LE DUE CITTA'
Julio Monteiro Martins
Tutti
furono pieni di stupore e lodavano Dio.
Pieni di timore dicevano: "Oggi abbiamo
visto cose straordinarie".
(Luca; 5, 26)
Fino a quel momento avevo vissuto poco, quasi niente, ma poi il
tempo mi ha ingannato e ha fatto un grande salto, e ora mi vedo
un uomo vecchio, con poco tempo davanti a me. Così gli
avvenimenti che sto per raccontarvi sono successi da circa una
vita. Chi ero io a quell'epoca? Ero un giovane soldato dell'esercito
degli eretici Taboriti. Io non contavo niente, ma è con
orgoglio che vi dico: il mio esercito era invincibile.
Me lo ricordo chiaramente: io ero di guardia la notte della decisione
e potei osservare a lungo i miei due generali, Zizka, che chiamavamo
"il Guercio", e Procopio, il Grande, riuniti dinanzi
ai falò dell'accampamento, avvolti nelle loro vesti stracciate
quanto le nostre. Ancor oggi, non so bene perché, l'immagine
che conservo di loro e che è rimasta incisa in me è
ciò che vidi quella notte, l'immagine delle loro sagome
che si accendevano e si spegnevano nei toni rossi del fuoco. Proprio
lì loro hanno deciso di dividere le loro truppe e seguire
cammini diversi. Ed è stata una decisione che ha cambiato
le nostre vite, e anche le vostre, nonostante voi foste ancora
molto lontani dal nascere in quei giorni ormai quasi dimenticati.
Ma prima devo raccontarvi chi erano quegli uomini e che cosa hanno
fatto per il nostro popolo.
Ziska e Procopio erano uniti come fratelli di sangue. Uniti, avevano
liberato la nostra Boemia, guidato la folla furibonda e ripreso
il regno dalle mani di Venceslao. Il nostro fervore era intenso.
Eravamo tutti ispirati dalle idee scomunicate del Trilogus di
Wyclif e dalle prediche di padre Giovanni Huss, che poco prima
era stato bruciato vivo dal Tribunale della Santa Inquisizione,
dopo essere caduto in una trappola che i cardinali gli avevano
teso a Costanza. Si diceva allora che le sue ceneri erano state
sparse al vento perché di lui non restasse nemmeno una
reliquia.
Quello che ci ha mosso alla guerra santa è stata la nostra
determinazione di non sottometterci più a un re che si
piegava davanti ai baroni tedeschi, che accettava la vendita delle
indulgenze, che arricchiva i vescovi dissoluti e simoniaci, e
che per giunta accettava ordini dal Papa di Pisa, aspirante al
trono di Pietro, ed anche dagli altri due papi dell'epoca: Gregorio
VII, di Roma, e Beato XIII, di Avignone, tutti scomunicatisi a
vicenda durante il Grande Scisma.
Oltre all'indignazione contro quello stato di cose, eravamo posseduti
da un sogno millenarista: l'Avvento del regno di Dio sopra la
Terra, quando tutti i veri cristiani avrebbero espropriato i beni
della Chiesa, distribuendoli ai poveri e vivendo come prima del
peccato originale, in povertà e comunione. Noi portavamo
rinvigorita, ed ora con un immenso potere militare, l'utopia del
cristianesimo primitivo, che nei tempi delle utopie aveva portato
al rogo tanti predicatori che facevano parte di sette eretiche
come la nostra: quelle dei Lolardi, dei Begardi e dei Valdesi.
Ma con i Taboriti sarebbe stata un'altra storia. Al contrario
di quelle fragile confraternite, noi avevamo organizzato un esercito
favoloso, il più grande e il più audace che il secolo
avrebbe mai conosciuto.
Contadini senza radici venivano da tutte le parti della Boemia
per ingrossare gli eserciti eretici. Io, per esempio, sono venuto
da Brno, ancora senza neanche un pelo di barba sulla faccia, seguendo
Gerolamo, il mio capitano. E il nostro esodo aveva un motivo.
Fino a pochi anni prima i boschi e i pascoli erano di uso comunitario,
ma da quel momento in poi furono recintati e molte famiglie ebbero
le loro terre confiscate e furono arbitrariamente espulse dai
baroni. Si incominciò a tagliare una grande quantità
di legna dai boschi per il commercio, e nei nostri pascoli si
allevavano soltanto pecore per la lana. Questa nuova e incomprensibile
situazione aveva lasciato uomini e donne alla deriva, un vero
oceano umano che aveva formato i contingenti militari vincitori
dei cavalieri mercenari che per ordine del Vaticano avevano invaso
la Boemia. Erano guerrieri brutali, che se ci avessero sconfitti
avrebbero bevuto il nostro sangue. In seguito abbiamo schiacciato
le truppe bene armate di Sigismondo, il Margravio del Brandemburgo.
La fama della nostra invincibilità stava cominciando a
diffondersi. Poi abbiamo conquistato con tenaci assedi i regni
di Moravia, d'Ungheria, di Slovacchia e di Slesia.
Forse potrebbe sembrare una esagerazione per chi non è
stato lì e non ha potuto vedere tali prodigi, ma i Taboriti
e i loro soldati straccioni riempirono di terrore l'Europa del
XIV secolo dopo l'avvento del Figlio di Dio, poiché nessun
signore feudale, nessun re e nessun vescovo ci ha mai inflitto
una sconfitta. La semplice notizia del nostro avvistamento metteva
in fuga disperata i signori di quei regni. Il popolo ci aspettava
sempre con grande ansia, e quando occupavamo il luogo ci acclamava
con euforia. Eravamo i liberatori di anime.
Ma anche dopo che la Chiesa si era riunita attorno ad un unico
Papa e aveva mobilitato tutto il suo potere universale per armare
un immenso esercito contro di noi, il suo sforzo fu vano e infame.
Sotto il comando di un legato papale, il Cardinale Giulio Cesarini,
le numerose truppe avevano come unico obiettivo quello di schiacciare
una volta per tutte le cosiddette bande di eretici che terrorizzavano
i principi loro vassalli. Solo che anche loro erano terrorizzati.
Quando ci sentivano intonare da lontano il nostro inno: "Noi
che siamo i soldati di Dio...", le reclute di quell'Esercito
Romano abbandonavano le arme sul terreno e fuggivano sbandati.
E nel bottino di una battaglia non avvenuta abbiamo trovato il
cappello rosso che il Cardinale Cesarini aveva lasciato dietro
di sé... Così nessun esercito d'Europa, e nemmeno
tutti loro uniti, avrebbero potuto scuotere il nostro animo bellicoso
o intimidire quell'orda fanatica, felice e stracciona che eravamo
diventati: gli eretici armati di Boemia.
Ma ritorniamo a quella notte davanti ai falò. La questione
che Zizka, il Guercio, e Procopio, il Grande, discutevano mentre
io li osservavo da lontano, dal mio posto di guardia, riguardava
la strategia di combattimento contro gli ultimi focolai di resistenza
all'espansione Taborita: i feudi del barone tedesco Altar Paumgartner.
Le nostre spie avevano riportato informazioni contraddittorie
dalle terre del barone. Una affermava che il barone stava fortificando
la sua città, Malesov, per resistere al nostro assedio.
Un'altra diceva che il barone organizzava le sue truppe per combattere
su due fronti: avrebbe lasciato un corpo di guardia a Malesov
e sarebbe partito con il resto dell'Esercito, poi avrebbe occupato
la città di Skalik e da lì avrebbe combattuto gli
eretici. Inoltre, una terza spia assicurava che il barone, credendosi
già sconfitto, avrebbe distrutto la sua città per
impedirci di impossessarci di viveri e approvvigionamenti, e sarebbe
fuggito con le sue truppe verso la foresta, tentando di organizzare
da lì un futuro contrattacco.
Credo che di fronte a tali informazioni, così diverse e
contraddittorie, e davanti all'incertezza sulla reale situazione
del nemico, soltanto Zizka e Procopio erano in grado di studiare
un piano di attacco che avrebbe potuto funzionare in qualsiasi
situazione. Fu con questa convinzione che concordarono di dividere
il nostro esercito su due fronti. Uno, comandato da Procopio,
avrebbe preso la città di Skalik prima che lo facesse Paumgartner,
e da lì, nel caso, avrebbe atteso il suo attacco. L'altra
metà dell'Esercito, nella quale avrei dovuto servire io,
avrebbe avuto la maggior parte dei carri pesanti comandati dal
capitano Gerolamo di Brno, e sarebbe stata agli ordini di Zizka.
La sua missione era prendere la città di Malesov, dove
dicevano si sarebbe trincerato il barone, catturarlo e farlo prigioniero.
I due generali ogni tanto si sarebbero scambiati informazioni
attraverso portaordini e, casomai, avrebbero inviato rinforzi
per le truppe coinvolte nei combattimenti più cruenti.
Dopo la conquista di Skalik e di Malesov, i generali e i loro
soldati avrebbero dovuto riunirsi di nuovo in un punto qualsiasi
tra le due città e proseguito uniti per la presa di Würzburg
e di Norimberga, ambite da molto tempo.
Negli ultimi minuti della mia guardia, mentre la luce già
sorgeva grigia e violacea all'orizzonte, davanti ai miei occhi
esausti Zizka e Procopio si abbracciarono stretti come due veri
fratelli. Circondati da alcuni eretici che già intonavano
il : "Noi che siamo i soldati di Dio...", essi innalzarono
le bandiere vermiglie, con l'immagine del Santo Graal, da dietro
il fuoco che si spegneva e diedero inizio ai preparativi per la
campagna seguente, su due fronti di battaglia imprevedibili, dove
avrebbero cercato più vittorie e maggior gloria per il
vero Cristo.
Devo
dirvi che ai fatti che vi racconterò adesso non ho partecipato
personalmente, perché ho dovuto seguire il mio capitano,
Gerolamo, nella capitale del barone. Ma questi mi sono stati descritti
molte volte, anche dallo stesso Gerolamo, che li aveva sentiti
dalla viva voce del generale Procopio, e da molti altri che erano
stati là, e che me li avevano dipinti in modo così
vivo con le loro parole che oggi, chiudendo gli occhi, non so
cos'è memoria e cosa immaginazione e quanto ricordo di
una immaginazione che non si riconosce come tale.
Per quanto ne so io, le cose a Skalik sono andate così:
verso mezzogiorno i suoi abitanti hanno notato la presenza di
una strana nebbia all'orizzonte, che circondava la vecchia città
e solamente verso il tramonto, quando la brezza primaverile dissipò
la nebbia, riuscirono a vedere le migliaia di tende che erano
state piantate attorno alle mura in un immenso cerchio, di alcune
leghe di raggio.
Il generale Procopio, sebbene ignorasse ancora se Skalik fosse
già caduta in mano al barone e la consistenza stessa delle
truppe in città, preferì disporsi ad un assedio
che, se necessario, avrebbe potuto durare per settimane, e attaccare
la città solo dopo essere sicuro che la resistenza era
rimasta senza cibo e indebolita dalla carestia, fiaccando così
il morale del nemico e rendendo possibile addirittura una resa
incruenta. Ma le prudenti disposizioni di Procopio si dimostrarono
subito superflue.
All'alba del giorno seguente, le porte di Skalik si aprirono e
un compatto gruppo di uomini e donne, tutti completamente nudi,
si incamminarono verso le tende dei Taboriti: le donne portavano
in braccio bambini o mazzi di fiori e gli uomini del pane nero
ed anfore di vino.
Procopio, il Grande, inviò loro incontro due luogotenenti
per ascoltarli e ordinò che l'esercito si mettesse in posizione
di attacco, allertato per la possibilità di una sortita.
Il corteo degli spogli fu portato davanti a lui, mentre i suoi
ufficiali facevano largo tra i soldati sbalorditi. Depositarono
i loro regali davanti a Procopio e un uomo alto, di mezza età,
diede il benvenuto ai Taboriti e si dispose a rispondere alle
sue domande.
Le nostre spie, che ci avevano informato con uno zelo eccessivo
e parecchia confusione sui progetti del barone a Malesov, non
avevano ancora raggiunto Skalik e per questo nessuno di noi sapeva
che la piccola città, già da qualche mese, si era
convertita in massa ad una setta eretica ispirata a noi Taboriti,
ma ancor più radicale: gli Adamiti, nome dovuto alla fede
in Adamo ed Eva, i primi abitanti del paradiso, che, per essere
immediatamente anticipato sulla terra, doveva imitare in tutto
e per tutto l'istante primo, quando dal fango e da una costola
il Signore aveva creato l'uomo e la donna.
Già da tempo avevano buttato nel fiume tutti i loro vestiti
e lavoravano nudi, dal borgomastro agli acquaioli, intonando cantici
di lode al paradiso ritrovato. E così come non avevano
vestiti, non avevano né armi né ricchezze, ed aspettavano
solo l'arrivo provvidenziale dei Taboriti per radere al suolo
le loro mura, interrare i fossi e vivere nel migliore dei mondi,
senza la necessità di nessun altra fortificazione che non
fosse la benedizione del Signore dei Cieli che li proteggeva.
Procopio chiese loro notizie sulle truppe del barone. Da molti
mesi ormai quelli di Skalik non avevano nessuna notizia di Paumgartner
o degli abitanti di Malesov. Inoltre non avevano notato nessun
movimento di truppe nei dintorni. Per quello che ne sapevano,
nessuno li minacciava. I rari scambi che anticamente intrattenevano
con la città di Malesov erano stati sospesi e agli Adamiti
era vietato visitare la "città dei degeneri",
che nell'immaginario collettivo di Skalik era diventata la reincarnazione
di Sodoma e Gomorra. Quanto agli abitanti di Malesov, cosa diavolo
ci andavano a fare in una città dove tutto era stato volontariamente
spogliato di ornamenti e di piaceri e dove un popolo nudo ed esaltato
lavorava dall'alba al tramonto cantando le gloria dell'Eden, giudicandosi
libero dal Peccato Originale?
Procopio, il Grande, ascoltò con attenzione le parole di
quell'uomo esile e fiero, che i suoi discepoli chiamavano Jan,
la Fornace della Fede, perché era stato il primo a denudarsi
completamente sfidando i rigori dell'inverno, senza dar mai a
vedere di accusare il freddo o di tremare sotto le forti nevicate.
Il nostro generale, da quando aveva iniziato quell'impresa, non
si era mai aspettato dei gran festeggiamenti, ma ora era costretto
a riconsiderare le sue tattiche. Come prima cosa, avvisò
Jan e gli altri del pericolo di un attacco di sorpresa del barone
Altar Paumgartner a quella città così assolutamente
vulnerabile, e garantì che avrebbe mantenuto le sue truppe
nei dintorni fino a quando non avesse avuto informazioni certe
da parte di Zizka che il pericolo era stato debellato.
Ma gli Adamiti sembravano non dare importanza agli avvertimenti
di Procopio e lo convinsero ad entrare nella città e a
rimanerci per tutto il tempo che giudicasse necessario purché
i suoi soldati partecipassero ai lavori di semina e di molatura,
e che accettassero, prima di partire, di aiutarli a distruggere
per sempre le mura di pietra di Skalik. Procopio accettò,
fece riunire alcuni dei suoi ufficiali ed altri validi soldati
e si dispose ad entrare nella città per conoscere il Paradiso
Terrestre, non senza prima aver ordinato alla maggior parte delle
sue truppe di rimanere accampate fuori, ad una distanza di sicurezza,
in modo che non potessero essere sedotte dalla materializzazione
suprema delle idee per le quali noi Taboriti rischiavamo la nostra
vita. Procopio era conscio che la nostra forza proveniva dal sogno
di una utopia distante, quasi irraggiungibile, e temeva che la
nostra carica combattiva si spegnesse se messa a confronto con
l'utopia già realizzata, lì sotto i nostri nasi.
Il vecchio generale aveva ragione. In fondo, che cosa sarebbe
successo ai crociati se, per esempio, avessero trovato a Gerusalemme
il Santo Graal?
Gerolamo mi ha raccontato, ed io non ho nessun motivo di dubitarne,
che la Città degli Spogli assomigliava davvero al Paradiso
sulla Terra. Tutti là lavoravano con gioia, e c'era abbondanza
delle cose necessarie; gli uomini erano sempre ospitali con gli
alleati stranieri, e per quanto riguarda le donne, il mio capitano
mi ha giurato che, nonostante fossero belle ed esibissero a chiunque
volesse vederli il loro seni nudi e i loro peli rossastri, avevano
sguardi così candidi ed elevati da non suscitare nei visitatori
il benché minimo desiderio lascivo, ma solo ammirazione
e simpatia. Sarà, ma questa è una parte della storia
che ancor oggi faccio fatica ad immaginare... Comunque il fatto
innegabile è che gli Adamiti si erano trasformati in una
immensa e felice famiglia, e si credevano predestinati a ripopolare
la Terra, estirpando da essa, con il potere della loro fede, il
peccato e la cupidigia, le fonti di tutti i mali, inaugurando
a partire della piccola Skalik un regno di virtù e di beatitudine.
Procopio riferì a Gerolamo le sue lunghe conversazioni
di quei giorni con Jan, a proposito del destino delle sette eretiche.
Secondo lui, i due parlavano circondati da bambini, mentre si
preparava l'impasto del pane, ma l'allegria dell'ambiente non
attenuava la gravità dell'argomento. Alla fine si domandarono
fino a che punto gli uomini in generale non fossero disposti a
lasciarsi sedurre dal lusso e dalla grandiosità del Vaticano
e dell'Impero. Non sarebbe più comodo per i forti e per
i favoriti dalla fortuna condurre una esistenza dissoluta e crudele
e, vicini alla morte, comprare con poche monete d'oro l'indulgenza
papale e garantirsi così un posto nel Regno dei Cieli?
Comunque, per Jan nessuna di quelle cose aveva valore. Il Regno
dei Cieli è proprio qui, diceva lui, o in ogni caso deve
iniziare qui e per conquistare la grazia divina è necessario
scoprire prima la felicità delle cose semplici, il disprezzo
per il potere e per l'ostentazione, e guardare il mondo con gli
occhi puri dei bambini e degli angeli. Questo sarebbe possibile?
- chiedeva Procopio. Ma bastava guardarsi intorno per credere
nelle possibilità di quella visione profetica: le donne,
aspettando il pane che avevano preparato, battevano il burro;
i bambini che portavano la legna, cantavano allegramente gli inni
degli Adamiti e persino una versione più dolce del nostro
stesso inno che diceva: "Noi, che siamo i bambini di Dio...",
e poco dopo il cibo fu condiviso con gioia, poi vennero le letture,
poi le preghiere e infine il sonno profondo e senza sogni, perché
tutti i sogni erano stati avverati dalla realtà.
Dopo tre settimane di inutile e dolce attesa, Procopio dovette
cercare i suoi stracci e vestirsi in fretta per ricevere, al di
fuori di quanto rimaneva delle mura, il messaggero di Zizka, il
Guercio. Jan, la Fornace della Fede, voleva accompagnarlo, ma
Procopio preferì andare da solo perché non voleva
che il messaggero vedesse con i suoi occhi il Paradiso, dato che
preferiva raccontare di persona al vecchio compagno di tante battaglie
la sua scoperta e confabulare con lui di quell'opera di volontà
che tanto lo aveva meravigliato nelle settimane precedenti. In
fondo, Procopio, il Grande, era confuso sul destino stesso dei
Taboriti. Non sarebbe stato più logico e sensato se noi
tutti avessimo aderito subito al modo di vivere degli Adamiti,
che sembravano aver già raggiunto l'obiettivo finale degli
eretici, invece di imbarcarci in nuovi sanguinosi combattimenti
a Wurzburg, a Norimberga o dovunque sia? È ragionevole
continuare a cercare con tanta sofferenza ciò che, inavvertitamente,
abbiamo già trovato?
Il messaggero, stranamente, non volle dare dettagli sulla nostra
campagna a Malesov. Disse solo che il nostro compito era concluso
in modo soddisfacente e che l'esercito di Procopio, secondo i
piani, doveva mettersi di nuovo in marcia e riunirsi a quello
di Zizka in un punto a metà tra le due città. Consegnò
a Procopio una mappa con segnato il punto esatto, gli domandò
se aveva qualche obiezione al piano e sentendo la sua risposta
negativa gli augurò buona fortuna e si rimise subito sui
suoi passi. Procopio rimase altri due giorni a Skalik, tentando
di convincere i suoi ufficiali già nudi che dovevano accompagnarlo
ad incontrare Zizka, ma finì per cedere alle richieste
di Jan perché concedesse a quei nuovi convertiti di rimanere
tra gli Adamiti. Procopio era a corto di argomenti perché
anche a lui sarebbe piaciuto immensamente rimane per il resto
della sua vita in Paradiso. Era stanco di guerre interminabili
e della tristezza delle carneficine. Lui sapeva quanto sono tristi
le vittorie, ma non poteva deludere il suo amico Zizka. Riunì
quello che restava del suo esercito fuori dalle mura della città,
ormai quasi totalmente demolite, e partì verso il punto
segnato sulla mappa, portando con sé molti dubbi e lasciandosi
dietro il suo desiderio, oltre ad alcuni dei suoi migliori uomini.
La Provvidenza Divina dispone di noi come vuole e apre i nostri
occhi e l'udito davanti a scene che si trasformeranno in bei sogni
o in terribili incubi per molto anni a venire. È così
che lei fa di noi la sua opera, e a noi non è dato né
scegliere ciò che dobbiamo vedere e sentire, né
ciò che possiamo sognare, né ciò che dovremo
ricordare, né ciò che avremo la grazia di dimenticare.
Ebbene, la Provvidenza aveva deciso che il generale Zizka promuovesse
il mio capitano, Gerolamo da Brno, a suo luogotenente nell'imminenza
dell'attacco che si annunciava, ed io, suo attendente, in questo
modo fui spinto al centro di quegli eventi. Quel quadro di decisioni
a cui avevo assistito, e del quale avevo custodito un'immagine
così nitida per il futuro, mi arrivava adesso anche animato
dalle sue voci.
Seduti sull'erba, in cima ad una collina, osservavamo da lontano
le mura di Malesov. Sotto la luce del tramonto la città
di pietra sembrava tinta di vermiglio. Zizka, il Guercio, per
qualche istante concentrò la sua attenzione su ciò
che era visibile ad occhio nudo, e distinse che la luce rossastra
non era solo il riflesso del sole, ma proveniva della città
stessa, come se vari punti all'interno delle fortificazioni fossero
in fiamme. Chiamò vicino a sé Gerolamo e, siccome
non si fidava interamente del suo unico occhio, gli domandò
cosa vedesse. Il mio capitano rispose che da quella distanza era
impossibile essere certi di qualcosa, ma comunque gli sembrava
ci fosse fumo e alcuni focolai di fuoco nella parte centrale e
in fondo. "È possibile che Paumgartner abbia fatto
evacuare la popolazione e incendiato la città", disse.
Zizka ordinò che la mattina dopo i carri pesanti si preparassero
per l'attacco, protetti davanti e sui fianchi dalla fanteria.
Poi dispose che le truppe riposassero, si coprì con una
pelle di montone e rimase ancora per molto tempo in cima alla
collina, ad osservare i bagliori lontani, come se fossero una
costellazione di stelle vermiglie. Con un tono di voce basso e
il viso immobile e contratto lo sentì dire a Gerolamo,
o forse a se stesso: "Il barone non può aver mandato
nella foresta tutte le donne e bambini, ma solo gli uomini in
grado di combattere. Non sarà che questo incendio sia solo
un'esca per ingannare le nostre truppe? I nemici potrebbero benissimo
essere trincerati a Malesov ad aspettarci..."
Quella notte il generale non dormì. Era assalito da uno
strano presagio. Non che ci fosse qualche rischio reale di una
sconfitta militare. Le nostre truppe, anche se dimezzate dalle
divisioni dirette a Skalik, erano molto più numerose, e
il nostro morale non poteva essere più alto. Eravamo tutti
ansiosi di catturare il barone e di infliggergli il meritato castigo.
Molte storie su di lui erano corse di bocca in bocca, e si potrebbe
quasi dire che, almeno per i Taboriti, Paumgartner si era trasformato
in una specie di leggenda del male. Fino a che punto fossero vere
le voci delle sue atrocità sarebbe impossibile dirlo, ma
alcuni casi erano noti in tutto il Sacro Romano Impero, come il
fatto che il barone avesse strangolato il suo unico figlio con
le sue stesse mani, dopo averlo lasciato languire di fame e di
freddo in una umida cella, perché si era rifiutato di cedere
la sua giovane moglie, la notte delle nozze, alla precedenza del
padre, che accampava il diritto di deflorare tutte le vergini
che gli andassero a genio. No, il presagio del generale non aveva
niente a che vedere con i combattimenti, ma con quella strana
città a poche leghe da lì, come se nei suoi dintorni
l'aria fosse già impregnata di effluvi ombrosi e pestilenziali
che mettevano in fugga gli uccelli, le lepri e i cervi, facendo
calare un silenzio che trasformava la notte stessa in una segreta
dimenticata.
Due ore dopo l'alba i nostri carri pesanti circondavano già
le mura di Malesov senza aver incontrato nessuna resistenza. Ma
la città non era deserta. Da fuori potevamo sentire un
coro disperato di gemiti, ululati e terribili lamenti, voci incomprensibili
di donne isteriche, grida lancinanti che infestavano la nuvolosa
mattinata. Zizka si decise ad attaccare la città assediata
e diede ordine alla fanteria di usare l'ariete e di abbattere
i grandi portoni della città. I primi soldati che entrarono
in Malesov ritornarono fuori di corsa, attraverso gli stessi portoni
da cui erano entrati, e passarono davanti a noi senza fermarsi,
le facce infuocate, gli occhi sgranati, incapaci di riferire quello
che avevano visto. Uno di loro venne verso di me e, con mio grande
spavento, mi afferrò la testa con tutte e due le mani,
avvicinò la sua faccia febbrile a un palmo dalla mia, aprì
la bocca e rimase così, a bocca aperta, senza emettere
nessun suono, i suoi occhi esaltati fissi nei miei, fino a quando
arrivarono alcuni suoi compagni, lo presero per le braccia, mi
liberarono e lo trascinarono via da lì, sempre con quella
bocca e quegli occhi che sono rimasti dentro di me fino ad oggi.
Il nostro generale riunì quindi una ventina di cavalieri
e decise di entrare lui nella cittadella. Quello che vide quel
giorno, all'interno della fortezza del barone Altar Paumgartner,
fu lo spettacolo più tenebroso che gli si fosse svelato
in tutta la sua vita di guerre e di massacri. Alcuni dei nostri
migliori cavalieri non riuscirono ad accompagnarlo in quel sopralluogo,
pietrificati da un orrore incontrollabile. Zizka, il Guercio,
di fronte a ciò che vide pensò di ringraziare Cristo
per avergli lasciato solo un occhio buono, perché per lo
meno così alcuni dettagli macabri gli sfuggirono. Noi,
i Taboriti, con la nostra incrollabile certezza di conquistarci
il Paradiso, ci stavamo preparando a conoscere l'Inferno sulla
Terra.
Lo scenario non lasciava dubbi: il barone aveva piazzato delle
sentinelle sulle vie principale che portavano a Malesov e aveva
saputo dell'attacco imminente almeno un giorno prima del nostro
arrivo. Da quel momento diede inizio al processo di devastazione
della città, e deve aver impiegato un giorno intero per
preparare l'orrendo circo che aveva lasciato in attesa degli attaccanti.
Certamente aveva speso molto tempo ad elaborare minuziosamente
nella sua mente i dettagli di quel teatro di terrore, in modo
tale che la sua realizzazione era stata rapida ed efficace. Tutto
indicava che, alcune ore prima dell'assedio, ed avendo raggiunto
la sua opera il grado di morbosità che aveva concepito,
il barone Altar Paumgartner riunì gli uomini ancora disposti
a combattere, o meglio, i sopravvissuti di Malesov, e fuggì
nella foresta. Quello che pensava di fare da quella sua nuova
base, con gli uomini e le provviste decimate, era impossibile
da prevedere, a quel punto.
Già ad un passo dai portoni divelti cominciava la fila
degli alberi umani. Erano molti gli impalati in cima a lunghe
aste. I pali entravano dall'ano e in molti casi uscivano dalla
bocca, oppure infilzati fino a metà dei corpi nei bambini,
alcuni dei quali muovevano ancora le piccole braccia rantolando
nell'agonia. Perfino un cane era stato impalato insieme ai bambini
per fargli compagnia in quel supplizio abbietto che il barone
probabilmente aveva copiato dai barbari ottomani.
Tra un palo e l'altro erano stati sepolti fino al collo degli
uomini. Era un orto di teste. Da ognuno delle loro bocche pendevano
flaccidi i genitali.
Vagando scombussolate tra i pali e le teste, le donne impazzite
si stracciavano le veste e si strappavano i capelli, emettendo
urli gravi con quel poco di voce che gli era rimasta, dopo aver
assistito incatenate alle mutilazione dei loro figli e mariti.
Era questo il coro di lamenti che Zizka aveva sentito da fuori
le mura per tutta la notte. Le sconvolte di Malesov urtavano nei
vecchi che, gli occhi trafitti dagli stiletti, barcollavano a
tentoni cercando i cadaveri dei nipoti. Per terra, in un pantano
di sangue, il cui odore forte e dolce ci stomacava, strisciavano
i ragazzi a cui erano stati amputati le mani e i piedi, con le
facce già esangui perché non era rimasto più
nessuno in grado di arrestare le emorragie.
Quanto più ci addentravamo in quel mondo infernale, più
rimanevamo increduli davanti a quella bolgia. I nostri cavalli
nitrivano e si impennavano ogni volta che erano afferrati per
la coda, per la criniera, o per qualche altra parte da delle donne
che gemevano con il viso sfigurato dal fuoco, ragazze bruciate,
con la pelle flaccida che pendeva a brandelli dai muscoli esposti.
Dietro le donne, come piccole ombre o anime, alcuni bambini con
la mascella divelta dai colpi d'ascia sgranavano i loro occhi
spaventati dal centro dei teschi.
In fondo alla cittadella le case erano state trasformate in segrete.
Molte erano state incendiate. In quelle che ancora erano in piedi
il generale trovò mucchi di prigionieri emaciati che da
giorni si alimentavano con le proprie feci. In altre celle degli
uomini si rotolavano a terra per il dolore e vomitavano sangue,
dopo essere stati obbligati ad ingoiare manciate di piccoli chiodi.
E così tutti i sinistri racconti sui carattere di Altar
Paumgartner, che molti pensavano fossero una montagna di esagerazioni
alimentate dalla paura, trovavano la loro conferma a Malesov.
"Come ha potuto fare questo alla sua stessa gente?..."
Si domandava Zizka, il Guercio. "Da dove gli è venuta
la forza con cui è stato capace di portare a termine una
tale devastazione? Dal demonio? Dalla pazzia? O dalla sua stessa
paura? E poi, perché gli stessi aguzzini non sono stati
fermati in tempo dalla Provvidenza Divina?" Zizka pronunciò,
addolorato, ad uno ad uno tutti i dubbi di Epicuro: "Dio,
o vuole impedire il male e non può, o può e non
vuole, o non può e non vuole, o vuole e può. Se
vuole e non può, è impotente, ciò che è
impossibile in Dio. Se può e non vuole, è invidioso,
il che nello stesso modo è contrario a Dio. Se non vuole
e non può, è invidioso e impotente, pertanto non
è neanche Dio. Se può e vuole, il che è l'unica
cosa compatibile a Dio, da dove proviene quindi l'esistenza dei
mali? Per quale ragione non li impedisce?"
Il primo provvedimento del Guercio, prima ancora di seppellire
i morti e di finire i sofferenti come si fa con i cavalli moribondi,
fu di far chiudere di nuovo i portoni per evitare che la curiosità
spingesse dentro le mura altri soldati. Molti di quelli che erano
entrati erano impazziti, alcuni cadevano a terra in convulsioni
epilettiche, altri piangevano copiosamente e non riuscivano ad
articolare le parole, altri ancora erano scappati da soli dall'accampamento
verso qualsiasi posto che fosse lontano da quel marciume a cielo
aperto. Ma ciò che più mi ha colpito, io che felicemente
ero ancora troppo piccolo per comprendere la dimensione della
tragedia, fu vedere il mio capitano, Gerolamo da Brno, singhiozzare
per quattro giorni e quattro notti, rintanato in fondo alla sua
tenda, rifiutando il cibo che gli portavo e nascondendo il suo
viso con le mani perché non vi leggessi l'orrore e la vergogna.
Dopo aver atteso una settimana, senza nessun segno delle truppe
del barone, Zizka cominciò a preparare la ritirata, prima
che gli umori di Malesov seminassero la peste a la sedizione tra
le sue truppe. Preparò una mappa con il punto in cui il
suo esercito avrebbe dovuto incontrarsi di nuovo con quello di
Procopio e scelse due cavalieri per portare il messaggio a Skalik.
Avrebbero dovuto essere di ritorno con la risposta dell'amico
al massimo in tre giorni.
I due uomini, per guadagnare tempo, tracciarono un percorso in
linea retta che passava per una valle al sud, costeggiando il
fiume, e attraversava parte della foresta. Seguendo questo percorso
in meno di un giorno e mezzo di galoppo sarebbero arrivati a Skalik.
Ma passarono cinque giorni e i cavalieri non erano ancora ritornati
a Malesov. Zizka aspettò un giorno in più prima
di concludere che i suoi messaggeri erano stati catturati e trucidati
dal barone nei sentieri della foresta. Nel frattempo lo stato
d'animo delle nostre truppe si era ancor più deteriorato
e cinque dei nostri uomini, che erano stati colti in flagranza
di sevizie alle pazze sconvolte, erano stati decapitati davanti
a tutti per ordine del generale, come esempio. Zizka sapeva che
era necessario andarsene da quel posto il più in fretta
possibile prima che il nostro esercito di uomini puri e pieni
di fede si trasformasse in un immenso covo di serpenti.
Il generale scelse un nuovo messaggero e gli affidò una
nuova mappa, ordinandogli di seguire una strada più lunga,
salendo la montagna e aggirando la valle, evitando di passare
vicino alla foresta. Gli ordinò anche di non ritornare
a Malesov, ma di andare direttamente nel punto segnato nella mappa
e di aspettare là le prime truppe che fossero arrivate,
le sue o quelle di Procopio. Seguendo quel nuovo percorso il viaggio
del messaggero sarebbe durato non meno di quattro giorni, e Zizka
sapeva che non poteva mettere subito in marcia il nostro esercito.
Nel caso avessimo incontrato a metà strada le truppe del
barone, non eravamo in condizione di combattere. La depressione
e la malinconia si erano fatte largo fra di noi, soldati e ufficiali,
non solo per lo sgomento di quanto avevamo visto, ma perché
tutti noi ci sentivamo macchiati e colpevoli di quegli orrori,
dato che è risaputo che ciò che l'occhio dell'uomo
vede entra a far parte dell'uomo stesso. Il tronco della fede
era stato scosso e le sue radici erano scoperte. Il sentimento
di impotenza che ci contagiava, se non fosse stato cancellato,
ci avrebbe trasformato in prede facili e apatiche per qualsiasi
attacco del nemico, anche se molto inferiore in armi ed effettivi.
Zizka diede quindi inizio, la notte stessa, ai rituali di penitenza.
La predisposizione degli eretici per l'autoflagellazione era tale
che al generale bastò suggerire al suo luogotenente l'opportunità
delle pratiche di purificazione perché tutti lì
si spogliassero immediatamente e formassero lunghe file in processione.
Noi camminavamo in cerchi concentrici e ci flagellavamo le spalle
con energia, mentre intonavamo gli inni Taboriti. Alcuni seguivano
la processione in ginocchio, lasciando una scia di sangue dietro
di loro, altri vi partecipavano portando sulla testa degli immensi
pietroni. Un giovane soldato moravo, mio collega di truppa, riuscì
con il nostro aiuto a farsi crocifiggere, copiando in tutti i
dettagli il supplizio del Signore, e si fece un punto d'onore
il rimanere inchiodato alla croce fino al tramonto del giorno
seguente. Quando finalmente fu deposto, il ragazzo era già
agonizzante. Com'era da aspettarsi, non sopravvisse alla sua espiazione
e nemmeno resuscitò come il suo esempio.
Il terzo giorno, che coincise con una domenica, fu un giorno di
sollievo e di riposo. I soldati pregavano a bassa voce e lenivano
le ferite dei loro commilitoni. Alcuni, o perché troppo
debilitati o perché finalmente rasserenati, entravano in
un estasi religiosa e descrivevano visioni magnifiche, conversavano
con gli angeli e bevevano dal calice di Cristo sulla tavola della
Santa Mensa. Anche Zizka sembrava più sollevato. Sapeva
che avrebbe potuto comandare subito il "levate le tende"
e procedere senza grandi rischio verso l'incontro con il suo amato
Procopio o con il mostro collerico. Le lacrime, il dolore fisico
e alcune gocce di sangue avevano fatto per noi ciò che
non avrebbero fatto mille messe.
Il punto di incontro scelto da Zizka era un'ampia pianura ai piedi
delle montagne, più vicino a Skalik che a Malesov. Il popolo
di Procopio, il Grande, arrivò per primo e subito innalzò
lo stendardo del Santo Graal e piantò le sue tende. Noi
arrivammo il giorno dopo e occupammo il lato opposto della pianura,
per rimanere più vicini al fiume.
I due generali, quando si incontrarono, si abbracciarono lungamente
e salirono insieme su un carro pesante, da dove, le lacrime agli
occhi, presentarono le loro armi alla moltitudine esultante. Ancora
abbracciati intonarono insieme alle truppe l'inno: "Noi che
siamo i soldati di Dio...", poi discesero dal carro e si
diressero, per confabulare e raccontarsi le loro esperienze, verso
una grande tenda illuminata da un braciere centrale che proiettava
le sue ombre ingigantite sulle pareti di tessuto.
La riunione dei due capi durò tutta la notte, fino all'alba.
Dal di fuori, formando un grande cerchio, gli eretici che avevano
servito ognuno dei due generali, seguivano il colloquio attraverso
il teatro di ombre in cui si era trasformata la tenda principale.
Durante la prima ora i due amici bevevano seduti e ascoltavano
attentamente l'uno le parole dell'altro. Lentamente una eccitazione
si impossessò dei due uomini. Procopio fu il primo ad alzarsi
e camminava nervosamente da un lato all'altro della tenda, stropicciando
il suo cappello con le mani, a testa bassa, e ogni tanto si accucciava
vicino a Zizka, che ancora seduto gesticolava molto, si asciugava
con la mano il sudore della fronte e agitava il suo bastone per
sottolineare questo o quell'argomento. Così, la conversazione
si trascinò per ore, e i pochi soldati che, come me, erano
ancora svegli quando le prime luci del giorno spuntarono all'orizzonte
poterono vedere l'ombra di Ziska, furiosa, fare a pezzi la brocca
del vino con un colpo di bastone, mentre Procopio sbatteva per
terra il suo cappello e usciva dalla tenda ad ampi passi, il viso
in fiamme.
Ciò che era successo là dentro, ed io l'ho saputo
solo dopo, fu che, dopo aver descritto nei dettagli il modo di
vita soave e perfettamente cristiano degli abitanti di Skalik,
Procopio aveva proposto al Guercio che i Taboriti si dirigessero
tutti insieme verso la città-paradiso e, insieme a Jan,
la Fornace della Fede, costruissero una civiltà edenica,
facendo venire dalla Boemia i loro ultimi parenti, convertendoli
all'adamismo e fondando quella che lui chiamò a volte "La
Nazione Celeste", e a volte "La Dimora del Calice".
Questa sua proposta rifletteva non solo il suo pensiero ma ciò
che vi era di più profondo nello spirito dei suoi uomini.
Zizka non riusciva a immaginare quello che Procopio descriveva
con così grande entusiasmo. Per lui, tutto ciò gli
sembrava un'inqualificabile assurdità. Le sue parole furono
più o meno queste: "Come potranno i Taboriti difendersi
dagli inevitabili attacchi dal barone in un posto così
vulnerabile, sprovvisto di mura, di armi e anche di vestiti? Chi
ci proteggerà da quella forza maligna? E che tipo di pace
potrà regnare sulla Terra fino a quando l'incarnazione
del diavolo e i suoi seguaci non saranno del tutto annichiliti?
Per di più, noi avevamo promesso al Signore, con parole
solenni, di liberare dal giogo dell'Impero le città di
Würzburg e Norimberga e di riunire forze ancora più
terribili per cacciare i cani papisti dal Vaticano, aprire i suoi
portali ai veri cristiani e di ribattezzarlo con il nome di Cattedrale
Madre Della Santissima Trinità! Dobbiamo moltiplicare le
nostre vittorie per la gloria di Cristo, marciare sopra i cadaveri
dei mercenari della Santa Sede e fondare il Paradiso sulla Terra
per tutti gli esseri, non solo per noi e per pochi altri fanatici
nudisti!" Anche questi suoi argomenti riflettevano non solo
il suo pensiero ma ciò che vi era di più profondo
nello spirito dei suoi uomini.
Nonostante i due capi fossero rimasti abbastanza lontani l'uno
dell'altro per tutto il giorno seguente, la notizia del diverbio
tra i due generali si diffuse nei due eserciti. I soldati, a voce
alta, facevano propri gli argomenti che non avevano sentito, ma
solo indovinato attraverso il gioco inquietante delle ombre della
tenda. Tra l'altro, è stato un errore che ho commesso anch'io.
Le nostre opinioni erano difese con una tale veemenza che non
diventava una aggressione diretta solo per la paura del rimprovero
dei nostri capi. I partigiani di Zizka davano del "codardo"
a quelli di Procopio, che a loro volta gli davano del "sanguinario".
Quelli che erano stato a Malesov accusavano quelli che erano stati
a Skalik di essere dei "disertori", e questi a loro
volta accusavano gli altri di essere degli "avventurieri".
E gli uni e gli altri si accusavano a vicenda di essere dei "pazzi,
dei perduti, degli stregati..." Ognuno, a suo modo, appassionatamente.
La tensione trai due schieramenti cresceva, al punto che i miei
compagni che avevano patito Malesov impedirono agli uomini che
avevano sognato Skalik di arrivare al fiume, sulle cui rive ci
eravamo accampati. Era l'unica rappresaglia possibile, l'unica
forma di pressione, perché non potevamo certo dichiarare
una guerra aperta. Gli uomini di Procopio, flagellati dalla rogna
e bramosi di lavarsi, consideravano quel divieto un affronto ed
erano pronti a farsi strada verso il fiume con tutti i mezzi.
Al presentimento del rischio terribile celato in quell'atmosfera
di zizzania i due generali si scambiarono messaggi segreti e decisero
di simulare una riconciliazione pubblica per sedare le truppe.
Salirono di nuovo insieme sul carro pesante e davanti a tutti
si abbracciarono e si baciarono sulle guance. Ma la messa in scena
non sortì l'effetto sperato. Per ognuno dei due schieramenti,
il generale nemico aveva dato il bacio di Giuda, indicando ai
suoi soldati chi doveva essere tradito e sacrificato.
L'odio si stava diffondendo come la rogna, e nessuno, nemmeno
i grandi generali, nemmeno Cristo risorto, avrebbe potuto mutare
il corso degli avvenimenti. In una notte senza luna e senza Dio,
gli uomini che avevano conosciuto Malesov attaccarono quelli che
avevano sognato Skalik al grido di "Morte ai traditori! Morte
ai Giuda venduti!" e iniziarono una lotta sanguinosa, che
la sorpresa faceva pensare sarebbe diventata un massacro se non
fosse stato per il sonno leggero dei nemici e per la loro capacità
di una pronta reazione, incendiata dal desiderio di ritornare
nel Paradiso.
In quei momenti non so dire se mi mancò il coraggio o la
capacità di odiare. Magari io semplicemente non ero all'altezza
di quel grande esercito, o possiamo pensare in altro modo, dal
momento che è lecito sospettare della purezza della fonte
da dove fluisce il coraggio degli uomini. Possiamo pensare che,
in fondo, il codardo è chi non vuole ferire né essere
ferito, e questo si avvicina parecchio alla virtù cristiana,
se non addirittura si confonde con essa. Soprattutto, io mi sentivo
incapace di lottare, di fronteggiare uomini molto più grandi,
rabbiosi e brutali di me, che con il mio corpo magro, la fragilità
delle mie ossa, la mia gioventù quasi femminea, potevo
solo pensare a salvar la pelle. E fu ciò che feci. Mi nascosi
da quella tempesta di muscoli e di ferro che mi circondava. Mi
infilai sotto la base di legno di un carro danneggiato, tra le
due ruote frontali, e attraverso la fessura tra l'asse spezzato
e la base del carro assistei in silenzio, trattenendo il fiato,
senza muovere un dito, all'ultimo atto della più grande
avventura mai tentata dalla mia razza.
La guerra intestina tra i Taboriti fu breve e cruenta. Per tutta
la notte la valle si trasformò in una immensa arena di
gladiatori che lottavano corpo a corpo, con armi ufficiali e con
altre improvvisate, e verso il mezzogiorno del giorno seguente
un terzo degli uomini dei due schieramenti giaceva morto e un
altro terzo agonizzava. Tra i corpi abbandonati dalla carneficina
c'era quello di Procopio, il Grande, trafitto dalle lance del
suo stesso esercito, l'unico nemico che non aveva voluto né
saputo combattere.
Zizka, il Guercio, vedendo il suo amico ucciso dalla ribellione
dei suoi sottoposti, dopo aver invocato la pace gridando fino
all'alba, fu preso dalla disperazione e da quella pazzia che era
riuscito ad arginare a Malesov. Si mise a camminare senza meta,
inciampando nei cadaveri, tra cui anche quello del mio capitano
Gerolamo, che non riconobbe, e con le mani sulla testa, come quelle
donne sconvolte che aveva conosciuto, si buttò nel fiume
con tutta l'armatura.
I soldati ancora vivi avevano smesso di lottare perché
non avevano più forza, anche se c'era ancora odio d'avanzo.
Pochi, barcollando, cercavano ancora nemici con la spada in mano,
altri svenivano per la stanchezza o si reggevano attoniti le proprie
membra ferite. Altri piangevano per i loro capi, per la disgrazia
che si era abbattuta su tutti loro, per l'insensatezza di aver
fabbricato nemici, essendone mancati a Skalik e a Malesov, nel
loro stesso seno. Molti impazzivano e molti si lasciarono dissanguare
fino all'ultima goccia.
Così fu solo un pugno di uomini spaventati, esausti e feriti,
quello che si riunì al tramonto nel centro della valle,
uniti per l'ultima volta, innalzando lo stendardo del Calice e
intonando il "Noi che siamo i soldati di Dio..." E ciò
che ha unito quel pugno di eretici, che fino a poche ore prima
si battevano mortalmente gli uni contro gli altri, e ciò
che li ha svuotati dell'odio e li ha fatti ritornare ai loro principi,
oltre le visione di Inferno e Paradiso, fu un'altra magnifica
visione, il cui ricordo ancora oggi mi dà le vertigini:
davanti a noi, in cima alla collina, in una splendida e lucente
armatura d'oro e d'argento, alzando una enorme lancia imbandierata
con il colore dell'Impero, il barone Altar Paumgartner osservava
la sua opera, il frutto della sua strategia e della sua pazienza,
e circondato dai suoi nobili cavalieri quel gigante della ragione
pratica si preparava a scendere nella valle per liquidare, senza
odio né allegria, quel pugno di poveri diavoli che un giorno
avevano osato ribellarsi all'ordine mondiale.
(Tratto dalla collana, scritta originalmente in Portoghese,
O Entulho e o Analista ["Il pattume e l'analista",
inedita in Italia], traduzione dell'autore, revisione di Clelia
Ciriminna)
Nella foto, Julio Monteiro Martins
.
Successivo
Copertina
|