LA CAUSA

Luís Romano


Nelle fattorie la siccità era una cosa da matti. Le piante, abbrustolite, erano buone solo per le capre. I fusti delle patate erano appassiti perché alla radice i topi ne distruggevano la vita, impedendo la germinazione. Le sorgenti si esaurivano giorno dopo giorno fino a ridursi a pozze di fango che gli animali venivano a leccare. Nelle case degli "americani" le famiglie, inquiete, pensavano a un mondo di cose con quei due anni di mancanza d'acqua. Oggi avrebbero mangiato la capretta del cortile che tutte le mattine, affacciandosi alla porta della cucina, veniva a reclamare la crusca del cuscuz. Poi sarebbe toccato alle piccole bestiole: le galline di razza, i maialini da latte che passavano il tempo a grugnire in porcile, fino a quando Dio avesse voluto, perché tutto era nelle sue mani, come dicevano i vecchi. Fino a quando le piogge di Dio non fossero cadute sugli orti che morivano di sete.
A volte nell'epoca della semina le nuvole si raggruppavano, dense, e prendevano il colore della cenere, e la gente lo interpretava come elemosina proveniente dall'alto. Si univano in gomitoli grossi come il mondo, si sdoppiavano, si rincorrevano in cielo, una dietro l'altra, slittando tra le vette come bimbi che giocano a nascondino, e oscuravano il firmamento. Tutti si guardavano l'un l'altro nell'attesa delle prime gocce e i bambini smettevano di giocare nel timore di qualche rimprovero.
- Fratelli, Dio è un buon padre!
I contadini si toglievano il cappello, pregavano, imploravano la salvezza rappresentata dall'arrivo della pioggia, mentre quelle ombre nuvolose continuavano a giocherellare al di sopra di tutto. Gocce grosse come sterco di pecora cadevano rumorosamente per poi essere subito trasportate verso il mare dal vento dell'Est. E l'arcobaleno si stagliava in tutta la sua bellezza di colori, oltrepassava la terra, immergeva i suoi lembi in mare, e allora le nuvole scaricavano lontano tutta l'acqua che portavano, lontano, in quell'oceano di Cristo. Il cielo si faceva terso, il sole scagliava i suoi dardi sulle colline, sugli steccati, sull'intera isola, uccidendo le piantine, frantumando le illusioni degli uomini.
Nelle baracche la chiassosità dei piccoli diminuiva sensibilmente perché il fumo, in cucina, rare volte indicava che in pentola ci fosse qualcosa da mangiare.
Accanto al corridoio, di fronte all'angolo che dava nella stalla, gli uomini, in piedi, tenevano uno stecchino tra i denti, e non sapevano cosa fare. Vedevano le loro famiglie infiacchirsi di minuto in minuto. Le donne ridotte pelle e ossa, i bambini che piangevano ininterrottamente e i vecchi che dormivano per ingannare i crampi allo stomaco. Sapevano che negli orti i roditori continuavano a distruggere gli ultimi residui della semina delle patate.
In alto, stormi di corvi in un gracchiare di malaugurio, a pochi metri dalle persone, che non li temevano perché non c'era più niente da portare via. Le lucertole morivano nelle tane o ai bordi delle strade, gli avvoltoi vigilavano in attesa di un'occasione, perché di animali morti non ne mancavano.
Dietro le abitazioni gli uccelli-bianchi aspettavano: l'uomo si slacciava la cintola e aveva appena il tempo di abbassarsi i pantaloni che la dissenteria gli imbrattava le gambe schizzando per terra. Il dolore entrava come una coltellata nella regione dell'ombelico. E lui si alzava, si aggiustava i vestiti, faceva due passi per poi tornare a slacciarsi gli abiti e a sporcarsi senza poter reagire. Allora gli uccelli si avvicinavano per disputarsi le zolle di terra imbevute di feci. Poi il contadino sceglieva una pietra e puliva via il resto degli escrementi che erano rimasti attaccati ai peli.
E i vecchi dicevano che quella era la fine del mondo. Che il castigo era arrivato a causa della cattiveria degli uomini. Che il popolo era maledetto perché i figli non avevano più rispetto per i genitori, perché i bambini che nascevano oggi possedevano più cose della gente di età. Perché ci si era dimenticati degli ordini del Signore e i ragazzi di oggi invece di andare a messa volevano spassarsela tutta la notte con le ragazze di strada. Il peccato meritava il castigo e tutti pagavano per le colpe di uno solo.


I martelli scoperchiavano i tetti. Da un'altra casa, non molto lontana, le tegole erano già state tolte e vendute a un commerciante. Il sole illuminava le rovine e andava a stanare gli scarafaggi che correvano da un angolo all'altro, mentre i ragni tessevano nuove tele per la cattura dei tafani che uscivano dagli immondezzai. E le demolizioni continuavano, le tavole accatastate ai bordi delle strade. Alcune si spaccavano, altre avevano ancora i chiodi conficcati nei punti più duri. I bambini raccoglievano i legnetti, frugando tra l'immondizia accumulata sul pavimento.
- Cinque centesimi! Cinque centesimi!
Tutta la gente lasciava il lavoro e andava a vedere. Nelle mani del bambino la moneta color verderame. Cinque centesimi! I compagni, tutti insieme, volevano vedere, ma il ragazzino teneva ben stretta nel palmo della mano quella fortuna che lo elevava al di sopra degli altri. Affannosamente, i ragazzini rovistavano per terra, in cerca di monete miracolose, facendo progetti a voce alta, mentre gli uomini imprecavano quando inciampavano nella loro impertinenza.
- Ragazzino di merda, fammi passare!
Ma loro continuavano a far confusione senza dare retta, in cerca di emozioni o di divertimento.
- Guarda! Guarda!
Un geco che saliva sul muro di fronte con i suoi movimenti prudenti aveva catturato la loro attenzione. Saltando, gli tirarono manciate di terra argillosa per farlo cadere, ma l'animale si avvicinò a un ragno che aveva un bozzolo di uova attaccato alle zampe, restò immobile per un istante, spiccò un salto e fuggì con la preda attraverso un buco del tetto. I bambini restarono delusi.
- Dalli a me quei cinque centesimi.
Il bambino nascose la mano dietro alla schiena.
- Dammi qua, ci servono per le spese di casa - gli diceva il padre. La mano si irrigidì, il bimbo strinse la moneta con tutte le forze. L'uomo allora gli bloccò il corpo con le gambe, gli torse il braccio e si prese i cinque centesimi. Un grido di protesta riempì la stanza, mentre gli altri mugolarono, intimoriti. Il contadino si allontanò, portando altre tavole fuori, raggiungendo i compagni che avevano finito il lavoro. Presero la direzione del paese che si trovava a una decina di chilometri.
Il padre si separa dagli altri, gli occhi prendono a ruotargli. Nella punta del ventre un dolore che toglie il fiato, la pelle d'oca, brividi per tutto il corpo.
Dietro il recinto della strada, si accovaccia, fa i suoi bisogni. Lascia in terra una gelatina insanguinata dove piccoli vermi si dimenano incessantemente. Poi si drizza a fatica, riprende la tavola e segue gli altri.
- Fratelli, questa è la fine del mondo. Gente grande che se la fa nei pantaloni: è la fine del mondo.
Nessuno rispose perché tutti sapevano che la malattia di pancia non perdona. Proseguirono la marcia, le tavole a dondolare sulle spalle.


Dappertutto gente che demoliva case, che prelevava tegole e tramezzi. Le finestre venivano disincassate con cura perché valevano un po' di più, e al loro posto venivano collocate delle tavole. Le sedie, i letti, i vestiti sparivano dalle case e le processioni che si vedevano lungo le strade che portano in paese erano piene di vagabondi che accompagnavano la carovana, senza sapere il perché.
Le donne facevano le loro cose accanto a chiunque, aprivano le gambe e si abbandonavano ai martiri del disturbo. Poi si mettevano le gonne tra le cosce e asciugavano il resto di urina rimasta nel sesso.
E i contadini riponevano tutte le loro speranze nelle nuvole che ogni tanto venivano a giocherellare in cielo, tappando la luce del sole, o scendendo sulle vette, sbrindellandosi come fiocchi di cotone sulla cardatrice. Molti si inginocchiavano nell'orto implorando la pioggia, promettendo penitenze affinché quell'acqua che si rovesciava in mare fosse mandata finalmente verso la terra.
- Godame! - inveiva un "americano", che con la punta della zappa rimuoveva, invano, le radici delle piante di patate.
Mentre le famiglie abbandonavano i luoghi ormai deserti, gli uccelli invadevano le rovine, sfondando i porcili in cerca di larve. Altre volte erano i cani a vagabondare da quelle parti, immischiandosi in zuffe mortali per un pezzo di pelle di capretto scovata in un angolo della cucina.
E le carovane lasciavano tracce del loro passaggio. Qui una palla di escremento che si coagulava al sole; là a due passi il corpo di un bimbo che si faceva verde fuori dalla fossa che non era stata ultimata, i corvi disegnavano circoli tutt'attorno, protendendo il becco, toccando il morto con la punta dell'ala, accertandosi della sua immobilità. Più in là un vecchio: le gengive in bella mostra, le formiche che gli entravano e gli uscivano dal naso, dalla bocca, dalle orecchie; le braccia tra le ginocchia, il ventre gonfio come un tamburo.
La gente si fermava un attimo, per vedere se conosceva il "defunto", poi si allontanava. I bambini si aggrappavano alle gonne delle madri, spiavano e domandavano:
- Mamma, chi è? Chi è mamma?
- È il tale, dalle parti di Cabeço -, rispondeva la donna con la voce rotta. E loro continuavano a scrutare fino a quando la curva del cammino non occultava la scena. A lungo guardavano indietro, superstiziosi.
- Ho sentito dire che Griga ha perso la ragione.
- Ieri, verso sera, ha bruciato la sua casa con tutto quello che c'era dentro.
- Più grande è il potere di Dio!
Quei discorsi interrompevano lo scoramento per lasciare il posto a storie che occupavano la mente e facevano dimenticare la distanza del cammino, il respiro e asciugava la saliva nella bocca. Dai margini delle valli, a volte, l'eco portava il suono di grida che nessuno sapeva di chi fossero. Le persone che abitavano ai bordi delle strade si alzavano immediatamente per andare a vedere le carovane, i profili che ritagliavano il ciclo come spaventapasseri; vecchie che avevano in braccio bambini ridotti a un mucchietto di ossa, e che sorridevano, inebetite; madri con i seni penzolanti come batacchi, dai quali i piccoli cercavano invano una goccia di latte inesistente; e i gemiti agghiaccianti di qualcuno che rendeva la vita.
Le migrazioni si trasformavano in disperazione perché nessuno voleva morire come una bestia, decomponendosi nei campi o diventando pasto di cani nelle fosse comuni. C'erano delle adolescenti che non avevano più vergogna dei grandi, strisciate di mestruo dalle cosce fino ai calcagni; le vesti sbrindellate mostravano cos'era ad attirare le mosche. Ce n'erano alcune che non ce la facevano più a camminare e restavano buttate in strada, la faccia una smorfia, segnando come pietre sacrificali l'esodo di quel dramma che faceva impazzire la moltitudine a causa della siccità.

Il silenzio si impossessava di tutto: dei campi, delle città, delle case disperse che ricordavano i nomi di quelli che erano partiti o che erano rimasti sepolti qua o là o di quelli che gli avvoltoi si ostinavano a dissotterrare.
- Chi è, mamma? Mamma, chi è?
- Un buon cristiano che ha finito di penare su questa terra -. E lei si faceva il segno della croce mentre recitava un padrenostro.

All'ingresso dei campi a semina, i contadini riposavano e i bambini si impaurivano quando scorgevano qualche cadavere rovesciato. La madre non rispondeva più.
- Sta' zitto, figlio mio, che non so chi è.
Tutto moriva sotto l'orda affamata che strappava le piante e divorava i frutti ancora acerbi, distruggendo i polloni in piena germogliazione.
- Fuori! Fuori di qui - gesticolava l'agricoltore alla massa di gente che gli aveva invaso la proprietà e che, senza badare a lui, si impadroniva di tutto quello che poteva assomigliare a cibo.
L'orto venne smantellato in un batter d'occhio. Allora l'uomo prese un bastone e cominciò a colpire a casaccio, senza fare differenze tra grandi e piccini, fino a che la moltitudine, insaziata, fuggì verso la strada. Gruppetti di persone si disputavano radici di manioca, i più deboli cadevano.
E ci fu uno che restò steso nell'orto perché gli mancarono le forze per scavalcare il recinto mentre ingoiava un pezzo di igname crudo. Dibattendosi come un ossesso, articolando suoni come un animale, aveva attirato l'attenzione di una donna che arrivava in ritardo e che senza esitare gli infilò le dita in gola, estrasse il tubero, lo divorò avidamente e scappò via.
L'agricoltore, come impazzito bastonava convulsamente due ragazzini finiti in terra. I colpi suonavano vuoti sulla pelle tostata che disegnava le ossa. E quando non ebbe più le forze per colpire, si sedette su una pietra, meditò per qualche istante e scoppiò a piangere, riprendendo la strada di casa. Perché alla fine aveva ucciso a causa della siccità, perché aveva appena commesso il peccato più grande di tutti i peccati e non avrebbe più visto la faccia di Dio.
Sulla porta, il cane abbaiava in modo differente.
- Cuccia, Fido.
Ma l'animale continuava a non ubbidire. Un calcio lo spedì fino all'ingresso da dove fuggì guaendo. Sulla soglia, l'uomo si portò le mani alla testa pensando a quello che aveva fatto. Gli si rizzarono i capelli. Da lì scrutò i corpi dei due ragazzi. Un sudore abbondante gli bagnò la fronte. Si alzò di scatto, aprì la cassetta degli attrezzi, prese un cavo, lo agganciò a una trave del soffitto, fece un laccio, salì su una sedia che allontanò con un piede e rimase lì, a penzolare, con la lingua di fuori e gli occhi spalancati.
Il cane entrò, annusò l'impiccato e ululò dentro casa, andando ad accucciarsi in un angolo da cui di tanto in tanto gemeva.
E quando altri gruppi passarono nell'orto, raccattando quello che gli altri avevano lasciato, il bambino, vedendo il corpo che dall'estremità della corda ruotava su se stesso, chiese:
- Chi è, mamma?
- Chiudi la bocca, non ha nome - rispose la donna, senza più lacrime da versare.



(Tratto dal libro "Capo Verde - Nove isole e un racconto disabitato", Le Lettere Editrice, Firenze, 2000; a cura di Lia Ogno)




Luís Romano, nato a Vila da Ponta do Sol, isola di Santo Antão, Capo Verde, nel 1922. Fratello dello scrittore e poeta Teobaldo Virgílio. Mentre compiva i suoi studi ha svolto innumerevoli lavori: contadino, minatore, falegname, operaio in una fabbrica di tabacco, per poi emigrare in Senegal, in Marocco e, infine, in Brasile. Qui, nel 1962, riesce a pubblicare il romanzo Famintos (da cui è tratto La causa), che era stato scritto a Capo Verde ben vent'anni prima, ma che per i suoi forti contenuti di denuncia sociale, aveva subito il veto della censura della dittatura fascista di Salazar. Oltre alla narrativa, si guadagna uno spazio come saggista e come poeta.
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