DISAGIO TEMPORANEO
Jhumpa Lahiri
L'avviso precisava che si sarebbe trattato di un disagio temporaneo:
nei cinque giorni successivi avrebbero sospeso la corrente per
un'ora a partire dalle otto di sera. Era caduta una linea elettrica
durante l'ultima tormenta, i tecnici avrebbero approfittato delle
serate più miti per rimetterla in sesto. I lavori avrebbero
coinvolto soltanto le case della tranquilla strada alberata, a
un passo dai negozi e dalla fermata del tram, dove Shoba e Shukumar
abitavano da tre anni.
"Sono
gentili ad avvisarci" concesse Shoba dopo aver letto l'avviso
ad alta voce, rivolta più a sé che a Shukumar. Fece
scivolare dalla spalla la cinghia della sua borsa di cuoio, gonfia
di bozze, e la lasciò cadere nell'ingresso entrando in
cucina. Portava un impermeabile blu marina sopra una tuta grigia
e scarpe da tennis bianche; corrispondeva in tutto, a trentatré
anni, al tipo di donna cui un tempo dichiarava di non voler somigliare.
Veniva dalla palestra. Del rossetto mirtillo restava traccia soltanto
sull'orlo delle labbra, e l'ombretto era colato sotto le ciglia.
Un tempo le capitava di avere quell'aspetto, pensò Shukumar,
la mattina dopo una festa, una serata in un locale, quando era
troppo pigra per struccarsi, troppo desiderosa di abbandonarsi
nelle sue braccia.
Lasciò cadere la posta sul tavolo senza guardare, gli occhi
fissi sull'avviso che teneva in mano.
"Comunque dovrebbero farlo di giorno".
"Quando ci sono io, intendi" disse Shukumar. Coprì
la pentola dell'agnello con un coperchio di vetro, appoggiandolo
in modo da farne uscire un filo di vapore. Da gennaio lavorava
in casa, cercava di finire gli ultimi capitoli della sua tesi
sulle rivolte agrarie in India. "Quando iniziano i lavori?"
"Dice il diciannove marzo. E' oggi, il diciannove?"
Shoba si avvicinò al pannello del sughero appeso al muro
vicino al frigorifero, con attaccato soltanto un calendario illustrato
di William Morris. Lo guardò come se lo vedesse per la
prima volta, osservò attentamente le immagini prima di
soffermarsi su numeri e giorni. Un amico aveva mandato il calendario
come regalo di Natale, anche se Shoba e Shukumar non avevano festeggiato
il Natale, quell'anno.
"Allora oggi" annunciò Shoba. "A proposito,
hai un appuntamento dal dentista, venerdì".
Lui passò la lingua sui denti; si era dimenticato di lavarli,
quella mattina. Non era la prima volta. Non si era mosso di casa
tutto il giorno. Lo stesso il giorno precedente. Più Shoba
si tratteneva fuori, faceva gli straordinari e accettava nuovi
incarichi, più lui desiderava stare a casa; non usciva
nemmeno a ritirare la posta, a comprare il vino o la frutta nei
negozi vicino alla fermata del tram.
Sei mesi prima, in settembre, Shukumar stava partecipando a un
congresso a Baltimora quando Shoba era entrata in travaglio, con
tre settimane di anticipo rispetto alla data prevista. Lui avrebbe
rinunciato al congresso, ma lei aveva insistito; era importante
per stabilire contatti, l'anno successivo sarebbe entrato nel
mondo del lavoro. Aveva annotato il numero dell'albergo, l'agenda
dei suoi spostamenti e i numeri dei voli, si era messa d'accordo
con la sua amica Gillian per un passaggio in caso di emergenza.
Quando quella mattina il taxi si era avviato verso l'aereoporto,
l'aveva salutato in accappatoio, un braccio appoggiato con naturalezza
sulla sommità del ventre.
Ogni volta che ripensa va a quel momento, l'ultimo momento in
cui aveva visto Shoba incinta, ricordava soprattutto il taxi,
una station wagon rossa con le scritte in blu; enorme in
confronto alla loro automobile. Con il suo metro e ottanta d'altezza,
le mani troppo grandi persino per le tasche dei jeans, Shukumar
si sentiva minuscolo, sul sedile posteriore. Mentre il taxi accelerava
in Bacon Street, immaginava il giorno in cui anche lui e Shoba
avrebbero dovuto comprare una station wagon, per accompagnare
i bambini avanti e indietro, a lezione di piano, dal dentista.
Si vide al volante, con Shoba che si girava per passare il succo
di frutta ai bambini. Un tempo, queste immagini di vita familiare
lo avevano preoccupato, accrescendo la sua ansia di essere ancora
studente a trentacinque anni. Ma quella mattina d'inizio autunno,
con gli alberi ancora grevi di foglie gialle, l'immagine gli sorrise
per la prima volta.
Qualcuno dell'organizzazione riuscì a trovarlo tra le tante
aule identiche del centro congressi e gli porse un biglietto.
Soltanto un numero di telefono, ma Shukumar capì che era
l'ospedale. Quando arrivò a Boston era tutto finito. Il
bambino era nato morto. Shoba giaceva a letto, addormentata, in
una stanza singola talmente piccola che si faceva fatica a stare
in piedi accanto a lei, in un'ala dell'ospedale che al corso per
il parto non avevano visitato. La placenta aveva ceduto ed erano
intervenuti con un cesareo, ma non abbastanza in fretta. Il dottore
spiegò che sono cose che succedono. Sorrise nel modo più
gentile in cui si può sorridere a persone conosciute solo
professionalmente. Shoba si sarebbe rimessa in piedi in poche
settimane. Non c'era motivo di pensare che non potessero avere
altri figli in futuro.
In quei giorni quando Shukumar si svegliava, Shoba era già
uscita. Apriva gli occhi, vedeva i lunghi capelli neri rimasti
sul cuscino e pensava a lei vestita, già intenta a sorseggiare
la terza tazza di caffè nel suo ufficio in città,
dove correggeva gli errori di stampa utilizzando un codice speciale
che una volta gli aveva spiegato, con un assortimento di penne
colorate. L'avrebbe fatto anche con la sua tesi, aveva promesso,
quando fosse stata pronta. Lui invidiava la precisione di quel
compito, così diversa dalla natura sfuggente del proprio
. Era uno studente mediocre, abile ad assimilare dettagli ma privo
di curiosità. Fino a settembre era stato volenteroso, se
non proprio dedito; riassumeva capitoli, annotando i passi salienti
su blocchetti gialli a righe. Invece ora restava a letto fino
alla noia, con lo sguardo rivolto alla sua parte d'armadio, che
Shoba lasciava sempre un po' aperto, alla fila di giacche di tweed
e pantaloni di velluto, tra i quali non sarebbe stato costretto
a scegliere per andare a insegnare, quel semestre. Dopo la morte
del bambino era troppo tardi per rinunciare ai suoi impegni di
insegnante ma il professore aveva sistemato le cose in modo da
condurre personalmente il semestre primaverile. Shukumar era al
sesto anno del suo corso di laurea. "Così, con l'estate
di mezzo, dovresti prendere slancio" aveva detto il professore.
"Dovresti riuscire a tirare le fila, per settembre".
Ma Shukumar non prendeva nessuno slancio. Piuttosto pensava a
come lui e Shoba fossero diventati abili a evitarsi nella loro
casa con tre stanze da letto, passando più tempo possibile
su piani diversi. Pensava a come avesse smesso di aspettare con
ansia il fine settimana, adesso che lei stava seduta sul divano
per ore con le penne colorate e i suoi fogli, al punto da fargli
temere di essere invadente mettendo un disco in casa propria.
Pensava a quanto tempo fosse passato dall'ultima volta che lei
l'aveva guardato negli occhi sorridendo, o aveva sussurrato il
suo nome nelle rare occasioni in cui cercavano il corpo dell'altro
prima di dormire.
All'inizio credeva che sarebbe passata, che lui e Shoba, alla
fine, ce l'avrebbero fatta. Lei aveva solo trentatré anni.
Era forte, di nuovo in gamba. Ma non bastava a consolarlo. Spesso
era quasi ora di pranzo quando Shukumar si decideva a trascinarsi
fuori dal letto fino al piano di sotto, per versarsi il goccio
di caffè che Shoba aveva lasciato per lui, insieme a una
tazza vuota, sul ripiano della cucina.
Sukumar
raccolse le bucce delle cipolle con le mani e le lasciò
cadere nella pattumiera, sopra ai brandelli di grasso che aveva
tolto dall'agnello. Fece scorrere l'acqua nel lavandino, sciacquando
il coltello e il tagliere, e si strofinò sulle dita mezzo
limone per eliminare l'odore di aglio, un trucco che aveva imparato
da Shoba. Erano le sette e mezzo. Guardò dalla finestra,
soffice pece nera. Mucchi di neve irregolari costeggiavano ancora
i marciapiedi , ma faceva abbastanza caldo per camminare senza
cappello e guanti. Durante l'ultima nevicata ne era caduta più
di un metro , e per una settimana la gente dovette camminare in
fila, lungo un sentiero. Per una settimana fu il pretesto di Shukumar
per non uscire di casa. Ma ora il fondo si stava allargando, l'acqua
defluiva nei tombini del marciapiede con regolarità.
"L'agnello non sarà pronto prima delle otto"
dichiarò Shukumar. "Probabilmente dovremo mangiare
al buio".
"Possiamo
accendere le candele" suggerì Shoba. Si sciolse i
capelli, ordinatamente raccolti sulla nuca durante il giorno,
e si sfilò le scarpe da tennis senza slacciarle. "Faccio
la doccia prima che vada via la luce" annunciò, dirigendosi
verso le scale.
"Poi scendo".
Shukumar spostò borsa e scarpe accanto al frigorifero.
Lei non era così, prima. Appendeva il cappotto all'attaccapanni,
riponeva le scarpe nell'armadio, pagava le bollette appena arrivavano.
Invece ora trattava la casa come se fosse un albergo. Il fatto
che la poltrona di chintz giallo in salotto stonasse con il tappeto
persiano blue marrone non le dava più fastidio. Nel portico
dietro casa, sulla sedia di vimini, era rimasta una borsa bianca
piena di pizzo che lei aveva pensato di trasformare in tende.
Mentre Shoba faceva la doccia, Shukumar entrò nel bagno
al piano terra e trovò uno spazzolino da denti nuovo, ancora
confezionato, di fianco al lavandino. Le setole scadenti e dure
gli irritarono le gengive, sputò sangue. Lo spazzolino
era uno dei tanti messi da parte in una scatola di metallo. Shoba
li aveva comprati a una svendita, nel caso un amico avesse deciso
di fermarsi a dormire all'ultimo momento.
Era tipico da parte sua. Non si faceva trovare impreparata dalle
sorprese, buone o cattive che fossero. Se vedeva una gonna o una
borsa di suo gusto, ne comprava due. Versava i bonus ricevuti
al lavoro in un conto separato a suo nome. La cosa non lo infastidiva.
Alla morte del padre, sua madre era crollata, aveva abbandonato
la casa in cui lui era cresciuto per tornare a Calcutta, lasciando
Shukumar a sistemare tutto. Era contento che Shoba fosse diversa.
Lo sconvolgeva, la sua capacità di programmazione. Quando
faceva la spesa, riforniva la dispensa con bottiglie di olio d'oliva
o semi in più, a seconda che cucinassero italiano o indiano.
Tenevano scorte infinite di pasta di ogni forma e colore, sacchi
di riso basmati, quarti di agnello o di capra del macellaio musulmano
in Haymarket, tagliati e congelati in interminabili sacchetti
di plastica. A sabati alterni si aggiravano nel labirinto di banchetti
che Shukumar aveva finito per imparare a memoria. La guardava
incredulo comprare ancora cibo, mentre si trascinava dietro di
lei con le borse piene - spingersi tra la folla, trattare sotto
il sole del mattino con ragazzi troppo giovani per farsi la barba
eppure già senza denti, che mettevano nei sacchetti marroni
carciofi, prugne, zenzero, patate dolci, li appoggiavano sulle
loro bilance, e li porgevano a Shoba a uno a uno.
Non la infastidiva la calca, neppure quando era incinta. Era alta,
le spalle larghe, fianchi fatti per partorire, come le aveva assicurato
l'ostetrica. Tornando a casa, quando svoltavano lungo il Charles,
si stupivano sempre per la grande quantità di cibo comprata.
Non andava mai sprecato. Quando passavano gli amici, Shoba riusciva
ad allestire pasti che sembravano richiedere mezza giornata di
preparazione, con quello che aveva congelato o messo in conserva,
non cibi banali in barattoli di latta, ma peperoni con il rosmarino
marinato con le sue mani, chutney cucinato di domenica, mescolando
pentole di prugne e pomodori in ebollizione. I suoi barattoli
etichettati erano allineati sugli scaffali della cucina, infinite
piramidi sigillate, così abbondanti, convenivano, da arrivare
a farne assaggiare ai nipotini. Ormai avevano mangiato tutto.
Shukumar aveva dato pazientemente fondo ai loro rifornimenti preparando
i pasti per loro due, misurando tazze di riso, scongelando sacchetti
di carne giorno dopo giorno. Compulsava tutti i pomeriggi i suoi
ricettari, seguiva le indicazioni a matita: utilizzare due cucchiaini
di coriandolo anziché uno, le lenticchie rosse al posto
delle gialle. Ogni ricetta portava la data della prima volta che
avevano mangiato quel cibo insieme. Due aprile, cavolfiore con
finocchi. Quattordici gennaio, pollo con mandorle e uva sultanina.
Non si ricordava di quei pasti, eppure eccoli lì, registrati
con la sua mano da correttrice di bozze. Adesso a Shukumar piaceva
cucinare. Era l'unica cosa che lo facesse sentire produttivo.
Se non fosse stato per lui, lo sapeva, Shoba avrebbe mangiato
una ciotola di cereali per cena.
Quella sera, senza luce, avrebbero cenato insieme. Da mesi si
servivano direttamente dalla cucina; lui si portava il piatto
in studio, e lasciava raffreddare il cibo sulla scrivania prima
di cacciarselo in bocca tutto in una volta, mentre Shoba si portava
il piatto in soggiorno e guardava i giochi a premi, o correggeva
le bozze con il suo arsenale di matite colorate a portata di mano.
A un certo punto della serata lei veniva a trovarlo. Sentendola
arrivare, metteva via il romanzo e cominciava a battere sulla
tastiera. Lei gli appoggiava le mani sulle spalle e fissava con
lui il bagliore azzurro dello schermo del computer. Dopo un minuto
o due diceva: "Non lavorare troppo" e andava a dormire.
Era l'unico momento della giornata in cui lo andava a cercare,
eppure lui era arrivato a temerlo. Sapeva che le costava uno sforzo.
Non riusciva a non guardare le pareti della stanza; l'estate precedente
le avevano decorate insieme con una greca di anatre e conigli
che marciano suonando trombe e tamburi. Alla fine di agosto avevano
messo un lettino di ciliegio sotto la finestra, un fasciatoio
bianco con pomelli verde menta, una sedia a dondolo con i cuscini
a quadretti. Shukumar aveva smontato tutto prima di riportare
Shoba a casa dall'ospedale, raschiando i conigli e le anatre con
una spatola. Per qualche ragione la stanza non lo disturbava come
disturbava Shoba. In gennaio, dopo aver smesso di lavorare in
biblioteca, aveva deciso di spostare lì la sua scrivania,
in parte perché la stanza gli piaceva, in parte perché
era un luogo che Shoba evitava.
Shukumar
tornò in cucina e cominciò ad aprire i cassetti.
Cercò di individuare una candela tra le forbici, le fruste,
le spazzole, il pestello e il mortaio che lei aveva comprato in
un bazar a Calcutta, e utilizzava per pestare gli spicchi d'aglio
e i semi di cardamomo, quando cucinava ancora. Trovò una
torcia, ma senza pile, e una scatola mezza vuota di candeline.
Shoba gli aveva preparato una festa di compleanno a sorpresa,
il maggio precedente. Centoventi persone avevano invaso la casa
- tutti gli amici e gli amici degli amici che ora evitavano sistematicamente.
Bottiglie di vinho verde distese in un letto di ghiaccio
nella vasca da bagno. Aveva preparato una torta di crema alla
vaniglia con lo zucchero filato. Alla festa, aveva tenuto le lunghe
dita di Shukumar tra le sue per tutta la sera, mentre si muovevano
tra gli ospiti.
Da settembre la loro unica ospite era stata la madre di Shoba.
Era venuta dall'Arizona per stare con loro due mesi dopo il ritorno
dall'ospedale. Preparava la cena tutte le sere andava al supermercato,
lavava i loro vestiti e li metteva via. Era una donna religiosa.
Aveva allestito un tempietto sul comodino della camera per gli
ospiti, con immagini di divinità dal volto effemminato
e un piatto di petali di fiori d'arancio, e pregava due volte
al giorno per la salute dei suoi futuri nipoti. Nei confronti
di Shukumar era cortese senza essere amichevole. Piegava i suoi
maglioni con la precisione acquisita lavorando in un grande magazzino.
Attaccò sulla giacca invernale i bottoni che mancavano,
e preparò per lui una sciarpa a maglia, consegnandogliela
senza la minima cerimonia, come se l'avesse lasciata cadere senza
accorgersene. Non gli parlò mai di Shoba; una volta, quando
lui accennò alla morte del bambino, alzò gli occhi
dal lavoro a maglia e disse: "Ma tu non c'eri nemmeno".
Fu sorpreso di non trovare vere candele in casa. Strano che Shoba
non fosse preparata a un'evenienza così banale. Cercò
qualcosa per sistemare le candele e optò per la terra di
un vaso di edera, normalmente appoggiato sul davanzale sopra il
lavandino. Nonostante la pianta stesse a pochi centimetri dal
rubinetto, la terra era così asciutta che la dovette bagnare
per fare stare dritte le candele. Spostò le cianfrusaglie
dal tavolo della cucina, le pile di posta, libri della biblioteca
mai letti. Gli tornarono in mente i loro primi pasti lì,
quando erano così emozionati di essersi sposati, di vivere
finalmente insieme nella stessa casa, da protendersi uno verso
l'altro attraverso il tavolo, più ansiosi di fare l'amore
che di mangiare. Dispose due tovagliette ricamate, regalo di nozze
di uno zio di Lucknow, e apparecchiò con i piatti e i bicchieri
che di solito tenevano per gli ospiti. Appoggiò l'edera
al centro, le foglie a stella, con il profilo bianco, contornate
da dieci candeline. Accese la radiosveglia e cercò una
stazione di jazz.
"Cosa succede?" chiese Shoba arrivando di sotto, i capelli
avvolti in un asciugamano bianco.
Srotolò l'asciugamano e lo appese a una sedia, lasciandosi
cadere i capelli, umidi e scuri, lungo la schiena. Si avvicinò
assorta ai fornelli, sciogliendosi qualche nodo con le dita. Indossava
una tuta pulita, una maglietta, una vecchia tunica di flanella.
Il suo ventre era di nuovo piatto, la vita stretta sopra la svasatura
dei fianchi, la cintura della tunica annodata mollemente.
Erano quasi le otto. Shukumar mise il riso sul tavolo, e le lenticchie
della sera prima nel forno a microonde, premendo i numeri sul
timer.
"Hai fatto Rogan Josh" osservò Shoba,
guardando lo stufato lucente di paprika attraverso il coperchio
di vetro.
Shukumar prese un pezzetto di agnello, pizzicandolo rapidamente
con le dita per non scottarsi. Ne tastò un pezzo più
grande con un cucchiaio da portata per controllare che la carne
si staccasse facilmente dall'osso. "E' pronto" annunciò.
Il forno a microonde aveva appena suonato quando andò via
la luce, e si interruppe la musica.
"Un tempismo perfetto" commentò Shoba.
"Candeline, è tutto quello che sono riuscito a trovare".
Accese l'edera, tenendo le candele rimanenti e una scatola di
fiammiferi accanto al suo piatto.
"Non importa" rispose lei, facendo scorrere il dito
lungo lo stelo del suo bicchiere di vino. "E' tutto molto
carino".
Anche al buio, sapeva com'era seduta, leggermente in avanti sulla
sedia, le caviglie incrociate sul piolo più basso, il gomito
sinistro sul tavolo. Cercando le candele, Shukumar aveva trovato
una bottiglia di vino dentro una cassa che pensava fosse vuota.
Strinse la bottiglia tra le ginocchia per girare il cavatappi.
Per paura di rovesciare il vino, riempì i bicchieri tenendoseli
vicino. Si servirono, mescolarono il riso con le forchette, socchiusero
gli occhi incappando in una foglia d'alloro o in un chiodo di
garofano. Shukumar continuava ad accendere candele e le infilava
nella base del vaso.
"Sembra di essere in India" disse Shoba guardandolo,
mentre lui armeggiava con il candelabro improvvisato. "Spesso
la corrente sparisce per ore e ore. Una volta mi è toccato
assistere a un'intera cerimonia del riso al buio. Il bambino non
faceva che piangere, Mi pare che facesse molto caldo".
Il loro bambino non aveva mai pianto, rifletté Shukumar.
Il loro bambino non avrebbe mai avuto una cerimonia del riso,
nonostante Shoba avesse preparato la lista degli invitati, e deciso
quale dei suoi tre fratelli avrebbe offerto al bambino il primo
assaggio di cibo solido, a sei mesi se fosse stato un maschio,
a sette se fosse stata una femmina.
"E' troppo piccante?" le chiese Shukumar, spostando
l'edera luminosa dall'altra parte del tavolo, vicino alla pila
di libri e di posta, rendendo ancora più difficile vedersi.
Avrebbe tanto preferito andarsene in studio, mettersi davanti
al computer.
"No, è delizioso" rispose lei, picchiettando
sul piatto con la forchetta. "veramente".
Le riempì il bicchiere. Lei lo ringraziò.
Non erano così, prima. Ormai si dovevano sforzare, per
dire qualcosa di interessante, qualcosa che le facesse alzare
gli occhi dal piatto, o dalle sue bozze. Aveva rinunciato a divertirla.
Non faceva più caso ai silenzi.
"Mi ricordo quando mancava la luce a casa della nonna, dovevamo
dire tutti qualcosa" continuò Shoba. Non riusciva
a vedere il suo viso, ma dal tono della voce sapeva che stava
stringendo gli occhi, come per mettere a fuoco qualcosa di lontano.
Era il suo modo di fare.
"Qualcosa del tipo?"
"Non so. Una poesia, una barzelletta, un fatto qualsiasi.
A me i parenti chiedevano sempre i nomi dei miei amici americani.
Non so perché la cosa li interessasse tanto. L'ultima volta
che ho visto mia zia, mi ha chiesto di quattro compagne delle
elementari, a Tucson. Mi ricordo a malapena di loro".
Shukumar non aveva passato in India tanto tempo quanto Shoba.
I suoi genitori, che si erano stabiliti nel New Hampshire, tornavano
senza di lui. La prima volta che lo avevano portato, da piccolo,
era quasi morto di dissenteria amebica. Suo padre, un tipo ansioso,
aveva paura che la cosa potesse ripetersi, e lo lasciava a Concord
con gli zii. Da ragazzo preferiva passare l'estate a mangiare
gelati al corso di vela, piuttosto che andare a Calcutta. Fu soltanto
dopo la morte del padre nel suo ultimo anno di college, che il
paese cominciò a interessarlo, e studiò la sua storia
nei manuali come una qualsiasi altra materia. Adesso rimpiangeva
di non avere una propria storia d'infanzia in India.
"Facciamolo anche noi" propose lei inaspettatamente.
"Facciamo cosa?"
"Diciamoci qualcosa nel buio".
"Ma cosa? Non so nemmeno una barzelletta".
"No, non dico barzellette". Ci pensò un attimo.
"Perché non ci diciamo qualcosa che non ci siamo mai
detti".
"E' un gioco che facevamo al liceo" replicò Shukumar:
"Quand'eravamo ubriachi".
"Stai pensando a "Verità o penitenza". E'
un'altra cosa. Dai, comincio io". Bevve un sorso di vino.
"La prima volta che sono rimasta sola in casa tua, ho guardato
nella tua agenda per controllare se avevi segnato il mio numero.
Penso che ci conoscessimo da due settimane".
"Io dov'ero?"
"Eri andato a rispondere al telefono nell'altra stanza. Era
tua madre, ho immaginato che sarebbe stata una telefonata lunga.
Volevo sapere se mi avevi promosso dal margine della pagina".
"L'avevo fatto?"
"No, ma non mi sono scoraggiata. Adesso tocca a te".
Non gli veniva in mente niente, ma Shoba stava aspettando che
parlasse. Erano mesi che non si mostrava così decisa. Cosa
restava da dirle? Ripensò al loro primo incontro, quattro
anni prima, in occasione di una conferenza a Cambridge, una lettura
di poeti del Begala. Erano capitati l'uno vicino all'altra, sulle
sedie di legno pieghevoli. Shukumar si era annoiato subito; non
riusciva a comprendere bene, non poteva associarsi al resto del
pubblico che sospirava e annuiva col capo dopo certe frasi. Sbirciando
il giornale piegato in grembo, studiava la temperatura delle città
nel mondo. Trenta gradi a Singapore il giorno prima, diciassette
a Stoccolma. Girando la testa a sinistra, vide la donna accanto
a lui fare la lista della spesa sul retro di una cartelletta,
e restò colpito dalla sua bellezza.
"Va bene" disse, ricordando. "La prima volta che
siamo usciti a cena, al ristorante portoghese, mi sono dimenticato
di lasciare la mancia al cameriere. Sono tornato la mattina dopo,
ho scoperto come si chiamava e ho lasciato la mancia al direttore".
"Sei tornato fino a Someville soltanto per una mancia?"
"Ho preso un taxi".
"Come mai ti sei dimenticato di dare la mancia?"
Le candeline si erano consumate, ma lui riusciva a immaginare
perfettamente il suo viso nel buio, i larghi occhi mobili, le
labbra piene dai toni violacei, la virgola sul mento, traccia
di una caduta dal seggiolone a due anni. Ogni giorno, notava Shukumar,
la sua bellezza un tempo abbagliante per lui, sembrava sbiadire.
I cosmetici, che aveva sempre ritenuto superflui, erano diventati
necessari, non per migliorarla, ma per definirla in qualche modo.
"Verso la fine della cena mi divertivo a pensare che avrei
potuto sposarti" disse, ammettendo a lei come a se stesso
per la prima volta. "Deve avermi distratto".
La sera successiva Shoba tornò prima del solito. Shukumar
fece scaldare l'agnello avanzato, e si misero a tavola per le
sette. Quel giorno era uscito, tra la neve che si scioglieva,
per comprare le candele e le pile per la torcia elettrica nel
negozio all'angolo. Le candele erano pronte sul bancone, sistemate
nei portacandele d'ottone a forma di fiore di loto, ma mangiarono
alla luce del lampadario appeso sopra il tavolo.
Alla fine del pasto, Shukumar fu sorpreso di vedere che Shoba
impilava i piatti, e li portava fino al lavello. Era convinto
che si sarebbe ritirata in soggiorno , dietro la barricata delle
sue bozze.
"Non preoccuparti dei piatti" le disse, togliendoglieli
dalle mani.
"Conviene approfittare" rispose lei, versando una goccia
di detersivo sulla spugna. "Sono quasi le otto".
Il suo cuore accelerò. Era tutto il giorno che aspettava
che si spegnessero le luci. Pensava a quello che aveva rivelato
Shoba la sera prima, di aver guardato nella sua agenda. Era bello
ricordare com'era allora, la prima volta che si erano incontrati,
audace e nello stesso tempo nervosa, piena di aspettative. Stavano
fianco a fianco sul lavandino, le loro immagini riflesse nella
cornice della finestra. Lo intimidiva, come la prima volta che
si erano messi davanti a uno specchio. Non riusciva a ricordare
l'ultima volta che erano stati fotografati insieme. Avevano smesso
di andare alle feste, di viaggiare. La pellicola nella macchina
fotografica conteneva ancora fotografie di Shoba incinta in cortile.
Dopo aver lavato i piatti, si appoggiarono al bancone, asciugandosi
le mani ai due capi della strofinaccio. Alle otto la casa fu buia.
Shukumar accese le candele e ammirò le loro fiamme, lunghe
e persistenti.
"Sediamoci fuori" propose Shoba. "non dovrebbe
far freddo".
Presero una candela ciascuno e si sedettero sui gradini. Faceva
effetto stare seduti fuori con le chiazze di neve ancora in terra.
In realtà quella sera stavano uscendo tutti, l'aria era
fresca e invitante. Le porte delle case si aprivano e chiudevano.
Sfilò una piccola parata di vicini con la pila.
"Stiamo andando in libreria a dare un'occhiata" esclamò
un uomo dai capelli grigi. Camminava con la moglie, una donna
sottile con l'impermeabile e il can al guinzaglio. Erano i Bradford,
avevano infilato un biglietto di condoglianze nella buca delle
lettere di Shukumar e Shoba, in settembre.
"Ho sentito dire che hanno un generatore".
"Sarà meglio" commentò Shukumar. "O
dovremo dare un'occhiata al buio".
La donna rise infilando la mano sotto il braccio del marito. "Volete
venire con noi?"
"No. Grazie" risposero Shukumar e Shoba contemporaneamente.
Shukumar si stupì che le loro parole corrispondessero.
Si chiedeva cosa avrebbe rivelato Shoba nel buio. Le ipotesi peggiori
gli avevano già attraversato la mente. Che avesse una relazione.
Che avesse perso il rispetto per lui perché era ancora
uno studente a trentacinque anni. Che lo biasimasse, come sua
madre, per essere stato a Baltimora. Ma sapeva che non era così.
Gli era rimasta fedele, come lui. Credeva in lui. Era stata lei
a insistere, perché andasse a Baltimora. Cosa non sapevano
l'uno dell'altra sapeva che lei stringeva forte i pugni nel sonno,
che il suo corpo scattava durante i brutti sogni. Sapeva che metteva
il miele sul melone. Sapeva che al ritorno dall'ospedale, per
prima cosa, entrando in casa, aveva cominciato a prendere i suoi
oggetti e a impilarli nell'atrio: libri dagli scaffali, piante
dai davanzali, quadri dalle pareti, fotografie dai ripiani, ciotole
e tazze appese ai ganci in cucina. Shukumar si era tolto di mezzo,
l'aveva guardata spostarsi metodicamente di stanza in stanza.
Una volta placata, si era fermata a fissare il mucchio che aveva
fatto, con le labbra talmente contratte dal disgusto che Shukumar
aveva pensato che stesse per sputare. Poi si era mesa a piangere.
Cominciava a sentire freddo, lì seduto sui gradini. Voleva
che parlasse lei per prima, per poter ricambiare.
"Quella volta che tua madre è venuta a trovarci"
disse finalmente "Quando una sera avevo detto di dover restare
fino a tardi in ufficio, sono uscita a bere un Martini con Gillian".
Osservò il suo profilo, il naso grazioso, le mascelle leggermente
mascoline. Si ricordava bene di quella sera; mangiare con sua
madre, stanco, dopo una serie incalzante di lezioni rimpiangendo
che Shoba fosse lì a dire le cose giuste, mentre a lui
venivano soltanto quelle sbagliate. Suo padre era morto da dodici
anni e sua madre era venuta a passare due settimane con lui e
Shoba, per celebrare insieme la memoria del padre. Ogni sera sua
madre cucinava qualcosa che era piaciuta al padre, ma era troppo
commossa per riuscire a mangiarne, e le si inumidivano gli occhi
quando Shoba le accarezzava la mano. "E' così toccante"
gli aveva detto Shoba all'epoca. Ora s'immaginava Shoba con Gillian,
in un bar, con i divani di velluto a strisce, quello in cui andavano
di solito dopo il cinema, a pretendere qualche oliva in più,
a chiedere una sigaretta a Gillian. La immaginò lamentarsi,
e Gillian solidarizzare con lei riguardo alle visite dei suoceri.
Era stata Gillian ad accompagnare Shoba in ospedale.
"Tocca a te", disse lei, interrompendo i suoi pensieri.
Shukumar sentiva il trapano degli elettricisti in fondo alla strada,
e le loro voci che tentavano di sovrastarlo. Guardava le facciate
buie delle case lungo la via. Dietro alle finestre di una casa
brillavano le candele. Nonostante il caldo, usciva fumo dal camino.
"Ho imbrogliato all'esame di Cultura orientale, al college"
disse. "Era l'ultimo semestre, gli ultimi esami. Mio padre
era morto pochi mesi prima. Riuscivo a vedere il quaderno blu
di un ragazzo accanto a me. Era un ragazzo americano, un maniaco.
Conosceva l'urdu e il sanscrito. Non riuscivo a ricordare se il
verso che dovevamo esaminare fosse un esempio di ghazalo
meno.Ho spiato la sua risposta e l'ho copiata".
Era
accaduto più di quindici anni prima. Si sentiva sollevato,
per averlo detto a Shoba.
Lei si voltò verso di lui, lo sguardo rivolto non al viso
ma alle scarpe - vecchi mocassini che lui usava come se fossero
ciabatte, il cuoio dietro perennemente piegato. Si chiese se quello
che aveva detto l'avesse infastidita. Lei gli prese la mano e
la strinse. "Non c'è bisogno che tu mi dica perché
l'hai fatto" disse, facendosi più vicina.
Stettero seduti insieme fino alle nove, quando tornò la
luce. Sentirono la gente applaudire dai portici di fronte, i televisori
accendersi. I Bradford tornarono lungo la strada, mangiando il
gelato e salutando con la mano. Shoba e Shukumar risposero al
saluto. Poi si alzarono, ancora mano nella mano, ed entrarono
in casa.
Chissà
come, senza bisogno di dirlo, erano giunti a questo. A uno scambio
di confessioni- i piccoli gesti con cui si erano reciprocamente
feriti o delusi. Il giorno dopo Shukumar stette a pensare per
ore cosa dirle. Era incerto tra ammettere di avere strappato una
foto di donna da una delle sue riviste femminili, e di averla
custodita in un libro per una settimana, o rivelarle di non aver
veramente perso la canottiera di lana che lei gli aveva regalato
per il loro terzo anniversario, ma di averla invece restituita
a Filene in cambio di contanti, e di essersi ubriacato da solo,
in pieno giorno, nel bar di un albergo. Per il loro primo anniversario,
Shoba aveva cucinato una cena di dieci portate soltanto per lui.
La canottiera l'aveva depresso. "Mia moglie mi ha regalato
una canottiera per il nostro anniversario" si era lamentato
con il barista, la testa appesantita dal cognac. "Che cosa
si aspetta?" aveva replicato il barista. "Siete sposati".
Quanto alla foto della donna, non sapeva perché l'avesse
strappata. Non era bella come Shoba. Indossava un vestito bianco
con i lustrini, il suo viso era torvo e le gambe magre, poco femminili.
Aveva le braccia depilate, e i pugni contro le orecchie, come
per colpirsi. Era una pubblicità di collant. A quell'epoca
Shoba era incinta, con il ventre talmente enorme che Shukumar
non voleva più toccarla. La prima volta che aveva visto
la fotografia era sdraiato nel letto accanto a lei, la guardava
leggere. Quando notò la rivista nella pila dei giornali
da buttare, trovò la foto e la strappò con la massima
attenzione. Per circa una settimana si concesse un'occhiata ogni
giorno. Provava per la donna un intenso desiderio che si tramutava
in disgusto dopo un minuto o due. Era stata la sua peggiore infedeltà.
Raccontò a Shoba della canottiera la terza notte, della
foto la quarta. Lei non fece commenti, non dette segni di rabbia
o di delusione. Si limitò ad ascoltare, poi gli prese la
mano ,e, com'era già accaduto, la strinse. La terza notte,
Shoba gli rivelò che, dopo una conferenza cui avevano assistito,
l'aveva lasciato parlare con il preside di facoltà senza
avvertirlo della macchia di paté che aveva sul mento. Era
irritata con lui per qualche motivo, così l'aveva lasciato
lottare per la conferma della borsa di studio il semestre successivo,
senza indicarsi il mento per dargli un segnale. La quarta notte
Shoba ammise che l'unica poesia che lui avesse pubblicato, in
una rivista letteraria dello Uath, non le piaceva veramente. Shukumar
aveva scritto la poesia dopo averla incontrata. La trovava sdolcinata.
Succedeva qualcosa, con la casa buia. Riuscivano a parlarsi di
nuovo. La terza notte, dopocena, si sedettero insieme sul divano,
quando fece buio lui cominciò a baciarla goffamente sulla
fronte e sul viso, e nonostante il buio chiuse gli occhi, sapendo
che l'avrebbe fatto anche lei. La quarta notte salirono tentoni
di sopra, fino al letto, cercando insieme il gradino con il piede
prima di appoggiarsi, per fare l'amore con una disperazione che
avevano dimenticato. Lei pianse in silenzio, sussurrò il
suo nome, e seguì con il dito la traccia del suo sopraccigli
nel buio. Facendo l'amore lui si chiedeva cosa dirle il giorno
dopo, e cosa avrebbe detto lei, era un pensiero eccitante. "Stringimi",
diceva "stringimi tra le tue braccia". Quando tornarono
le luci al piano terra, dormivano profondamente.
La
mattina della quinta notte Shukumar trovò un nuovo avviso
della società elettrica nella cassetta delle lettere. Erano
riusciti a ripristinare la linea prima del previsto, diceva. Che
delusione. Pensava di preparare malai ai gamberetti per Shoba,
ma una volta arrivato al negozio gli era passata la voglia di
cucinare. Non era lo stesso, pensava, sapere che non si sarebbero
spente le luci. Nel negozio, i gamberetti sembravano grigi e smilzi.
La bottiglia di latte di cocco impolverata e troppo costosa. Li
comprò ugualmente, con una candela di cera d'api e due
bottiglie di vino.
Shoba tornò a casa alle sette e mezza. "Credo che
il nostro gioco sia finito" commentò Shukumar vedendola
leggere l'avviso.
Lei lo guardò. "Puoi accendere le candele lo stesso,
se vuoi". Non era stata in palestra, quella sera. Sotto l'impermeabile
indossava un vestito, e si era appena ritoccata il trucco.
Mentre Shoba era di sopra a cambiarsi, Shukumar si versò
del vino e mise un disco, un album di Thelonius Monk che lei amava.
Quando scese, mangiarono insieme. Non lo ringraziò e non
gli fece i complimenti. Mangiarono nella stanza buia, alla luce
della candela. Avevano superato un momento difficile. Finirono
i gamberetti. Finirono la bottiglia di vino e ne attaccarono una
seconda. Rimasero seduti finché la candela non si fu quasi
completamente consumata. Lei si agitò sulla sedia, e Shukumar
pensò che stesse per dire qualcosa. Invece spense la candela,
si alzò in piedi, accese la luce e tornò a sedersi.
"Perché non lasciamo spente le luci?" chiese
Shukumar. Shoba spostò il piatto e incrociò le mani
sul tavolo.
"Voglio che tu mi guardi in faccia, devo dirti una cosa"
rispose con tono gentile.
Il suo cuore cominciò a pulsare. Aveva usato le stesse
parole il giorno in cui gli aveva annunciato di essere incinta,
pronunciandole con la stessa dolcezza, spegnendo la televisione
mentre lui guardava la partita. Non era preparato, allora. Adesso
sì.
Però non voleva che lei fosse di nuovo incinta. Non voleva
fingere di essere felice.
"Ho cercato un appartamento e l'ho trovato" disse lei,
puntando gli occhi su qualcosa, sembrava, dietro la spalla sinistra
di Shukumar. Non è colpa di nessuno, continuò. Erano
successe tante cose. Voleva stare un po' da sola. Aveva da parte
del denaro per la cauzione. L'appartamento era su Beacon Hill,
poteva andare al lavoro a piedi. Aveva firmato il contratto la
sera precedente, prima di venire a casa.
Lei non lo guardava, ma lui non le staccava gli occhi di dosso.
Era chiaro che sapeva la parte a memoria. Per tutto quel tempo,
lei aveva cercato casa, verificato la pressione dell'acqua, chiesto
all'agente immobiliare se il riscaldamento e l'acqua calda fossero
compresi nel canone d'affitto. Scoprire che lei avesse passato
le serate precedenti a organizzarsi una vita senza di lui, lo
feriva. Era sollevato, ma anche ferito. Era questo che lei tentava
di dirgli, nelle quattro sere passate. Era questo lo scopo del
gioco.
Ora toccava a lui parlare. C'era qualcosa che aveva giurato di
non riferirle mai, e per sei mesi si era sforzato di togliersela
dalla testa. Prima dell'ecografia, Shoba aveva chiesto al medico
di non rivelare il sesso del bambino, e Shukumar era stato d'accordo.
Voleva che fosse una sorpresa.
Più tardi, le poche volte che avevano parlato dell'accaduto,
lei aveva detto che almeno si erano risparmiati quel particolare.
Era quasi orgogliosa della sua decisione, perché le consentiva
di rifugiarsi nel mistero. Dava per scontato che fosse un mistero
anche per lui. Era arrivato troppo tardi da Baltimore - quando
tutto era finito e lei giaceva sul letto d'ospedale. Ma non era
così. Era arrivato in tempo per vedere che il bambino,
per tenerlo in braccio prima che lo cremassero. Inizialmente aveva
rifiutato l'idea ma il dottore aveva spiegato che tenere in braccio
il bambino lo avrebbe aiutato a elaborare il lutto. Shoba dormiva.
Il bambino era stato pulito, gli occhi completamente chiusi sul
mondo.
"Nostro figlio era un maschio" disse. "la sua pelle
era più rossa che marrone. I capelli erano neri. Pesava
quasi due chili e mezzo. Le dita erano strette a pugno, come le
tue di notte".
Adesso era lei a fissarlo, con il viso sconvolto dal dolore. Aveva
imbrogliato a un esame, strappato la fotografia di una donna da
una rivista. Si era fatto rimborsare una canottiera per sbronzarsi
in pieno giorno con il ricavato. Erano queste le cose che aveva
detto. Aveva tenuto in braccio il bambino, che aveva conosciuto
la vita soltanto dentro di lei, in una stanza buia, in un'ala
sconosciuta dell'ospedale. L'aveva tenuto finché l'infermiera
aveva bussato per portarlo via, e quel giorno si era ripromesso
di non dirlo mai a Shoba, perché allora l'amava ancora,
e quella era la sola sorpresa che lei avesse voluto nella vita.
Shukumar si alzò e impilò i piatti. Li portò
nel lavandino, ma invece di far scorrere l'acqua guardò
fuori dalla finestra. La serata era ancora tiepida, e i Bradford
camminavano mano nella mano. Mentre guardava la coppia, la stanza
diventò buia; gli girava la testa. Shoba aveva spento le
luci ed era tornata a sedersi a tavola. Dopo un momento Shukumar
la seguì. Piansero insieme, per le cose che adesso sapevano.
(Il racconto è stato tratto dal libro L'interprete
dei malanni, Marcos y Marcos editrice, 1999)
Selezionata dalla prestigiosa The New Yorker tra i pių interessanti
scrittori degli ultimi anni, proclamata migliore esordiente dell'anno
da giurie di critici e di pubblico - in America come in India -
Jhumpa Lahiri č nata nel 1967 a Londra da genitori indiani, e vive
a New York.
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