NEW YORK ED IO
Luís Fernando Veríssimo
Le
bombe atomiche erano state lanciate sul Giappone qualche settima
prima e le folle commemoravano la fine della seconda guerra mondiale
a Times Square ma l' unica cosa che ricordo della prima volta
che sono stato a New York sono le due donne che giravano nude
nel loro appartamento e che io vedevo dalla finestra.
Due americane molto bianche, indifferenti alla loro finestra aperta
e al mio sguardo attonito e al fatto che eravamo appena entrati,
tutti, nell' era nucleare. Sicuramente anche loro si preparavano
per andare a baciare i marinai. Io ancora non avevo nove anni.
Eravamo appena arrivati dalla California, dove avevamo passato
due anni, per prendere la nave per andare a casa. La nave era
un mercantile argentino chiamato José Menezes, che era
stato il primo a fare il viaggio da New York verso sud dopo la
resa dei giapponesi. Ricordo quel viaggio perchè ho compiuto
gli anni a bordo e perchè uno dei nostri compagni era Paulo
Gracindo, che ci divertiva facendo la voce del Sombra, il personaggio
che lui interpretava alla radio. Ma non ricordo niente di più
della New York del '45, salvo le donne bianche.
Otto anni dopo tornammo. Mio padre avrebbe dovuto dirigere il
Dipartimento culturale dell' organizzazione degli Stati Americani
in sostituzione di Amoroso Lima.
Arrivammo a New York in nave. Mia madre si rifiutava di viaggiare
in aereo. Siamo stati clienti assidui della linea Moore-McCormak.
Prima sensazione:
televisione nella stanza dell' albergo! Saremmo rimasti qualche
giorno nella città prima di andare a Washington. Uscii
per esplorare New York da solo, questa volta con la libertà
e la curiosità dei sedici anni. Nel vecchio e gigantesco
teatro Paramount, che non esiste più, lo spettacolo dopo
il film era con l' idolo della gioventù del momento e nuovo
Frank Sinatra, Eddie Fisher, che nemmeno lui esiste più,
anche se - pare - è ancora vivo.
Per fortuna quasi non riuscii a sentirlo perchè le ragazze
attorno a me in platea non smettevano di urlare ogni volta che
lui apriva la bocca.
Non fu esattamente la fine di una guerra ma non si può
dire che non sia stato un momento storico. Sì, vidi Eddie
Fisher nell' istante estremo della sua gloria fugace.
A Washington, dove abbiamo vissuto per quattro anni, quando potevo,
prendevo lo spazzolino e me la svignavo. In pullman verso New
York. Passavo due o tre giorni entrando ed uscendo dai musei,
nutrendomi di hamburger e milk-shake e la sera andando al Birdland
dove una volta - non mi stanco mai di raccontarlo - vidi Charlie
Parker e Dizzy Gillespie che suonavano assieme e sospetto che
il pianista fosse Bud Powell. Per qualche ragione non venni mai
bloccato all'ingresso nonostante non avessi l' età giusta
per stare lì.
Potevi sederti in un angolo solo per ascoltare musica senza dover
bere. Nessuna emozione musicale che ho avuto prima o dopo si potrebbe
paragonare a quella di sentire l' orchestra di Count Basie in
azione, compressa sul palco, il suo suono potente, reso ancor
più travolgente dalla soffitta bassa del Birdland. Al Birdland
ho avuto molti momenti storici, almeno per quanto riguarda la
mia storia personale di ascoltatore.
Una volta decisi di spendere ancor meno di quello che normalmente
spendevo nelle mie brevi escursioni a New York e scelsi un albergo
accanto alla stazione dei pullman. Tutto l'interno dell' albergo
era mal illuminato da lampade azzurre, credo per rendere più
difficile alla polizia il lavoro di identificazione dei testimoni.
La camera costava 2 dollari e mezzo. Non c'è bisogno di
descrivere una camera da 2 dollari e mezzo, pur considerando il
fatto che in quell'epoca il dollaro valeva di più. Le lenzuola
non erano mai state cambiate, secondo i miei calcoli, dall'amministrazione
Roosvelt e le pareti delle stanzette non arrivavano al tetto,
cosicché passai tutta la notte a sentire più rumori
corporali dei miei vicini di quanti credevo esistessero. In realtà,
non trascorsi lì tutta la notte: a notte fonda scesi dalle
scale azzurre e me la svignai dall'albergo. Stetti a camminare
fino all'alba e poi andai a fissare una stanza nel vecchio e affidabile
Wentworth, sulla 46°, dove almeno avevo la certezza che nessun
fatto storico - tipo essere portato via dagli scarafaggi o morire
asfissiato nel bel mezzo della notte - sarebbe accaduto.
Nel 1980 io, Lucia e i nostri figli, passammo un periodo di quasi
un anno a New York. Fu l'anno in cui uccisero John Lennon. Ricordo
che interruppero la trasmissione di una partita di football americano
per dare la notizia. Dettai per telefono al giornale un articolo
sull'assassinio e seguii per la tv la veglia dei giovani a Central
Park, di fronte al lugubre palazzo Dakota in cui, prima della
morte di John Lennon, l'unico avvenimento storico era stato il
concepimento e la nascita del baby di Rosemary.
Le persone accendevano candele, si abbracciavano, cantavano senza
sapere quello che era successo e perché. I miei figli andarono
al parco il giorno dopo ma io non ci sono voluto andare.
Mantenni scrupolosamente la tv tra il fatto e la mia percezione
diretta di esso e delle sue conseguenze. Non avevo più
l'età per credere in quello che Lennon rappresentava per
i giovani, nella sua fase di guru. Ma che diavolo! I Beatles erano
stati importanti per la mia generazione! Quella morte stupida
aveva ucciso un certo tipo di aspettativa anche nella mia vita,
ed io non volevo essere presente alle sue fiorite esequie.
Negli anni seguenti siamo tornati varie volte a New York. Abbiamo
assunto qualche abitudine newyorkese, in quell'intimità
che uno crea con i luoghi che gli piacciono. Mangiare panini col
pastrami si faceva al Bernstein della 3° Avenue. Non poteva
mancare l'attesa sul marciapiedi per assistere al secondo spettacolo
serale al Blue Note - se il musicista che si presentava fosse
valsa la pena dell' attesa sul marciapiedi, è chiaro. Io
tornavo sempre in alcune mie librerie preferite, ma qualcuna mi
ha tradito ed è andata sparendo col tempo. Abbiamo accompagnato
la lenta europeizzazione di New York, con i tradizionali coffee
shop in cui a servire c'erano vecchie cameriere con i capelli
laccati, sostituiti da falsi bistrôts in cui servivano rappresentanti
di tutte le razze del mondo e con il caffè annacquato che
misericordiosamente ha lasciato il posto a cappuccino e caffè
espresso. Non facevamo molti programmi turistici. Abbiamo visto
Bobby Short e Woody Allen nel bar dell' hotel Carlyle. Una volta
andammo a cena al Windows on the World, in cima ad una delle torri
del World Trade Center. La vista era meglio del cibo. No, scusa,
non ebbi nessun tipo di premonizione. Una volta rimanemmo bloccati
nell'albergo mentre stava arrivando un uragano che, secondo le
previsoni, avrebbe raso al suolo buona parte della città.
Non buttò giù nemmeno un albero. Dopo di che pensai
che New York ormai somigliava tanto alla nostra casa che non avrei
avuto più niente di straordinario da aggiungere ai miei
ricordi della città. La nostra casa, per definizione, è
il luogo in cui la storia non accade.
La mattina dell' 11 settembre eravamo a New York. Io leggevo il
New York Times ancora a letto e Lucia era appena uscita dalla
doccia. Squillò il telefono.
Era mia sorella da Washington. "Accendete la tv", disse.
Ho acceso proprio nel momento in cui il secondo aereo si avvicinava
alla torre sud.
(Traduzione di Julio Monteiro Martins insieme ai suoi studenti
dell'Università di Pisa: Cristiano Rochetta, Eugenia Ciccarelli,
Gherardo Giannarelli, Katia Quaglierini, Lisa Giuliani, Mariapia
Caruso e Monica Lupetti)
L.F.Veríssimo
è autore di diverse collane di crônicas - brevi racconti
umoristici sulla realtà contemporanea, tipici della narrativa
di lingua portoghese - e le pubblica regolarmente sui principali
giornali brasiliani.
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