MACHADO DE LA MANCHA
Carlos Fuentes
Machado
è un miracolo. E i miracoli, come dice Don Quijote a Sancho
Pancha, sono cose che accadono di rado. Ma miracolo fatto neanche
Dio lo può disfare. E, se un miracolo è raro, non
sarà perché con esso si realizza qualcosa di diverso
rispetto a quanto sempre o abitualmente accade? Nella letteratura
ispano-americana del XIX secolo ci sono stati pochi miracoli,
salvo la poesia, compagna fedele, a volte ombra, ma solo a volte,
della letteratura scritta in castigliano nelle Americhe. Da Ercilia
a Pablo Neruda (1904-1973), in Cile, da Sóror Juana (1648-1695)
a Jaime Sabines (1926-1999), in Messico, le muse sono sempre state
presenti come le messe. Nel XIX secolo, Rubén Darío
(1867-1916) basta a provare tale fedeltà. Ce ne sono altri;
il grande nicaraguense sarebbe di per sé sufficiente.
Ma se la poesia è la nostra compagna più fedele
e di lunga data, nel XVIII secolo nasce una rivale che le contende
il primato delle nostre passioni. Questa tardiva usurpatrice si
chiama identità. In Spagna manifesta paradossalmente la
propria seduzione grazie all'ansia di modernizzazione di re Carlos
III e alla sua decisione di espellere i gesuiti "signori
assoluti di cuori e coscienze di tutti gli abitanti di questo
vasto impero ", come scrive il marchese di Croix, viceré
della Nuova Spagna, a suo fratello, in una lettera privata, sebbene
in pubblico si veda costretto ad appoggiare le ragioni della monarchia
nei rapporti con le colonie :
"Una volta per tutte, i sudditi del grande monarca che occupa
il trono di Spagna devono sapere che sono nati per stare zitti
ed obbedire, e non per discutere, né per esprimere le proprie
idee su ciò che concerne gli affari di stato".
Proclamazione
delle identità. Il doppio discorso del viceré
non fu in grado di nascondere altre due cose. La prima è
la crescente urgenza ispano-americana di affermare un'identità
propria. Nelle parole del gesuita Juan Pablo Viscardo y Guzmán,
pronunciate nel 1792, quando si celebrava il terzo centenario
della scoperta dell'America, "Il Nuovo Mondo è la
nostra patria, ed è dentro di lei che dobbiamo analizzare
la nostra situazione presente, per convincerci, attraverso essa,
a prendere il partito necessario per la conservazione dei nostri
propri diritti."
Viscardo y Guzmán scrisse queste righe durante il suo esilio
londinese, ed illustra un altro fenomeno che accompagnò
l'espulsione dei gesuiti: gli intellettuali della compagnia si
vendicarono contro il re di Spagna scrivendo, dall'esilio, libri
che proclamavano l'identità delle amate patrie lontane.
Il padre Clavijero, a Roma, definisce l'identità messicana
a partire da un'epoca ancora precedente all'arrivo di Hernán
Cortés; padre Molina, anch'egli a Roma, scrive una storia
nazionale e civile del Cile; proprio così, con tutte le
lettere: nazionale e civile. Storia, geografia, società
e nazione proprie: la definizione gesuita delle nazionalità
ispano-americane le rafforza, le allontana dalla Spagna, ma anche
dalla propria possibile unità; precipita il movimento d'indipendenza
e propone agli scrittori del secolo delle indipendenze, il XIX,
l'impegno di determinare la storia della patria, e così,
di chiarificare l'identità nazionale. Per questo il XIX
è un secolo di grandi storici, dal conservatore Lucas Alamán
al liberale José María Luis Mora, in Messico, Diego
Barros Arana e Benjamín Vicuña Mackenna, in Cile;
Bartolomé Mitre e Juan Bautista Alberdi, in Argentina.
È un secolo di educatori e interpreti dell'anima nazionale,
come il venezuelano Andrés Bello, il portoricano Eugenio
María de Hostos, l'ecuadoriano Juan de Montalvo, e l'argentino
Domingo Faustino Sarmiento.
Metto in risalto tutto questo per ricordare che il secolo XIX
ispano-americano è stato fecondo e, soprattutto, "Facundo".
È Sarmiento (1811-1888) colui che eleva la congiunzione
di identità e storia ad una forma superiore di prosa, allo
stesso tempo analitica, descrittiva e romanzesca: Facundo può
essere letto con tutti questi significati. È il nostro
grande romanzo potenziale del secolo XIX, fotografia della terra,
analisi della società, ritratto del "caudilho",
monumento della lingua.
Accanto ad un'altra opera argentina, il poema di José Hernández
(1834-1886), "Martín Fierro", costituisce il
dittico delle migliori opere letterarie del secolo dell'indipendenza:
a mio giudizio, la prosa di Facundo e l'epica di Martín
Fierro allargano gli orizzonti dell'immaginazione e del linguaggio
degli ispano-americani molto più della tradizione un po'
povera del romanzo che allora si presentava come tale.
Questi romanzi possono essere considerati divertenti, come le
avventure narrate dal messicano Manuel Payno, o pedagogici, come
le cronache sociali del cileno Alberto Blest Gana, ma né
Los bandidos del Río Fío , né Marín
Rivas possono essere comparati con i grandi romanzi scritti nella
America Spagnola nel nostro secolo, o con i libri che, come Facundo
e Martín Fierro osarono scommettere sulla propria immaginazione
e sul proprio linguaggio.
Il romanzo ottocentesco ispano-americano, al contrario, non si
azzarda ad abbandonare una precettistica che costituisce l'ingannevole
richiamo della modernità: prima il romanticismo, poi il
realismo e infine il naturalismo. Il romanticismo, scrive Machado
de Assis, è un cavaliere che stremò il suo proprio
destriero "a un punto tale che, si è rivelato necessario
metterlo in disparte, dove il realismo lo andò a pescare,
divorato dalla miseria e dai vermi, e, per compassione lo trasportò
dentro i suoi libri". Un destriero sfiancato. Un brioso cavallo
spossato, divorato dalle piaghe e dai vermi. Qual è stato
il suo nome originale? Ronzinante, Clavileño?
Perché la mediocrità del romanzo ispano-americano
del secolo XIX non è estranea all'assenza di un romanzo
spagnolo dopo Cervantes e prima di Leopoldo "Alas" Clarin
e Benito Pérez Galdós. Occorrerebbero diverse notti
per esporre i motivi di quest'assenza: voglio solamente registrare
il mio stupore davanti al fatto che, nella lingua del romanzo
moderno fondato ne La Mancha da Miguel de Cervantes, si siano
avuti solamente frutti avvizziti, valli infertili. La Regenta
e Fortunata y Jacinta ridanno vitalità al romanzo spagnolo,
ma l'America spagnola dovrà ancora aspettare così
come la Spagna aveva aspettato per Clarín e Galdós,
per Borges e Astúrias, Carpentier e Onetti.
In compenso - e questo è il miracolo - il Brasile offre
la propria nazionalità, immaginazione e lingua al più
importante - per non dire l'unico - scrittore ibero-americano
del secolo scorso: Joaquim Maria Machado de Assis. Cosa sapeva
Machado che gli scrittori ispano-americani non sapevano? Perché
il miracolo di Machado? Il miracolo si alimenta su di un paradosso:
"Machado segue, in Brasile, la lezione di Cervantes, la tradizione
de La Mancha, che per quanti siano stati gli omaggi ufficialmente
e scolasticamente resi al "Quijote", è stata
dimenticata dagli scrittori ispano-americano, dal Messico all'Argentina.
Questo sarà forse stato il risultato dell'ispanofobia che
accompagnò le gesta dell'indipendenza e i primi anni di
nazionalità? No, ripeto, se prendiamo in considerazione
i riferimenti formali del discorso. Sì, è chiaro,
se osserviamo il ripudio generalizzato del passato da parte della
cultura indipendente: essere nero o indio significava essere barbaro,
essere spagnolo significava essere reazionario; bisognava essere
yankee o francese o inglese per essere moderno e, inoltre, per
essere prospero, democratico e civilizzato.
Civiltà
Nescafé. Le imitazioni assurde del periodo delle indipendenze
si registrarono in una civiltà Nescafé: potevamo
essere instantaneamente moderni abolendo il passato, negando la
tradizione. Il genio di Machado risiede esattamente nel contrario.
La sua opera è permeata da una convinzione: non esiste
creazione senza una tradizione che la nutra, così come
non esiste tradizione senza creazione che la rinnovi.
Ma neanche Machado contava sull'appoggio di una grande tradizione
settecentesca, né brasiliana e neppure portoghese. Contava
sì, sulla tradizione comune a noi, ispanofoni del continente,
contava sulla tradizione di La Mancha. Machado la ricuperò,
noi l'abbiamo dimenticata. Ma quella stessa non fu abbandonata
dall'Europa post-napoleonica, l'Europa del grande romanzo realista
e di costume, psicologico o naturalista, che va da Balzac a Zola,
da Stendhal a Tolstoij? E la nostra pretesa di modernità
non fu, in tutta l'area ispano-america, il riflesso di questa
corrente realista che chiamerei di Waterloo, in contrapposizione
alla corrente de La Mancha?
Milan Kundera, nel suo libro L'arte del romanzo, compiangeva,
più di qualsiasi altra cosa, il cambio di rotta che interruppe
la tradizione cervantesca - ripresa dai maggiori eredi, l'irlandese
Lawrence Sterne e il francese Denis Diderot - a favore di una
tradizione realista, che Stendhal descrive come il riflesso catturato
da uno specchio progredendo lungo una strada e che Balzac conferma
essere come il concorrente del registro civile.
E l'invito al gioco, al sogno, al pensiero, al tempo, esclama
Milan Kundera in un capitolo intitolato L'eredità disprezzata
di Cervantes, dov'è andato a finire? La risposta è
se non miracolosa, sorprendente: sono andati a finire a Rio de
Janeiro e sono rinate nella penna di un mulatto carioca, povero,
autodidatta, che imparò il francese in una panetteria,
che soffriva di epilessia, come Dostoevskij, che era miope, come
Tolstoij e che nascondeva il suo genio dietro ad un corpo tanto
fragile come quello dell'altro grande genio brasiliano, Aleijadinho,
anche lui mulatto, ma oltre a questo lebbroso, che lavorava da
solo e solamente di notte, per non essere visto. Ma qualcuno non
ha già detto, a proposito del Brasile, che il paese cresce
la notte, mentre i brasiliani dormono?
Machado no. Lui sta ben sveglio. La sua prosa è mattutina.
Ma anche il suo mistero: un mistero solare, quello di uno scrittore
americano di lingua portoghese e razza metticcia che, solitario
come una statua barocca mineira (dello stato di Minas Gerais)
del realismo ottocentesco, riscopre e rianima la tradizione di
La Mancha contro la tradizione di Waterloo.
Cosa intendo per queste due tradizioni?
La
Mancha e Waterloo. Storicamente, la tradizione di La Mancha
è inaugurata da Cervantes come un contrattempo della modernità
trionfante, un romanzo eccentrico della Spagna controriformista,
obbligato a fondare un'altra realtà per mezzo dell'immaginazione
e del linguaggio, dell'ironia, della mescolanza dei generi. Questa
tradizione è continuata da Lawrence Sterne (1713-1768)
con il suo Tristram Shandy, in cui l'accento cade sopra il gioco
temporale e la poetica della digressione, e da Jacques Le Fataliste,
di Denis Diderot (1713-1784), in cui l'avventura ludica e poetica
consiste nell'offrire, quasi ad ogni linea, un repertorio di possibilità,
un menù di alternative per la narrazione.
La tradizione di La Mancha è interrotta dalla tradizione
di Waterloo, e questo a causa della risposta realista alla saga
della Rivoluzione Francese e dell'Impero di Bonaparte. La mobilità
sociale e l'affermazione individuale servono da ispirazione a
Stendhal, e il suo Sorel legge di nascosto la biografia di Napoleone,
per Balzac, il suo Rastignac è un Bonaparte dei salotti
parigini, e per Dostoevsjij, il suo Raskolnikov ha un ritratto
del grande corso come unico addobbo della sua mansarda pietroburghese.
Romanzi critici, questa è la verità di quello che
gli ispira: iniziata con il crimine di Sorel, le carriere ascendenti
della società bonapartista toccano la cima con la falsa
gloria della rivista Rastignac e si concludono con il crimine
e la miseria di Raskolnikov.
Tra le due tradizioni, Machado de Assis, nato nel 1839 e morto
nel 1908, rivaluta la tradizione interrotta di La Mancha e ci
permette di contrastarla, in modo molto generale, con la tradizione
di Waterloo.
La tradizione di Waterloo si afferma come realtà. Quella
di La Mancha è consapevole di essere finzione, e non solo,
si celebra come finzione. Waterloo offre spaccati di vita. La
Mancha non ha altra vita al di fuori del suo testo, fatto nella
misura in cui è scritto e letto.
Waterloo sorge dal contesto sociale. La Mancha discende da altri
libri.
Waterloo legge il mondo. La Mancha è letta dal mondo.
Waterloo è seria. La Mancha è ridicola.
Waterloo si basa sull'esperienza: dice quello che già sappiamo.
La Mancha si basa sull'inesperienza: dice ciò che ignoriamo.
Gli attori di Waterloo sono personaggi reali. Quelli di La Mancha
lettori ideali.
E, se la storia di Waterloo è attiva, quella di La Mancha
è riflessiva.
Tali divisioni teoriche possono sembrare rigide, ma le opere stesse
sono molto più fluide. Per esempio, una delle caratteristiche
rilevanti della tradizione cervantesca, la pazzia della lettura,
origine dell'azione del Don Quijote, porta sul piano realista
un romanzo come L'Abbazia di Northanger; per esempio parte della
commedia sociale inglese di J. Austen, la cui protagonista Catherine
Moorland, abbandona la ragione leggendo i romanzi gotici; per
esempio e soprattutto, uno dei capolavori del realismo psicologico,
Madame Bovary, in cui l'eroina di Flaubert perde l'equilibrio
tra la sua realtà sociale e la sua realtà psicologica
per aver letto troppe opere romantiche.
E tanto Sorel quanto Raskolnikov, come ho già accennato,
sono ciò che sono per aver divorato le pagine sull'epopea
napoleonica.
Più specificatamente è La Mancha un romanzo che
si riconosce funzionale, che è consapevole della propria
natura fittizia. Don Quijote, Tristram Shandy, Jacques Le Fataliste,
Brás Cubas, oltre a riconoscersi finzione, celebrano la
propria genesi fittizia.
Don Quijote è in un luogo di La Mancha del cui nome non
si vuole ricordare, ma è contemporaneamente in una tipografia
di Barcellona, nella quale il personaggio di Cervantes visita
il luogo stesso dove la sua vita si fa libro, poiché Don
Quijote è il primo personaggio del romanzo moderno che
sa di essere scritto, stampato e letto così come Tristram
Shandy sa di essere scritto da se stesso, così come Brás
Cubas si sta scrivendo da sé e non da un Brás Cubas
qualunque, ma da un Brás Cubas morto che scrive le sue
memorie nella tomba. Inoltre Brás Cubas chiede di essere
inserito in una tradizione, quella del lettore di Tristram Shandy,
solo che Tristram Shandy, a sua volta, vuole essere della tradizione
di Don Quijote. "Ho adottato" - dice Brás Cubas
dalla tomba - "la forma libera di uno Sterne". Sterne
dice, nel Tristram Shandy, che prese la sua forma "dall'incomparabile
cavaliere de La Mancha, che, si è detto di sfuggita, io
amo anche più, nonostante tutte le sue sciocchezze, del
maggiore eroe dell'Antichità e che in futuro vorrei andare
a trovare".
Al
disoccupato lettore. Il visitatore del libro è niente
meno che il lettore del libro, personaggio del Quijote, dal momento
in cui Cervantes, nella prefazione, apre il romanzo rivolgendosi
al "disoccupato lettore". Ma in Cervantes il rapporto
con il lettore è un discreto, seppure angosciato, richiamo
di attenzione nei confronti di un altro socio della lettura, l'incerto
autore dell'incerto romanzo che inizia in un incerto luogo di
La Mancha, dove vive un incerto cavaliere di incerto nome che
esce dal suo incerto villaggio verso un territorio, questo sì
certo, questo sì popolato da concretissimi pastori di capre,
venditori di acque, locandieri, donnacce, preti, burattinai e
aristocratici che Don Quijote fa divenire incerti sottomettendoli
alle leggi della lettura anteriore: i mulini sono giganti, le
locande sono palazzi, le greggi sono eserciti, i burattini sono
feroci mori e Aldonza è Dulcinea.
Nel confondere il confine tra realtà e finzione Cervantes
non solo celebra la genesi di quest'ultima come tale. L'incertezza
del luogo, del nome e dell'azione ha una funzione politica, ci
conduce a diffidare di tutti i dogmi, sia quelli del Concilio
di Trento, delle leggi della purezza del sangue o della Santa
Inquisizione. Stai attento, Torquemade, che ci imbattiamo nel
Quijote. Ma c'è qualcosa in più: la fondazione cervantesca
critica il mondo solo perché critica se stessa ed estende,
al proprio autore, l'incertezza critica del romanzo. Chi è
che si rivolge "al disoccupato lettore"?
È Cervantes, è Saavedra, è Cide Hamete, è
un Sancho mascherato, è l'autore del Quijote apocrifo,
Avillaneta? O sono gli autori della tradizione di La Mancha, i
discendenti di Cervantes, Sterne, Diderot, Machado e infine Pierre
Ménard, l'autore del Quijote nel racconto di Borges?
Finzione, celebrazione della finzione, e critica della finzione.
Mentre Cervantes accentua la critica nei confronti dell'autore,
conseguenza della lettura che ha reso pazzo il nobiluomo, Sterne
si sofferma sulla critica al lettore, trasformandolo in coautore,
in primo luogo, di un tempo narrativo, quello della lettura, che
può o meno coincidere con la durata stessa della narrativa.
Sterne interpella costantemente il lettore:
"Vedo chiaramente, signore, dalla vostra apparenza",
dice l'invisibile autore all'invisibile lettore adulandolo. Poi
gli chiede: "E ora cosa devo fare?", collocando il destinatario
stesso del romanzo nelle mani del suo destinatario: l' "essere
o non essere" shakespeariano si trasforma, nel libro di Sterne,
in un "narrare o non narrare".
Le voci dei lettori irrompono nel romanzo per animare o disanimare
il narratore; il lettore gli dice: "Racconta, non esitare".
L'altro, al contrario, lo avverte: "Sarai un idiota se lo
farai".
Diderot, da parte sua, concede al narratore la libertà
di scegliere tra numerose alternative di narrazione, che puntano
verso il futuro (Jacques si separa dal suo padrone ad uno incrocio
e non sa quale strada seguire), ma anche verso il passato. Dove
il padrone e il servo hanno passato la sera precedente? Diderot
offre sette possibilità al lettore:
1) in un grande bordello di una grande città;
2) a cena con un vecchio amico;
3) con dei monaci che li hanno bisfrattati in nome di Dio;
4) in un albergo dove hanno chiesto loro un prezzo esorbitante
per la cena;
5) nella casa di uno dei pari di Francia, dove patirono tutti
i bisogni in mezzo ad ogni superfluità;
6) con un parroco di villaggio;
7) sbronzandosi in una abbazia benedettina.
Beffe
e malinconia. Questa è la tradizione ludica il cui
abbandono viene denunciato da Kundera, ma che Machado inaspettatamente
recupera.
Le Memorie postume di Brás Cubas, pubblicate nel 1881,
sono scritte nella tomba da un autore la cui paternità
dell'opera è sicura almeno quanto la morte stessa. Solo
che Brás Cubas
trasforma la morte in un'incertezza ab initio, il tema cervantesco
della finzione cosciente di esserlo: "Non sono propriamente
un autore defunto, ma un defunto autore". Quest'autore, "per
il quale la tomba è stata un'altra culla", è
il narratore postumo Brás Cubas, che nel rinnovare la tradizione
cervantesca e soprattutto sterniana di rivolgersi al lettore,
sa che, questa volta, il lettore dovrà battersi meno con
un autore incerto come quello del Quijote o con un autore ossessionato
dal desiderio di scrivere tutta la sua vita prima di morire, come
Tristram Shandy, che non con l'autore morto che scrive dalla tomba,
il quale dedica il suo libro "al verme che per primo ha roso
le fredde carni del mio cadavere e che ammette la fatalità
della sua situazione: tutti noi dobbiamo morire; per questo basta
essere vivo".
In questo modo, Brás Cubas trasmette il proprio passato
vivo e il proprio presente morto al lettore, con molto dell'umore
di Cervantes, Sterne e Diderot, con un'acidità, una rabbia,
che sorprende in un personaggio tanto dolce come Brás Cubas
e Machado de Assis, questo se entrambi non ci avvertissero, sin
dalla prima pagina, che tali "memorie postume" sono
state scritte "con la penna della beffa e l'inchiostro della
malinconia". Questa mi sembra la frase essenziale del romanzo
manchego del romanziere carioca: scrivere con la penna del riso
e l'inchiostro della malinconia.
Il riso per primo. L'ammirazione di Tristram Shandy per il Don
Quijote sopra menzionato, si basa sull'umorismo. "Sono convinto"
- leggiamo nel romanzo di Sterne - "che la felicità
dell'umorismo cervantesco nasca dal semplice fatto che lui descrive
piccoli e banali eventi con la pomposità e le circostanze
che di solito sono riservate ai grandi avvenimenti".
Sterne rovescia questo umorismo descrivendo fatti pomposi con
l'umorismo dei piccoli. La Guerra di Successione Spagnola, l'eredità
di Carlos, lo Stregato, che ha nuovamente insanguinato la campagna
fiamminga, in Tristram Shandy è riprodotto dal suo zio
Toby - impossibilitato a lottare in guerra a causa di una ferita
all'inguine - nel terreno che prima gli era servito da campo da
bowling, tra due file di cavolfiori. Lì zio Toby ha potuto
rivivere le campagne di Marlborough, senza versare anche una sola
goccia di sangue.
L'umorismo di Machado va oltre l'umorismo di Cervantes e di Sterne:
il brasiliano narra piccoli fatti in brevi capitoli con la mistura
di riso e malinconia che si risolve, più di una volta,
in ironia.
Libro epicureo, come lo ha definito una certa critica nordamericana.
Libro terrorizzante, aggiunge un'altra recensione newyorkese,
perché la sua denuncia della pretesa e dell'ipocrisia che
si nascondono negli esseri comuni è implacabile. No, corregge
Susan Sontag: è solo un libro di uno scetticismo radicale
che si impone al lettore con la forza di una scoperta personale.
È vero: gli elementi carnevaleschi, il riso giocondo che
Bakhtin attribuisce alle grande prose comiche di Rabelais, Cervantes
e Sterne, sono presenti in Machado. Basta ricordare gli incontri
picareschi con il filosofo-furfante Quincas Borba, il vaudeville
degli incontri con l'amante segreta Virgilia, e la descrizione
del modo con cui si appropriava della religione: come "una
sorta di camicia di flanella preservante e clandestina".
Basta evocare i ritratti satirici della società carioca
e della burocrazia brasiliana risolte in uno splendido passaggio
comico che riduce la politica al problema di diventare o meno
segretario di un Presidente di Provincia, per poter accompagnare
la propria amante, moglie del Presidente; soluzione amministrativa
per il problema dell'adulterio.
In grande misura l'umorismo di Machado determina il ritmo della
sua prosa: non solo la brevità dei capitoli, ma la velocità
del linguaggio. Questa velocità, che è come la sorella
della comicità, evidente nelle immagini accelerate di Chaplin
o di Buster Keaton, ha il suo antecedente musicale in Il barbiere
di Siviglia di Rossini , il suo antecedente poetico nel Eugenio
Oneghim di Pushkin e il suo antecedente novellesco in Jacques
Le Fataliste di Diderot, dal quale prende il seguente esempio:
l'autore conosce "una donna bella come un angelo (...). Desidero
fare l'amore con lei. Lo faccio. Abbiamo quattro figli".
Senza
una goccia di sangue. In Brás Cubas l'autore si definisce
così: "Perché negarlo? io avevo la passione
del rumore, delle locandine, degli spruzzi di lacrime". E
Virgilia, l'amante del narratore, è rilevata e descritta
con una mezza dozzina di tratti precisi: bella, fresca, appena
uscita dalle mani della natura, piena di quel fetticcio precario
ed eterno che l'individuo passa ad un altro individuo per i fini
segreti della creazione. Ma il riso rabelaisiano sunito si congela
sulle labbra della malinconia machadiana.
Ho già detto, sopra, che in Tristram Shandy le battaglie
di Successione Spagnola si succedono nel "jardin potagé"
di zio Toby, senza spargimento di sangue. Machado s'impegna a
garantire che l'incontro tra riso e malinconia in Brás
Cubas non lascierà spazio alla violenza. Un paragrafo illustrativo
lo dimostra. Di fronte alla possibilità di uno scontro
di forze, l'autore promette che non ci sarà la violenza
annunciata e che nemmeno una goccia di sangue macchierà
la pagina.
Il lettore ispano-americano potrebbe riscontrare in questa frase
una lettura tra le righe della storia del Brasile come la nazione
latino-americana che ha saputo condurre i processi storici senza
la violenza propria degli altri paesi del continente.
Forse le eccezioni confermano le regole. In ogni caso, nel romanzo
di Machado, il rumore del carnevale carioca rimane sempre più
lontano ed esclusivo, man mano che il colore della malinconia
guadagna terreno sulla penna della beffa.
Ho assistito recentemente ad un documentario in TV dedicato a
Carmen Miranda, che iniziava con l'infinita malinconia delle canzoni
tradizionali del Brasile nella voce di questa donna straordinaria
che Hollywood ha trasformato in un simbolo sgargiante del Carnevale,
dell'allegria chiassosa, della fruttiera sopra la testa. Ma via
via che i Campi Elisi rivelano il volto della morte, il carattere
vivace della chica-chica-boom-girl si scioglie e ritorna la voce
perduta, la voce della malinconia. È come se, dal regno
della morte, Carmen Miranda esclamasse: "Non mi rubate la
tristezza". Per questo dico che la frase più significativa
del libro di Machado di Assis è questa (perché,
in fin dei conti, cos'è il Brás Cubas se non la
malinconica storia di uno scapolo che prima deve raggirare i rischi
dell'adulterio e più tardi quelli della vecchiaia solitaria
e ridicola?): "Uno scapolo che spira all'età di sessantaquattro
anni non sembra che riunisca in sé tutti gli elementi di
una tragedia", avverte il narratore alla fine di un percorso
in cui scopre un'ulteriore unità dimenticata da Aristotele:
l'unità della miseria umana.
C'è un momento quasi proustiano in cui Brás Cubas
, ritirandosi da un ballo alle quattro del mattino ci domanda:
"Ma (...) cosa mi è capitato di trovare al fondo della
carrozza? I miei cinquant'anni. Erano tutti lì, i testardi,
non contriti per il freddo, né vittime di reumatismi, ma
appisolati per la fatica, un po' bramosi di letto e di riposo".
L'oblio, dice Machado, si prepara per sorprenderci prima della
morte: "Significa non trovare più nessuno che si ricordi
dei miei genitori, è il modo in cui mi guarderà
in faccia l'oblio stesso". Brás Cubas inizia imitando
la morte: "Non vuole parlare per far credere che sta morendo".
Ma solo la lettura critica di questo grande romanzo ci potrà
portare alle domande letterarie, alle domande della tradizione
che Machado fa rivivere e prolunga, la tradizione di La Mancha,
risposta anche a modo suo, ad un altro grande romanzo latino-americano
scritto a partire dalla morte, Pedro Páramo, di Juan Rulfo.
Questa domanda è: "essere morto significa essere universale?".
O detto in un altro modo: "per essere universali, noi latino-americani,
dobbiamo essere morti?".
La
letteratura meticcia. Susan Sontag risponde affermando la
modernità di Machado de Assis, ma ci avverte che la nostra
modernità non è altro che una tela di allusioni
accattivanti che ci permettono di colonizzare il passato in forma
selettiva. Sappiamo che nell'America Latina soffriamo di una modernità
escludente, una modernità orfana, senza mother né
dad, e che ci diamo da fare per conquistare una modernità
includente, con papà e mamma, che abbracci tutto ciò
che fummo e che siamo: figli di La Mancha, parte dell'impurità
meticcia che oggi si diffonde globalmente per creare una narrativa
multipla, capace di manifestarsi come vera "Weltliteratur"
nell'India di Salman Rushdie, nella Nigeria di Wole Soyinka, nella
Germania di Günter Grass, nel Sudafrica di Nadine Gordimer,
nella Spagna di Juan Goytisolo, o nella Colombia di Gabriel Garcia
Marquez. Il mondo di La Mancha, il mondo della letteratura meticcia.
Machado non rivendica questo mondo per ragioni razziali, storiche
o politiche, ma per ragioni di immaginazione e di linguaggio che
certamente includono le altre. Quanto universale, quanto latino-americane,
sono le sentenze machadiane come questa: "Dio sa la forza
di un aggettivo, soprattutto in paesi nuovi e caldi!". O
quest'altra: "Vivendo nella pura fede degli occhi neri e
delle costituzioni scritte". La fede nelle costituzioni scritte
restituisce a Machado la penna della beffa, ma ora dentro una
costellazione di riferimenti e premonizioni spaventose, che ci
portano nuovamente, attraverso la via comica dello scrittore che
noi ispano-americani non abbiamo avuto nell'Ottocento - Machado
de Assis - fino allo scrittore che abbiamo avuto sì, nel
Novecento, Jorge Luis Borger (1899-1986).
La strategia borgiana di rompere l'idea assoluta con l'incidente
comico è già presente in Machado quando Brás
Cubas dichiara la sua intenzione di scrivere il libro che non
ha mai scritto, una Storia delle periferie, la cui concretezza
contrasta totalmente con l'astrazione della filosofia in voga
nel secolo XIX latino-americano: il positivismo di Comte, la sua
filosofia trinitaria. L'Ordine e Progresso stampato sulla bandiera
brasiliana e che, in Messico, è stato anche adottato dagli
scienziati seguaci di Porfirio Diaz, opposto all'incidente comico
di Brás Cubas: scrivere una Storia delle periferie e sostituire
l'Ordine e Progresso con l'invenzione pratica di un impiastro
contro la malinconia.
L'aleph di Machado. E nonostante tutto, la fame latino-americana,
la brama di abbracciare tutto, di appropriarsi di ogni tradizione,
di ogni cultura, perfino di ogni aberrazione, desiderio utopico
di creare un nuovo paradiso nel quale tutti gli spazi e tutti
i tempi siano simultanei, compare brillantemente nelle Memorie
postume di Brás Cubas, come una sorprendente visione del
primo aleph, anteriore a quello famosissimo di Borges, sul quale
lo stesso autore dice: "Per quanto possa apparire incredibile,
credo che esista (o che sia esistito) un altro aleph." Infatti:
quello di Machado de Assis.
"Immagina tu, lettore", dice Machado, "una sintesi
dei secoli ed uno sfilare di essi, di tutte le razze, di tutte
le passioni, il tumulto degli imperi, le guerre degli appetiti
e degli odi, la distruzione reciproca degli esseri e delle cose
(...)". È stato questo l'"acerbo e curioso spettacolo"
che Brás Cubas ha visto dall'alto della montagna, come
l'angelo futuro di Walter Benjamin, contemplando le rovine della
storia, "la condensazione viva" della storia, del cadavere
autorale di Brás Cubas la cui mente "è stata
una pedana (...), una baraonda di cose e di persone nella quale
si poteva vedere tutto, dalla rosa di Shirna fino alla pianta
di ruta del tuo cortile, dal magnifico letto di Cleopatra fino
all'angolo di spiaggia dove il barbone fa il suo pisolino"
E continua l'autore: "Non c'era lì soltanto (nel primo
aleph, quello brasiliano di Machado di Assis) l'atmosfera dell'aquila
e del colibrì, ma anche quella della lumaca e del rospo".
La visione dell'aleph di Machado, la sua fame universale, dà
quindi colore alla sua passione letteraria, al suo modo di rivolgersi
al lettore, "lettore ottuso", lettore che è "il
peggior difetto di questo libro", perché vuol vivere
rapidamente e arrivare quanto prima alla fine di un'opera che
è lenta "come gli ubriachi", che "oscillano
da destra a sinistra, camminano e si fermano, mugugnano, urlano,
ridono, minacciano il cielo, scivolano e cadono". È
a questo lettore, per niente amabile, che Machado rivolge i suoi
scherzi e le sue minacce, forse più gravi di quelle di
Sterne o di Diderot, nonostante tutte le similitudini formali
esistenti tra loro: "Se il lettore non è incline alla
contemplazione (...), può saltare il capitolo; va diretto
alla narrazione, (...) questo che sembra un semplice inventario,
erano appunti che io avevo preso per un capitolo estremamente
succulento (...), che non scrivo. (...) Non si irriti il lettore
per questa confessione (...), insomma, io scrivo le mie memorie
e non le tue, pacato lettore, (...) e dall'inizio ti ho avvertito
che l'opera in sé stessa è tutto: se ti piacerà,
fine lettore, ciò avrà pagato il mio impegno; se
non ti piacerà, ti pago io con uno scappellotto e addio".
Il trattamento piuttosto rude che Machado riserva al lettore non
mi sembra lontano dall'esigenza dei rintocchi notturni avvertita
da Falstaff: si tratta di svegliare il lettore, di strapparlo
dalla sonnolenza romantica tropicale, di condurlo verso compiti
più ardui e di lanciarlo in una modernità includente,
appassionante, famelica.
Claudio Magris dice qualcosa sulla nostra letteratura che mi sembra
adatta a Machado: l'America Latina, scrive l'autore di Danubio,
ha dilatato lo spazio dell'immaginazione. La letteratura occidentale
era a rischio. L'Europa ha assunto la negatività. L'America
latina ha assunto la totalità. Ma oggi l'Europa deve ammettere
la sua cattiva coscienza nella celebrazione dell'America Latina.
Oggi tutti devono leggere i libri dell'America Latina per non
cadere nella tentazione dell'avventura esotica: i lettori europei
(così come latino-americani, aggiungerei), devono imparare
a fare il compito per casa che consiste nel leggere sul serio
la prosa malinconica, difficile, dura, dei latino-americani.
Magris potrebbe descrivere con le stesse parole, nonostante la
bella e totale leggerezza della sua scrittura, i libri di Machado
di Assis. Ma Machado, quando scrive il primo aleph, sta anche
chiedendo ai latino-americani di essere più coraggiosi,
di immaginare tutto.
La
finzione e i limiti della storia. In Cervantes e in Sterne,
i modelli di Machado, lo spirito comico, indicano i limiti della
realtà. La riproduzione dei campi di battaglia delle Fiandre
in un orto demarca, in Tristram Shandy, non solo i limiti della
rappresentazione letteraria, non solo i limiti della rappresentazione
storica, ma i limiti della storia stessa. Poiché la storia
è tempo e il tempo, dice Sterne, alla fine del suo bellissimo
romanzo, è fugace, "passa troppo in fretta; ogni lettore
che traccio mi parla della rapidità con cui la vita accompagna
le mie pene; i suoi giorni, le sue ore, mia cara Jenny! I rubini
attorno al tuo collo volano sulle nostre teste, come nuvole leggere
in una giornata di vento, per non tornare mai più (...)
e tutte le volte che ti bacio la mano per congedarmi, e ogni conseguente
assenza è il preludio di quella eterna separazione che
fra poco ci accoglierà. Che il cielo abbia pietà
di noi due".
E nel Don Quijote, il tono del romanzo cambia radicalmente quando
il protagonista e Sancho Pancha fanno visita ai duchi e questi
offrono loro, nella realtà, ciò che Don Quijote
possedeva solo nella sua immaginazione. Il castello è un
castello, ma Don Quijote aveva bisogno che il castello fosse,
invece, una locanda. Privato della sua immaginazione si trasforma
veramente nel Cavaliere dalla Triste Figura e si incammina fatalmente
verso la morte: "nei nidi di altri tempi non ci sono gli
uccelli d'Agano: sono stato pazzo e ora sono sano; sono stato
Don Quijote della Mancha e ora sono (...) Alfonso Quijana, il
buono (...)". Con ragione Dostoevskij considerò il
Quijote il libro più triste mai scritto, perché
è la storia di una delusione. Ma è anche, aggiunge
l'autore russo, il trionfo della finzione: in Cervantes, la verità
è salvata da una menzogna.
Machado de Assis si situa anch'esso tra la forza di una finzione
che tutto include, come l'immaginazione latino-americana vorrebbe
abbracciare tutto e i limiti imposti dalla storia. "Evviva
la storia, la volubile storia che si apre a tutto", esclama
Brás Cubas dalla tomba solo per indicarci che questa capacità
totalizzante appartiene unicamente all'errore, perché,
al contrario di ciò che ha detto Pascal, l'uomo non è
un essere pensante, bensì un errore pensante: "Ogni
stagione della vita - dice Cubas - è una edizione che corregge
l'anteriore, e che sarà anch'essa corretta fino all'edizione
definitiva che l'editore dà gratis ai vermi".
La penna delle beffe e l'inchiostro della malinconia si uniscono
una volta in più per trovare l'origine stessa della loro
tradizione: l'elegia della follia, la radice erasmiana della nostra
cultura rinascimentale, il saggio dosaggio di ironia che impedisce
che la ragione e la fede si impongano come dogmi.
Il
pazzo mansueto. Mi ricordo l'amore che Julio Cortázar
aveva per la figura del pazzo mansueto da lui stesso consacrato
in diversi personaggi di Il gioco del mondo. Anche Machado ha
il suo pazzo mansueto, si chiama Romualdo ed è sano in
tutto tranne che in una cosa: pensa di essere Tamerlano.
Così come Alfonso Quijano pensa di essere il Don Quijote,
come Zio Toby, uno stratega militare e il personaggio di Pirandello,
il Re Enrico IV. Oltre a ciò sono tutti personaggi sani.
Machado attribuisce questa pazzia all'idea fissa che, messa in
pratica nella politica, può certamente causare catastrofe:
guardate, indica lui, Bismarck e la sua idea fissa di unificare
la Germania, prova del capriccio e dell'immensa irresponsabilità
storica.
Per questo conviene rispettare i pazzi mansueti, lasciarli cuocere
nel loro brodo - come l'ateniese evocato da Machado che pensava
che tutte le navi che entravano nel Pireo gli appartenessero;
come il pazzo evocato da Orazio e ripreso da Erasmo: uno squilibrato
che passava i suoi giorni dentro un teatro a ridere, ad applaudire,
a divertirsi, credendo che si stesse svolgendo una pièce
sul palcoscenico vuoto. Quando il teatro fu chiuso e il pazzo
cacciato via, questo stesso protestò: "non mi avete
guarito dalla mia pazzia, ma avete distrutto il mio piacere e
la mia illusione di felicità."
Erasmo ci chiede così di ritornare alle parole di San Paolo:
"Lasciate che quello che tra voi sembra più saggio
diventi un pazzo, perché alla fine si faccia saggio (...),
perché la pazzia di Dio è più saggia di tutta
la saggezza degli uomini."
I figli di Eramo si sono convertiti nella penisola iberica e nell'area
ibero americana, nei figli di La Mancha, nei figli di un mondo
macchiato, impuro, sincretico, barocco, corretto, animato del
desiderio di macchiare con la pretesa di essere, di contagiare,
con la pretese di assimilare, che le apparenze si moltiplichino
per moltiplicare il senso delle cose, contro il falso consolidamento
di una lettura unica, dogmatica del mondo. Figli di La Mancha
che raddoppiano tutte le verità per impedire che si instauri
un modo ortodosso, della fede o della ragione, o un modo puro,
privo di sporcizia razionale, culturale, sessuale, politica, delle
donne e degli uomini.
Meticciato
e immaginazione. Machado de Assis, Machado de La Mancha, il
miracoloso Machado, è un "adelantado" del mondo
dell'immaginazione e dell'ironia, del meticciato e del contagio
in un mondo sempre più minacciato dal razzismo, dalla xenofobia,
dal fondamentalismo religioso e dall'altro implacabile fondamentalismo:
quello del mercato.
Con Machado e la sua ascendenza manchega ed erasmiana, con Machado
e la sua discendenza macedoniana, borgiana, cortázariana,
nelidaniana, goytisoliana e julianofluviale, noi scrittori iberici-americani
continueremo ad impegnarci per inventare ciò che il grande
Lazama Lima denominava "era immaginaria, perché una
cultura incapace di creare un'immaginazione sarà storicamente
indecifrabile".
Machado, il brasiliano miracoloso, continua a decifrarci perché
continua ad immaginarci e la vera identità ibero-americana
è solo quella della nostra immaginazione. Immaginazione
letteraria e politica, sociale e artistica, individuale e collettiva.
(Questo
testo è stato pubblicato per la prima volta nella rivista messicana
"Quimera").
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