L'UOMO DI CULTURA E LE SUE RESPONSABILITA'?
Aimé Césaire
Ho pensato di intervenire a questo Congresso presentando alcune
considerazioni su di un argomento essenziale: quello della legittimità
della nostra attività di scrittori e di artisti neri e
quello, ad esso complementare, delle responsabilità che
ci riguardano come uomini di cultura, nella duplice direzione
congiunta: del mondo e dei nostri rispettivi paesi di origine.
Dove ci troviamo a questo punto della nostra storia? Siamo arrivati
ad un momento solenne: l'ora in cui il colonialismo anche se non
è ancora morto mostra comunque di riconoscersi come mortale.
Il colonialismo può ancora opprimere e distruggere in maniera
ancora più crudele che mai, ma una cosa è sicura:
esso è moralmente colpito, si sente perituro ed ha perduto
la sua sicurezza storica.
Il miglior segno di questa situazione credo che sia offerto dalla
rapida fortuna negli ultimi tempi della parola decolonizzazione.
Tanto che i nostri contemporanei anche se confusamente sono arrivati
a comprendere che la nostra epoca può essere definita in
questo modo: il secolo XIX è stato il secolo della colonizzazione
mentre quello XX è stato il secolo della decolonizzazione.
Ma allora, si dirà, visto che è questa la china
del secolo, basta "lasciar fare" e la decolonizzazione
si compirà da sola. Bisogna convincersi, invece, che: la
decolonizzazione non è affatto un processo automatico,
e in più: le decolonizzazioni non sono tutte uguali. La
decolonizzazione non è automatica
Questo significa
che la decolonizzazione non è mai il risultato di un "fiat"
della coscienza del colonizzatore, ma è sempre il portato
di una spinta e di una lotta. Anche quella più pacifica
è sempre il risultato di una rottura.
Insisto: le decolonizzazioni non sono tutte uguali. Prova ne sia
la disparità nello sviluppo dei paesi diventati liberi:
alcuni si divincolano con difficoltà dagli strascichi del
colonialismo, mentre altri, al contrario, procedono rapidamente
e con sicurezza sulla strada soleggiata dell'indipendenza.
Mi sembra che queste considerazioni generali possano fornirci
la giusta dimensione per intendere il problema della nostra legittimità
e delle nostre responsabilità di uomini di cultura.
Il nostro dovere, il nostro doppio dovere, ci appare chiaro: è
quello di accellerare la decolonizzazione ed è, nel presente,
di preparare la buona decolonizzazione, una decolonizzazione senza
difficoltà.
Che significa: accellerare la decolonizzazione? Significa che
bisogna con tutti i mezzi accellerare la maturazione della coscienza
popolare, senza la quale non ci sarà mai una vera decolonizzazione.
È nelle classi popolari, infatti, che sopravvive nella
maniera più spontanea ed evidente, anche contro la più
forte oppressione colonialista, il sentimento nazionale.
Ma è giusto anche dire che questo sentimento immediato
ha bisogno di essere reso autentico, di essere propagato e raffinato.
Bisogna trasformare questo sentimento in una vera e propria coscienza,
una specie di sole radiante. E solo l'uomo di cultura può
farlo.
Non si tratta di avvalorare una concezione messianica dell'artista
e dello scrittore. Non mi sentirete mai dire, alla maniera romantica,
che il poeta o lo scrittore sono i creatori delle nazioni o dei
valori nazionali. Si tratta di una cosa più semplice: l'uomo
di cultura è chi attraverso la creazione esprime
e dà forma. E questa stessa espressione, proprio
per il fatto di essere espressione e quindi un portare alla luce,
crea o ricrea - dialetticamente - secondo la propria immagine
il sentimento di cui raccoglie l'emanazione.
Non c'è mai, io credo, carenza di sentimento nazionale.
Semmai c'è una inadeguatezza dell'uomo di cultura ad esprimerlo.
In ogni momento il sentimento nazionale c'è: malinteso,
forse, e in forme strane o addirittura derisorie, ma c'è.
Anche nei paesi più disgraziati, quelli che sono stati
più assimilati dalle culture dei colonizzatori,
c'è e contiene tutte le potenzialità della
rinascita culturale. Ma questo sentimento va portato alla luce,
va esaltato e in un mondo di falsi valori va valorizzato. Questo
è esattamente il ruolo dello scrittore e dell'artista,
e su di esso si fonda la sua legittimità.
Non è necessario cercare altrove il segreto dell'abbondanza
"poetica" nei paesi che nascono. Gli Occidentali dicono:
"Che strano! Avrebbero bisogno di tecnici e invece producono
poeti".
Da questo punto di vista si può avere fiducia nei popoli.
Ciò che vale (essi lo sanno molto bene, lo sanno dall'intimo)
è che ogni tipo di creazione, proprio in quanto creazione,
partecipa alla lotta liberatrice.
Si può spiegarlo come si vuole, ma questo è il potere
e la grazia della parola, anzi, il potere dell'atto che crea.
Il regime coloniale è la negazione dell'atto creativo:
negazione della creazione stessa. Nella società coloniale
non c'è soltanto una gerarchia tra padrone e servo,
c'è anche, implicita, una gerarchia tra creatore e consumatore.
Il creatore di valori culturali, in una colonia che si rispetti,
è il colonizzatore. E il consumatore è il colonizzato.
E tutto va per il verso giusto fino a che la gerarchia non viene
toccata. La legge del paese colonizzato è: "Si prega
di non disturbare" (1).
La creazione culturale, proprio perché creazione, disturba
e rivolta: nella gerarchia coloniale, infatti, sovverte i ruoli
facendo diventare il colonizzato creatore da consumatore che era
e doveva essere. Insomma, nel cuore del regime coloniale essa
restituisce l'iniziativa storica a colui che ne è stato
derubato: derubare è la "vocazione" del regime
coloniale.
E' per questo che il colonizzatore guarda sempre con sospetto
qualsiasi forma creativa del colonizzato. Può anche sopportarla
e provare addirittura ad utilizzarla, ma per il colonizzatore
la creazione indigena è fondamentalmente insolita e
quindi pericolosa. Se se ne vuole una prova, tra le tante, basti
pensare l'accoglienza riservata a primi esiti della letteratura
negra in Francia, all'ostilità con la quale furono trattati
un René Maran o un Rabearivelo trent'anni fa
La loro
semplice esistenza faceva scandalo
Per la stessa ragione per cui è considerata pericolosa
dal colonizzatore la creazione culturale è rassicurante,
nel vero senso della parola, per il colonizzato. Essa, infatti,
fa da contrappeso al complesso di inferiorità che il colonizzatore
ha per "missione" di istillare nei colonizzati.
Ecco perché bisogna creare
Sì, in definitiva,
è agli artisti, agli scrittori e agli uomini di cultura
che tocca, nella quotidianità delle sofferenze e delle
ingiustizie, maneggiando ricordi e speranze, di costruire delle
grandi riserve di fiducia, dei grandi silos di forza ai quali
i popoli nei momenti critici possano far rifornimento di coraggio
e assumersi la responsabilità diretta di forzare l'avvenire.
Alcuni hanno detto che lo scrittore è un ingegnere di anime.
Noi, nella congiuntura storica nella quale ci troviamo, siamo
dei propagatori di anime, dei moltiplicatori di anime,
e al limite degli inventori di anime.
E aggiungo che la missione dell'uomo di cultura nero è
quella di rendere possibile una buona decolonizzazione e non una
decolonizzazione qualsiasi.
Voglio che mi si intenda bene: è chiaro che per noi non
c'è e non ci potrebbe essere una cattiva decolonizzazione
in sé. Per il semplice motivo che la peggiore decolonizzazione
sarebbe di gran lunga e sempre preferibile alla migliore colonizzazione.
Tra decolonizzazione e colonizzazione non c'è una scala
graduata, c'è una differenza di valori.
Infine dico e ripeto che è nel seno della decolonizzazione
che ci sono delle gradazioni, che le decolonizzazioni non sono
tutte uguali e se la "buona decolonizzazione" non può
essere definita se non per opposizione a una "decolonizzazione
meno buona", dico che quest'ultima è quella che nell'orizzonte
dell'indipendenza non fa altro che cercare di utilizzare le strutture
coloniali, adattandole alla nuova realtà, mentre la vera
decolonizzazione è quella che comprende che è suo
dovere di eliminare in maniera definitiva tutte le strutture del
colonialismo.
Per farmi capire meglio dirò qualcosa che forse potrà
dispiacere a qualcuno, ma che bisogna dire perché è
vera e perché individua meglio le nostre responsabilità:
troppo spesso vediamo riproporsi nelle società liberatesi
dal colonialismo delle vere e proprie strutture coloniali o colonialiste.
O ancora, in paesi imperfettamente decolonizzati si rischia di
veder riapparire in qualsiasi momento dei fenomeni tipicamente
colonialisti, che non vengono strumentalizzati dal colonizzatore
o dall'imperialista, ma da gruppi di interesse che nelle nazioni
liberate si propongono come epigoni del colonialismo e si servono
degli strumenti inventati dal colonialismo.
Si pensi, per fare un esempio, ai conflitti razziali in America
centrale e in America latina e ci si accorgerà che si tratta
di un'eredità o di una sopravvivenza del regime coloniale,
in paesi che se ne sono sbarazzati centocinquant'anni fa. E se
ricordo questo caso non è per disprezzare lo sforzo liberatore
che ha condotto questi paesi a formarsi come nazioni, ma è
per dire a tutti i responsabili che dobbiamo prendere consapevolezza
di un fatto: la lotta contro il colonialismo non sarà terminata
fino a quando l'imperialismo non sarà vinto militarmente.
In breve, non dovremo darci da fare per spostare un po' in là
il colonialismo o per interiorizzarne la cultura della servitù.
Bisogna invece distruggerlo, estirparlo nel vero senso della parola,
e cioè togliergli le radici. Ecco perché la vera
decolonizzazione dovrà essere rivoluzionaria o non sarà
niente. Questa prospettiva permette di comprendere come sia vano
il tentativo di alcuni di accreditare l'idea che tra l'epoca coloniale
e il tempo della libertà bisogna governare il cammino per
tappe e transizioni. In effetti, l'Europa presaga della fine inevitabile
del colonialismo e volendone ritardare la scadenza, ha inventato
la teoria delle tappe.
E' sempre stata una fissazione dell'Occidente. Fin dai tempi dello
schiavismo nei territori sotto la sovranità francese -
prima del 1848 - delle anime buone e degli spiriti illuminati,
acquisiti alla causa dell'emancipazione degli schiavi, preconizzavano
l'idea che bisognasse arrivarci attraverso delle tappe necessarie.
Penso, ad esempio, allo storico Tocqueville, che, favorevole al
principio dell'emancipazione degli schiavi, lo sfumava e temperava:
"Pensate un po': se si progettasse di rendere la libertà
agli schiavi da un giorno all'altro, sarebbe una vera catastrofe!
E innanzitutto per gli schiavi stessi!". Si teorizzava, insomma,
che ci dovesse essere un periodo di apprendistato della libertà
in modo da mettere in grado lo schiavo negro di poter arrivare
un giorno a sopportare la libertà.
Questa teoria viene oggi applicata ai popoli. Non potendo opporre
ai popoli coloniali un brutale rifiuto, si promette loro l'indipendenza,
ma a termine. Bisogna fare l'apprendistato preventivo all'indipendenza.
È necessario convincersi, invece, che la schiavitù
non può essere una scuola di libertà e che il colonialismo
non può essere scuola di indipendenza; e questo vale per
i colonialisti di oggi come per gli schiavisti di un tempo. Si
tratta di due ordini di socialità assolutamente diversi
e mai l'uno potrà nascere dall'altro, se non attraverso
la rivolta e la discontinuità.
E allora, se rifiutiamo l'idea di un periodo di apprendistato,
ed abbiamo ragione di farlo, e se crediamo, ed abbiamo ragione
di crederlo, che il passaggio dall'epoca coloniale a quella della
vera decolonizzazione non può avvenire se non attraverso
la discontinuità e la rottura, ciò avvalora e definisce
con più completezza le nostre responsabilità di
uomini di cultura. Poiché è l'uomo di cultura che
nella stessa società coloniale deve far fare al suo popolo
l'apprendistato della libertà. L'uomo di cultura, lo
scrittore, il poeta e l'artista fanno fare al proprio popolo questa
attività perché nella situazione coloniale la creazione
culturale è già apprendistato.
Siamo stati messi in guardia contro la tentazione di credere che
si possa mai ri-strutturare una cultura indigena in un contesto
coloniale. E certamente con ragione. Ma la ri-strutturazione di
una cultura è un'opera di lunga durata e non ho dubbi che
nella situazione coloniale odierna e più esattamente nella
fase di transizione in cui viviamo, l'attività culturale
creatrice, e proprio questo la legittima, prepara fin da ora l'indispensabile
ri-strutturazione.
Al primo Congresso degli Scrittori e degli Artisti Neri - nel
1956 a Parigi - ho affermato che se c'è una cosa che caratterizza
la situazione coloniale è l'anarchia culturale.
La colonizzazione ha provocato l'eterogeneità e l'anarchia
culturale devastando l'unità primitiva di ogni cultura.
L'ordine coloniale si traduce in un disordine culturale.
Oggi, qui a Roma, sostengo che nella attuale situazione coloniale
- hic et nunc - lo scrittore e l'artista sono quelli che
preparano la buona colonizzazione contribuendo già
da ora a mettere ordine nel caos culturale.
Prendiamo il romanzo o la poesia negri. È inutile stare
a ricostruire prestiti e influenze. I materiali possono essere
disparati ed eterogenei, ma tutto è rifuso e trasceso,
dominato e ri-strutturato: cos'è l'arte, infatti, se non
dare forma e struttura?
Questo mi sembra che sia il primo contributo dello scrittore e
dell'artista alla liberazione del proprio popolo.
In seconda battuta, poi, bisogna continuare a strappare l'aureola
alla colonizzazione. Essa, lo ripeto, è disordine, e non
ordine, unità, conquista e annessione al mondo di territori
troppo a lungo rimasti isolati. Proprio il contrario è
vero. L'imperialismo separa e divide, l'imperialismo balcanizza,
volendo usare un termine che Senghor ha reso famoso. Ed esso separa
e divide in tanti più modi di quanti non si creda: non
solo nello spazio ma anche, cosa altrettanto grave, nel tempo.
Nello spazio: basti ricordare la spartizione dell'Africa fatta
al Congresso di Berlino o la tratta degli schiavi africani che
fu sradicamento e diaspora.
Ma la balcanizzazione si attua anche nel tempo, perché
l'imperialismo spacca la storia. Il prima e il dopo
sono stabiliti rispetto alla discontinuità portata dalla
colonizzazione. Tutto ciò che sta prima della conquista
coloniale è preistoria, la storia comincia con l'arrivo
dell'Europa. Il "continuum" storico viene interrotto,
con tutte le deplorevoli conseguenze culturali: la scienza africana,
la filosofia africana e la storia africana diventano folklore,
vale a dire letteratura, filosofia e scienza degradate,
e l'arte diventa arte primitiva. E tutto questo processo
culmina nell'opposizione, tutta europea, fra tradizione
ed evoluzione.
Bisogna rendersi conto, invece, quando Sékou Touré,
leader di un paese libero, afferma con fierezza: "Sono il
discendente di Samory", non non ci troviamo di fronte ad
una specie di puerile rivendicazione geneaologica. Questa rivendicazione
sta a significare: "Assumo su di me Samory". Si tratta
di un gesto molto importante, perché ristabilisce la catena
storica e rimette le cose al loro giusto posto. Sékou dice:
la colonizzazione non è la storia, è un accidente,
bisogna ricostituire il "continuum" storico. Egli riafferma
e reinventa la continuità della storia interrotta dall'intrusione
coloniale.
Noi uomini di cultura neri dobbiamo cercare su questo terreno
il dovere da compiere: esso consiste nel ristabilire la doppia
continuità spaccata dal colonialismo: la continuità
con il mondo e quella con noi stessi.
Noi, infatti, siamo forze di verità, siamo quelli che reintroducono
nel mondo i nostri popoli e i reinventori della solidarietà
tra di noi, della quale il colonialismo ha cercato di offuscare
e distruggere il principio. Noi siamo e vogliamo essere, al di
là della menzogna del colonialismo, uomini della verità
e soldati dell'unità e della fraternità.
Lo scrittore e l'artista neri, a loro modo, ristabiliscono anche
la solidarietà attraverso il tempo. Tradizione o Evoluzione?
Questo tipo di opposizione diventa insensata nella e attraverso
la creazione artistica perché l'arte è proprio quel
tipo di verità che fonde e raduna in un solo impeto gli
elementi separati e disparati.
Pretendo e sostengo che non si debba cercare in altri posti il
segreto dell'importanza della letteratura e dell'arte nelle circostanze
in cui vivono attualmente i nostri popoli. Nelle attuali condizioni,
la più grande ambizione della nostra letteratura deve essere
quella di tendere a diventare letteratura sacra, e la nostra arte,
arte sacra. Innalzando all'universalità la situazione particolare
dei nostri popoli, ricollegandoli alla storia e al corso del divenire;
negando la stagnazione, la creazione artistica deve mobilitare
con la propria forza le forze vergini delle emozioni. Così
al suo appello si possono destare risorse psichiche insospettate
che vanno a restaurare il corpo sociale scempiato dallo choc coloniale
e gli danno coscienza della sua capacità di resistenza
e della sua vocazione all'iniziativa.
Compagni,
congressisti, tutto quanto ho affermato mi sembra che legittimi
sufficientemente la nostra attività di scrittori e di artisti
e che, allo stesso tempo, definisca le nostre responsabilità.
La nostra legittimità consiste nella partecipare con tutte
le fibre alla lotta per la liberazione dei nostri popoli. La nostra
responsabilità sta nel riconoscere che dipende in gran
parte da noi l'uso che i nostri popoli sapranno fare della riconquistata
libertà. È questo che fonda, più profondamente
di qualsiasi altro dovere, il nostro dovere di uomini. C'è
una domanda alla quale nessun uomo di cultura, a qualunque paese
o razza egli appartenga, non può sfuggire: "Che tipo
di mondo stiamo preparando?".
Diciamolo con chiarezza: combattendo insieme ai nostri popoli
per la liberazione e per la dignità, per la verità
e per il loro riconoscimento, in fondo combattiamo per
il mondo intero, per liberarlo dalle tirannidi, dagli odi e dai
fanatismi.
Combattiamo le lotte del nostro tempo, per particolari che siano,
perché il mondo possa essere ringiovanito e riequilibrato.
Altrimenti nulla avrebbe senso, né la lotta di oggi, né
la vittoria di domani.
Solo in quel caso avremo vinto veramente e la nostra vittoria
finale segnerà l'avvento di una nuova era.
Avremo contribuito a dare un senso, il suo senso, al termine più
galvanizzante e più glorioso: avremo contribuito a fondare
l'umanesimo universale.
Intervento al Secondo (e ultimo, purtroppo) Congresso degli
Scrittori Africani, a Roma nel 1959. Traduzione di Armando Gnisci.
Note
(1) in italiano nel testo
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