, erano morti di polmonite e di dissenteria, contratte lavorando i campi, e le loro tombe ne abitavano ancora il terreno.
Mentre il nostro pullman sfrecciava attraverso villaggi sgangherati, i pellegrini riferivano la storia con mormorii di pietà materna. Erano per la maggior parte donne anziane, indistruttibili babuški con vestiti a fiori stampati e scarpe di tela, le cui mani nodose erano chiuse su libri di preghiera e rosari, e i cui fazzolettoni incorniciavano facce di gioviale durezza. Quando dalla prima fila un cantore dall'espressione impertinente prese a intonare un inno, le loro voci si levarono in risposta una dopo l'altra, come vecchie memorie, sgorgando acute e melodiose dai loro corpi pesanti, finché l'intero pullman non si riempì del loro canto.
Raggiungemmo un boschetto di betulle presso la fattoria Recnoj. Si rivelò un posto di campagna come tanti che nascondono una strana, inattesa atmosfera cupa. Mentre le donne scendevano, sempre cantando, la melodia di altri canti echeggiò da una cappella oltre gli alberi. Era il primo dei quattro santuari che un giorno avrebbero delimitato gli angoli di un immenso complesso. Al suo interno, un coro velato di bianco cantava melodiosamente le tristi scansioni della liturgia. Quando i pellegrini si recarono davanti alle loro icone predilette, una selva incandescente di candele votive spuntò dietro l'iconostasi, e due o tre babuški si misero in ginocchio, tremanti.
Nel transetto sud, ingabbiato nelle impalcature, un affresco della deposizione dalla croce incombeva sopra di noi. Era quasi terminato, ma i colori della carne mancavano ancora, quasi l'artista fosse timoroso di accostarsi troppo alla divinità, e vasetti di pigmento erano allineati sul ponteggio. Così solo gli indumenti dipinti dei discepoli trasmettevano il loro dolore, mentre le mani e i volti erano sagome vuote sull'intonaco: qui un viso contratto per lo sgomento, lì una vacua carezza sul corpo non dipinto di Cristo, il quale restava una lacuna spettrale, il frutto dell'immaginazione di chi guardava.

Ogni tanto avevo la bizzarra sensazione che questa scena riecheggiasse nella navata in cui mi trovavo, dove, intorno al grande silenzio lasciato da Dio, i fedeli sollevavano la testa e le mani, si facevano il segno della croce e si asciugavano qualche lacrima.
Dall'esterno giungeva il fragore lontano di bulldozer nella campagna. Stavano spianando il terreno dei campi di lavoro, per trasformarli nelle fondamenta del monastero. Tesi l'orecchio per catturarne i suoni, ma il nostro canto li annegava nei dolenti decrescendo del rito russo. E dalle bocche di queste donne antiche - i cui peccati, immaginai, non andavano al di là di qualche pettegolezzo malizioso - si levava la colpa originaria senza fine, "Oh, Signore, perdonaci", ripetuto in continuazione, come se provenisse da un recesso profondo della psiche nazionale, il bisogno di chi è rimasto senza alcun aiuto.
Le tende del santuario si aprivano su una nuvola d'incenso, abitata da un piccolissimo prete. I suoi capelli arruffati luccicavano spettrali, come una parrucca della Restaurazione, disperdendosi sulle spalle coperte da un paramento violetto. Di tanto in tanto un braccio agitava debolmente un turibolo; nel silenzio tra un responsorio e l'altro, le braci facevano un rumore simile a una risata repressa. Quando intonava una preghiera, il prete regolarmente si dimenticava le parole o perdeva il segno, e il suo canto si faceva confuso; allora tre diaconi in abiti talari color lampone gli suggerivano i responsori passandogli foglietti di carta. Lui si sbirciava attraverso enormi occhiali incastrati nei capelli come gli occhi di un lemure, e ci riprovava. Ma la causa del suo panico era evidente: accanto a lui, immobile e gigantesco, troneggiava Feodosij, arcivescovo di Omsk.
Verso mezzogiorno, dalla chiesa partì una processione che attraversò i pascoli alla volta delle acque da benedire. Si muoveva in un corteo strascicato e disordinato. Dietro le croci sollevate, le cui placche dorate traballavano sconnesse, avanzava l'arcivescovo in una vampa rossa e turchese, la corona sferica tempestata di pietre preziose. Scandiva ogni passo con un bastone dalla testa di drago; sul suo petto scintillavano decorazioni a sbalzo dorate e color porpora, e una cascata di croci smaltate. Accanto gli camminava l'officiante, scarmigliato e con un aspetto d'altri tempi, e dietro saltellava una folla di giovani preti in malva, e il trio di diaconi nelle vesti di seta color lampone.
Mi unii alla coda di pellegrini. Agnostico in mezzo ai fedeli, provavo uno strano conforto. Mi sentivo vicino a loro. Anch'io desideravo che le loro acque fossero benedette. Desideravo che quella terra tormentata trovasse la pace, che il passato venisse compreso e assolto. Aiutai la vecchietta accanto a me a portare le sue bottiglie. La mia sensazione di ipocrisia, dovuta al fatto che mi stavo mascherando con la fede degli altri, svanì. Quando le presi in braccio per farle attraversare alcune pozzanghere, mentre la processione si allungava nell'erba bagnata, mi parve che il passato di ateismo della Russia non fosse stato altro che una giornata di maltempo nella lunga estate ortodossa. Tutto il paese sembrava tornare istintivamente, e in modo indolore, alla sua antica natura. Sentivo che questo cerimoniale di peregrinazione non nasceva da una rivoluzione evangelica, ma era un semplice riflusso culturale nella personalità senza tempo della madrepatria: la fede gerarchica e semimagica propria degli avi, il naturale modo d'essere russo.

L'avevo già notato. Spesso gli aeroporti, le stazioni degli autobus e i mercati erano piantonati da una babuška che vendeva stampe di icone e opuscoli religiosi, sollecitando offerte per il restauro della chiesa o della cattedrale locale. Immagini sacre penzolavano dal cruscotto dei taxi, erano appesi alle pareti di casa. Dio era rientrato nel vocabolario, nei gesti dei mendicanti che facevano il segno della croce per le strade. Nella lontana Mosca, la Chiesa si stava arricchendo con le concessioni sull'importazione di alcool e sigarette esenti da imposte; mentre qui in Siberia, terra per tradizione indipendente ma conservatrice, questo abbraccio corruttore tra Chiesa e Stato stava finanziando (così pensai) la costruzione del monastero. Intanto la croce ondeggiava e sfavillava fiduciosa tra le betulle. Come sempre da queste parti, l'autorità era la salvezza. E se non favoriva la riflessione, dava la pace.
Ma dopo lo iato comunista, Dio che cosa era diventato? Non era vecchissimo, adesso? E non aveva perso troppi figli? In una strada oltre gli alberi, un gruppo di ragazzi e ragazze ci guardavano dalle loro auto parcheggiate, senza espressione, come turisti che assistono a qualcosa di strano.
Come erano sopravvissuti questi devoti? Per sessant'anni in Siberia non era rimasta aperta pressoché nessuna chiesa; i preti erano stati privati di tutto, esiliati o fucilati. Persino i più anziani tra i pellegrini che arrancavano su questi prati, a stento potevano ricordare la liturgia dai tempi dell'infanzia. Come avevano conservato la fede?
"A casa mia tenevamo le icone in solaio, nascoste". Il giovane prete, pallido e timido, aveva uno sguardo assente. Si era unito tardi alla processione. "Mio padre lavorava nelle cave di pietra di Kazakistan, così vivevamo a chilometri e chilometri di distanza di tutto. Ma i genitori passano queste icone ai figli, e la famiglia di mia nonna aveva conservato le sue. Ecco come sono arrivato a Dio: grazie alle icone, grazie a mia madre. Non da un giorno all'altro, ma con il cuore". Si toccò il petto. "A poco a poco. È Dio a chiamarti".
Raggiungemmo un luogo dove un tubo cromato appoggiato a un vecchio pneumatico di autocarro riversava acqua tiepida in una vasca. Un diacono biondo come un Cristo nordico piantò la croce della processione all'altro estremo, e l'arcivescovo, i preti, i novizi, i pellegrini, le babuški con le loro sacche e le loro bottiglie, alcuni veterani di guerra e uno straniero incantato si disposero in una mezzaluna oscillante sul bordo dell'acqua.
L'officiante scarmigliato, che stringeva in mano una croce adorna di gemme, ricevette l'ordine di entrare nel laghetto. Di tanto in tanto lanciava un'occhiata implorante a Feodosij, che però non gli faceva alcun cenno di fermarsi. Più si immergeva, più i paramenti gli si aprivano a ventaglio sulla superficie dell'acqua ai nostri piedi - con la seta color malva che impregnandosi diventava color indaco - finché non si dispiegarono completamente, conferendo al prete l'aspetto di un uccello esotico. Finalmente Feodosij sollevò il dito. L'officiante si dimenò, ci guardò spaurito - o forse guardò il cielo - in un momentaneo attacco di disperazione, ma poi recuperò l'equilibrio e si immobilizzò. Quindi, con un cipiglio spettrale, tracciò una croce tremante sull'acqua.
Ai pellegrini sfuggì un profondo sospiro collettivo. Di nuovo il gregge si mosse per andare a disporsi tutto intorno alla vasca, mentre l'arcivescovo afferrava un calice d'argento e spruzzava la superficie con altra acqua che aveva con sé. Quindi la croce malferma condusse il corteo sulla via del ritorno, verso il rumore dei bulldozer.
Ma le babuški non si mossero. Non appena il bagliore della processione si spense nell'oscurità degli alberi, con l'arcivescovo ormai a distanza di sicurezza, scoppiò una nuova eccitazione. Presero a togliersi le spesse calze e a lanciare in aria le scarpe. Erano tutte pronte. Estrassero dalle borse bottiglie vuote di Fanta e di Coca Cola, scavalcarono la sponda fangosa ed entrarono nell'acqua appena benedetta. Prima la raccolsero dove il fondale era basso. Era acqua prelevata dal sottosuolo, tiepida e torbida. Poi ne bevvero a sorsate avide delle mani a coppa, quindi tornarono indietro a riporre le bottiglie.
L'euforia diede loro alla testa. Sei o sette vecchiette si sfilarono prima i cardigan, quindi i fazzoletti e le gonne, restando solamente in mutande e reggiseno a fiori, e si precipitarono in acqua. Ogni inibizione era smarrita. Le gambe massicce, cosparse di vene varicose, le guidavano tremanti giù per la riva. Le cosce a poco a poco si assottigliavano, sfociando in piedi piccoli, abbastanza delicati. Minuscole croci d'oro si perdevano nel seno. Si tuffarono nell'acqua pesantemente. Io rimasi sulla riva, pieno di stupore, chiedendomi se fosse il caso di rimanere lì. Ma loro mi ignoravano, tutte vocianti e giubilanti. Cullavano l'acqua nelle mani e se la gettavano in faccia. La santità si era fatta liquida, palpabile. Potevi berla, immergerti dentro, portarla ai malati al posto dei fiori.
Due delle più coraggiose - allegre vegliarde pettorute - si diressero verso il tubo zampillante e vi ficcarono sotto la testa. Deviarono il getto l'una contro l'altra, esultanti, poi si immersero e bevvero in gran quantità. Gridarono alle loro amiche ancora all'asciutto, incitandole, finché persino una o due delle ragazzine sollevarono la gonna ed entrarono timidamente in acqua. Una bottiglia dopo l'altra veniva riempita e trascinata a riva. Ma erano le più giovani, non le anziane, a essere titubanti. Le vecchie erano euforiche. Una di loro mi urlò di raggiungerle, ma io ero sospeso tra il riso e le lacrime. Queste donne erano sopravvissute agli anni di Stalin, alle privazioni, alla sofferenza istituzionale, e adesso, rimaste vedove, tiravano avanti con una pensione da fame. Il loro entusiasmo mi lasciava senza parole. Forse in questa pozza sacra e caotica riuscivano finalmente a dare un senso al mondo, e tutta questa carne stanca e dolente trovava finalmente l'assoluzione.

(Brano tratto dal libro In Siberia, Ponte alle Grazie Editrice, Milano, 2000)






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