IL TRAMITE DELL'ANIMA
Fédor
Sologub
Data
la giovanissima età, Garmonov non sapeva ancora come regolarsi
in materia di visite: arrivava quando non doveva, e non capiva
quando era tempo di andarsene. Alla fine si rese conto che Sonpol'ev
ne aveva più che abbastanza di lui. Capì di averlo
distolto dal lavoro. Realizzò che Sonpol'ev era stato per
tutto il tempo affettatamente cortese, ma si era lasciato sfuggire
qualche battuta caustica.
Garmonov diventò rosso come un pomodoro, come se sotto
la pelle scura delle sue guance smunte si fosse accesa una fiamma
improvvisa. Si alzò in piedi, poco convinto. Ma tornò
a sedersi, avendo notato che l'altro voleva dire qualcosa. Continuando
la conversazione, Sonpol'ev disse sprezzante:
- Una maschera? Che cosa intende dire?
Garmonov bofonchiò turbato:
- Che finge. A volte è necessario, certo.
Dando corso alla sua rabbia e senza finire di ascoltare. Sonpol'ev
sbottò:
- Che cosa intende dire? Che ne sa lei di maschere? Ogni maschera
ha dietro un'anima. Non ci si può mettere una maschera
sul viso senza unire a essa la propria anima. Altrimenti la maschera
non regge.
Sonpol'ev tacque, e guardò truce davanti a sé. Non
stava guardando Garmonov. Provava lo stesso, strano senso di odio
che aveva provato quando si erano conosciuti. Cercava di mascherarlo
con un'estrema affabilità, era assiduo nell'invitare Garmonov
a casa sua, ne lodava le poesie con chiunque, ma di tanto in tanto
si lasciava scappare cose cattive e scortesi per cui l'altro,
timido, arrossiva e si chiudeva in se stesso. Lì per lì
se ne dispiaceva, ma poi ricominciava a odiarne la pacatezza,
a ritenerlo troppo abbottonato e scaltro.
Garmonov si alzò. Salutò. E uscì. Sonpol'ev
rimase solo. Non aveva potuto lavorare, e gli rincresceva. Adesso
gliene era passata la voglia. Un oscuro astio lo rodeva. Quel
ragazzetto insulso, quel Garmonov, cosa c'era in lui che lo irritava
tanto? La bocca grande, il viso lungo e smunto, i movimenti lenti,
la voce lamentosa, e se non bastava, percepiva anche una certa
ambiguità e una certa reticenza.
Sonpol'ev, stizzito, faceva avanti e indietro per il suo studio.
Si fermò davanti alla parete. E attaccò a parlare.
- Al giorno d'oggi non sono pochi a parlare col muro... Un interlocutore
davvero interessante! E affidabile!
E proseguì:
- Odiare in questo modo, odiare tanto si può solo ciò
che ci è molto affine. Ma in cosa consiste il mistero di
questa diabolica affinità? Quale demone, quale forza malefica
ha unito le nostre anime? Che sono così differenti, poi!
La mia, quella di un uomo attivo e che brama la quiete, e la sua,
l'anima di quel ragazzone dalla bocca larga, furbo come un cospiratore
e lento come un codardo! E perché il suo aspetto stona
tanto con il suo carattere? Chi ha rubato a quel moccioso la parte
migliore della sua anima, la più indispensabile?
Parlava piano. Borbottava quasi. Poi strillò, sprezzante:
- Chi è stato? Un uomo o un nemico dell'uomo?
E gli giunse una strana risposta:
- Io.
Qualcuno
aveva gridato quella parola, brusco. La sua voce era squillata
brusca ma smorzata come acciaio arrugginito. Sonpol'ev ebbe un
sussulto. Si guardò intorno. Nella stanza non c'era nessuno.
Si sedette in poltrona, guardò truce il tavolo oberato
di libri e scartoffie, e aspettò. E aspettò ancora.
L'attesa si fece snervante. Allora gridò:
- Beh, perché ti nascondi? Dato che parli, fatti anche
vedere! Che hai da dire?
Tese l'orecchio. Aveva i nervi a fior di pelle. Il minimo rumore
lo faceva tremare come le trombe del giudizio.
E all'improvviso uno scoppio di risa. Brusche, metalliche. Come
se fosse scattata la molla di un giocattolo a carica, che ora
ballonzolava tintinnante nel quieto silenzio della sera. Sonpol'ev
si premette le dita sulle tempie. Coi gomiti poggiati sul tavolo.
Tese l'orecchio. La risata si andava spegnendo, meccanica e regolare.
Si sentiva chiaramente che veniva da un punto vicino, dal tavolo
quasi.
Sonpol'ev aspettava. Fissava con sguardo teso il calamaio in bronzo.
E chiese beffardo:
- Sei forse tu a ridere, spirito del calamaio?
Una voce brusca, diversa da quella tetra dei fantasmi, rispose
con lo stesso tono beffardo di prima:
- E no, ti sbagli, e di grosso! Non c'entro col calamaio, io.
Non conosci forse la voce liquida dello spirito del calamaio?
Sei un pessimo osservatore.
E di nuovo quella risata, di nuovo lo scatto della molla arrugginita.
Sonpol'ev disse:
- Non so chi sei, e come potrei saperlo? Non ti vedo, no? Penso
solo che anche tu sia come tutti i tuoi fratelli: siete sempre
accanto a noi, ci mettete paura e fate brutti scherzi, come anche
adesso, ma non osate farvi vedere!
La voce da molla rispose:
- Sono venuto per parlare con te. Mi piace molto parlare con quelli
come voi, con i dimezzati.
Si zittì, e Sonpol'ev restò in attesa della risata.
"Ho l'impressione che accompagni ogni sua frase con quell'orribile
ghigno", pensò. Non si sbagliava. Lo strano visitatore
aveva effettivamente adottato quella maniera di parlare: qualche
parola condita con una risata tra il brusco e l'arrugginito. Pareva
che con la parole caricasse la molla che poi doveva assolutamente
far scattare a furia di ridere.
E mentre risuonava la risata, che poi andò spegnendosi
con la solita meccanica regolarità, da dietro il calamaio
spuntò l'ospite.
Era piccolo: dalla testa ai piedi sarà stato alto quanto
un anulare. Era di un grigio metallico. Date le dimensioni ridotte
e la rapidità di movimenti, non si riusciva a capire se
fosse il suo corpo a brillare di luce fioca o l'abito attillato
che indossava. A ogni modo era qualcosa di liscio e di estremamente
semplice. Il corpo sembrava una botticella più larga in
vita e più stretta all'altezza delle spalle e del bacino.
Braccia e gambe erano lunghe e grosse allo stesso modo e ugualmente
agili e flessibili, tanto da parere che le braccia fossero troppo
lunghe e grasse e le gambe troppo corte e sottili. Il collo era
corto, il viso minuscolo, le gambe divaricate. Alla fine del corpo
si intravedeva qualcosa tipo una coda o una grossa escrescenza.
Protuberanze simili le aveva anche all'altezza dei gomiti. Si
muoveva rapido, agile e sicuro.
Quel
mostriciattolo si sedette sulla base in bronzo del calamaio, allontanando
con un calcio il portapenna per stare più comodo. Non disse
altro.
Sonpol'ev ne osservò il viso. Magro, grigio, liscio. Gli
occhi erano piccoli e lucenti, la bocca grande. Le orecchie a
sventola e appuntite.
Era appeso all'asticella della penna come una scimmia. Sonpol'ev
chiese:
- Cosa mi racconti di bello, caro il mio ospite?
Per tutta risposta risuonò una vocina monotona e così
sgradevolmente brusca da parere arrugginita:
- Uomo con una testa sola e un'anima sola, sforzati di ricordare
il tuo passato e i giorni andati quando tu e lui eravate un corpo
solo.
E di nuovo quella risata che straziava l'udito, brusca e sonora.
Con ancora l'eco di quelle risa, l'ospite, agilissimo. fece una
capriola e finì a gambe all'aria, e Sonpol'ev vide che
quella cosa spessa che pareva una coda era invece una seconda
testa. Che non presentava alcuna differenza con la prima. Fosse
per le dimensioni ridotte o perché erano effettivamente
uguali, fatto sta che Sonpol'ev non notò alcuna differenza.
Le braccia ruotarono come su dei perni e divennero gambe, la prima
testa scomparve tra quel groviglio di arti, e quelle che prima
erano sembrate delle gambe, altrettanto automaticamente ruotarono
e cominciarono a fungere da braccia.
Sonpol'ev osservò stupito il suo strano ospite. Che danzava
fra mille smorfie. E quando finalmente la sua risata si affievolì
fino a zittirsi, la seconda testa attaccò:
- Quante anime hai, tu? Quante coscienze? Lo sai, eh? Vai fiero
della prodigiosa differenziazione dei tuoi organi, tu! Pensi che
ogni membro del tuo corpo debba svolgere funzioni rigidamente
stabilite. Ma dimmi, uomo sciocco: cos'è che ti fa ricordare
le tue precedenti esperienze? È tutto accumulato in un'unica
testa. Tu pontifichi e sentenzi oltre i limiti della tua misera
coscienza, ma la tua maggior disgrazia è che disponi di
una testa sola.
L'ospite
scoppiò ancora nella sua sonora risata arrugginita, che
quella volta si protrasse per un po'. Rideva e ballava. Si mise
a testa in giù, poi di lato, su di un braccio e una gamba
(se così si potevano differenziare le sue quattro estremità),
poi si rivoltò ancora, e si scoprì che le escrescenze
sui suoi fianchi erano anch'esse delle teste. E ognuna di esse
parlò, rise e fece qualche smorfia, deridendolo.
- Zitto! - gridò infuriato Sonpol'ev.
Ma l'ospite continuò a ballare, strillare e ridere.
Sonpol'ev pensò: "Bisognerebbe suonargliele. O farne
una polpetta, di quel verme".
E quello continuava a ridere e a fare smorfie.
"Acciuffarlo non si può" pensava Sonpol'ev. "Mi
scotterei. Se lo accoltellassi?"
Fece scattare il temperino. E puntò veloce la lama al centro
del corpo dell'ospite. Quel mostro a quattro teste si raggomitolò,
agitò le sue quattro zampette e scoppiò a ridere
di un riso lancinante. Sonpol'ev lasciò cadere il coltello
sul tavolo.
- Serpe! - gridò - Che cosa vuoi da me?
L'ospite balzò sul coperchio aguzzo del calamaio con un
piede solo, sollevò le braccia e strillò con voce
nasale:
- Uomo con una testa sola, rammenta il tuo lontano passato, quando
tu e lui eravate un corpo solo. E quando andaste insieme incontro
al pericolo. Ricordati la danza, la danza di quell'ora fatale.
Si fece buio di colpo. E risuonò la solita risata roca
e nasale. A Sonpol'ev girava la testa...
Dalle tenebre sbucarono lente delle leggiadre colonne e un soffitto
basso. Delle candele ardevano scialbe, e le loro lingue di fuoco
oscillavano rosse nell'aria soave. Un flauto suonava a distesa.
E c'erano delle gambe, delle splendide gambe di ragazzo che danzavano
armoniose.
A Sonpol'ev parve di vedersi giovane e forte, mentre danzava attorno
al tavolo di un banchetto. Lo osservava un viso flaccido, brutto
e ubriaco; quell'uomo rideva, si divertiva, gli piaceva la danza
di quel ragazzo mezzo nudo. Sonpol'ev aveva una voglia irrefrenabile
di strangolarlo, ma qualcosa glielo impediva. Nella sua danza
sfrenata gli passò accanto con le mani che gli tremavano.
La nebbia purpurea dell'odio gli offuscava la vista.
In quello stesso istante, però, si risvegliò la
sua seconda anima: astuta, affabile, un'anima felina. Il ragazzo
sorrise al festeggiato e lo sfiorò continuando a danzare,
giovane, affettuoso e tenero. L'altro rise. Le gambe nude del
ragazzo e il suo torso spoglio lo divertivano.
E riaffiorò l'odio che offusca gli occhi di una nebbia
purpurea, che scuote le braccia di un tremore malvagio. E poi
ancora il sorriso furbo di quel giovane affettuoso.
Qualcuno bisbigliò maligno:
- Dureranno ancora molto queste vane giravolte? Basta! E ora di
finirla!
Uno sforzo congiunto di volontà. Le due anime si fondono
in una sola. Odio e astuzia insieme. Un movimento leggiadro e
fluido, un colpo netto, mentre le gambe armoniose già trascinano
il giovane nel vortice della danza. Un grido rauco. Confusione.
Tutto si mescola...
E di nuovo il buio.
Sonpol'ev si svegliò: il mostriciattolo era ancora sul
tavolo che ballava, faceva le smorfie e rideva.
Gli chiese:
- Che cos'era?
L'ospite disse:
- Quel giovane aveva due anime, e una di esse ora è la
tua, un'anima di fervide passioni e desideri appassionati, perennemente
avida e bramosa.
E risuonò la risata che straziava l'udito. Il mostriciattolo
riattaccò a ballare. Sonpol'ev gridò:
- Smettila di ballare, tu! Vorresti insinuare che l'altra anima
di quel giovane ora è racchiusa nel corpo gracile di quell'odioso
ragazzo scuro?
L'ospite smise di ridere e strillò:
- Uomo, finalmente hai capito quello che volevo rivelarti. Ora,
forse, indovinerai perché sono qui e chi sono.
Sonpol'ev lasciò sfumare un brusco sussulto di risa e rispose
al suo ospite:
- Tu sei il tramite delle due anime. Ma perché non ci hai
riunito alla nostra nascita?
Il mostriciattolo sibilò, si raggomitolò tutto,
fece una capriola, poi si fermo, tirò fuori una delle sue
teste laterali e gridò:
- Ci penseremo adesso, se vuoi. Lo vuoi?
- Sì - rispose Sonpol'ev su due piedi.
- Invitalo da te per la notte di Capodanno, e chiamami. Per farlo
prendi questo capello.
Il mostriciattolo corse lesto alla lampada, posò sulla
sua base liscia un capello nero, sottile e corto, e continuò:
- Brucialo. E io verrò. Ma sappi che dopo né tu
né lui potrete mantenere le vostre esistenze distinte.
E di qui uscirà uno solo, che riunirà le due anime:
non più tu e non più lui.
E scomparve. La sua risata brusca e arrugginita risuonò
un'ultima volta, ma Sonpol'ev non vedeva più nessuno davanti
a sé. A ricordargli il suo ospite c'era solo il capello
nero sulla base liscia della lampada.
Sonpol'ev lo prese e lo nascose nel portafoglio.
L'ultimo giorno dell'anno volgeva quasi alla mezzanotte.
Garmonov era di nuovo da Sonpol'ev. Parlavano a voce bassa, quasi
trattenuta. E col cuore in gola, Sonpol'ev chiese:
- Non le dispiace che l'abbia invitata a questa conversazione
solitaria?
Il giovane scuro si aprì in un sorriso e i suoi denti parvero
ancora più bianchi. Centellinò qualche parola, noioso,
qualcosa di talmente insulso che Sonpol'ev non aveva alcuna voglia
di prestargli attenzione. E senza alcuna attinenza a quanto detto,
gli chiese:
- Lei ricorda la sua precedente esistenza?
Vagamente - rispose Garmonov.
Era chiaro che non aveva capito la domanda e credeva che intendesse
gli anni della sua infanzia.
Sonpol'ev
si rabbuiò, sprezzante. E gli spiegò che cosa intendeva,
anche se si rendeva conto di farlo in modo confuso, dilungandosi
troppo. Ragion per cui sì innervosiva ancora di più.
Ma Garmonov aveva capito. E ne era felice. Arrossì appena.
E disse più vivace del solito:
- Sì sì, a volte mi pare di avere già vissuto
un'altra vita. È una strana sensazione. Come se quella
vita fosse stata più piena. più ardita, più
libera. Come se avessi avuto il coraggio di fare cose che adesso
non oso.
- Pare anche a lei - chiese Sonpol'ev, turbato - di aver perso
qualcosa? Che le manchi forse la parte più importante del
suo essere?
- Sì - disse Garmonov, - è proprio quello che provo!
- E vorrebbe reintegrare la parte mancante? - continuò
Sonpol'ev. - Essere di nuovo intero e coraggioso e di nuovo, come
una volta, riunire in un solo corpo leggiadro e libero come può
essere solo quello di un giovane, tutta la pienezza della vita,
la miracolosa unione e il trionfo delle contraddizioni della nostra
natura umana? Essere più che intero, sentire nel petto
il battito di un cuore che pare sdoppiato, essere in un modo e
anche in un altro, riunire in sé due anime ostili, e dalla
fervida lotta di queste nobili contraddizioni trarre il coraggio
e la fermezza di grandi gesta?
- Sì, sì - disse Garmonov - capita anche a me di
sognarlo.
Sonpol'ev non osava guardare il viso titubante e turbato del giovane
scuro. Aveva il vago timore che quel viso potesse in qualche modo
placare il suo entusiasmo. Mentre lui doveva sbrigarsi.
La notte era alle porte. Sonpol'ev disse piano:
- Io ho il mezzo per ottenere tutto ciò. Ma lei lo desidera
veramente?
- Sì - disse Garmonov, titubante.
Sonpol'ev alzò lo sguardo. Fissò Garmonov deciso
e insistente, quasi a pretendere da lui qualcosa di assolutamente
ineluttabile. Guardava inflessibile quegli occhi neri da ragazzo
che avrebbero dovuto ardere ma che in realtà erano solo
gli occhi infidi e freddi di un omuncolo dall'anima dimezzata.
Ma a Sonpol'ev parve che sotto il suo sguardo infuocato e incalzante
gli occhi di Garmonov si fossero accesi di entusiasmo e di fiamme
di malvagità. Il viso scuro del ragazzo si fece di colpo
severo e compreso.
- Lo desidera davvero? - tornò a chiedergli Sonpol'ev.
- Sì - disse pronto Garmonov.
E una terza voce, brusca e sonora, declamò:
- Uomo meschino e scaltro che pur tuttavia in una delle tue passate
esistenze hai compiuto un gesto di grande coraggio che era quello
di fondere la tua anima di scaltro con una ardente di sdegno,
dillo in quest'ora solenne: sei tu veramente deciso a riunire
la tua anima con quell'altra?
- Sì - rispose Garmonov ancora più pronto e deciso.
Sonpol'ev tese l'orecchio alla voce brusca che aveva fatto la
domanda. La riconobbe. E non si sbagliava: il "sì"
di Garmonov stava già affondando nel riso brusco e metallico
del suo magico visitatore.
Quando la risata si spense, Sonpol'ev disse:
- Sappia però che per farlo dovrà rinunciare al
fascino e alla gioia di un'esistenza a sé stante. Ora farò
una magia: noi moriremo entrambi liberando le nostre anime e fondendole
in una sola, e non ci saremo più né io né
lei, ma una sola altra persona, ardente nel pensiero e fredda
nell'azione. Dovremo andarcene entrambi per far posto a colui
nel quale misteriosamente ci fonderemo. È deciso a questa
terribile azione, amico mio? A questo gesto terribile ma grandioso?
Garmonov sorrise di un sorriso strano e indefinito, smorzato però
dallo sguardo infuocato di Sonpol'ev; e il ragazzo con voce spenta,
cupa, quasi succube di un ordine ineluttabile e superiore, disse:
- Ho deciso. Lo voglio. E non ho paura.
Con le dita che gli tremavano Sonpol'ev estrasse dal portafoglio
il capello magico. Accese la candela, dietro la quale si nascondeva
il suo visitatore a quattro teste. Quella sera era grigio e fluttuante
e baluginava come l'ombra di un essere labile e ardente che accarezzava
di un abbraccio infuocato il corpo bianco della remissiva candela.
Garmonov seguiva i movimenti di Sonpol'ev con gli occhi sgranati,
concentrato. Sonpol'ev accostò il capello alla fiamma,
il cappello si arricciò, rosso, e prese fuoco. Bruciò
molto lentamente, con un leggero crepitio ritmico simile alla
risata dell'ospite notturno.
E da dietro la candela, tra smorfie e lazzi, sbucò quello
stesso mostriciattolo magico. Si piazzò al centro del tavolo,
fissando ora il capello ora il ragazzo e bisbigliando qualcosa
di incomprensibile; e dopo ogni parola scoppiava in una risata
simile al crepitio del capello che bruciava.
Quanto
stava dicendo il prodigioso ospite era semplice e tremendo insieme.
In un primo momento le sue parole scivolarono sulla mente di Sonpol'ev,
tanto teso e concentrato sul fuoco del capello magico da non collegare
quei suoni semplici e conosciuti ad alcun significato. Ma di colpo
sbiancò. E tese l'orecchio. Quelle parole semplici, tremendamente
semplici suonavano beffarde:
- Anima piccola, anima corta, anima vile...
Terrorizzato, Sonpol'ev alzò gli occhi su Garmonov. Il
ragazzo scuro si contorceva in modo strano. Era pallido. Aveva
la fronte imperlata di sudore. Le labbra erano piegate in un sorriso
forzato e meschino. Quando si accorse che Sonpol'ev lo stava guardando,
si contorse ancora di più e riuscì a strapparsi
di bocca con voce sorda e rotta:
- Ho paura. Sto male. Non voglio!
Quindi si acquattò come un gatto, furbo, pavido e cattivo,
per poi scattare con le labbra rosse protese e deformi a soffiare
sul capello che ancora bruciava. La fiamma si alzò in una
lingua stretta, sussultò e si spense. Un fumo azzurro si
alzò nell'aria quieta. La risata brusca dell'ospite notturno
trapassò loro le orecchie.
E risuonò una voce nasale:
- Avete fallito! Avete fallito!
Garmonov si sedette. Sorrise in modo colpevole e scaltro. Sonpol'ev
lo guardava con occhi che non vedevano.
Nella stanza attigua si sentirono i rintocchi di un orologio.
E a ognuno di essi il mostriciattolo che fungeva da tramite all'anima
rispondeva con il grido rauco:
- Avete fallito!
Seguito dalla risata brusca da molla. E volteggiava, e danzava,
e pareva dissolversi nella luce gialla e morta della lampada elettrica.
Sfumato che fu anche il dodicesimo rintocco, l'ultima voce dell'anno
che se ne andava, si spense anche quel ripugnante:
- Avete fallito!
E con lui la risata nasale del mostriciattolo che scompariva.
Garmonov si alzò: pareva felice di essersi liberato da
quello scherzo della sorte, e disse solo:
- Felice anno nuovo!
(Tratto
dal libro "Paura", Voland editrice, Roma, 1996; traduzione di
Claudia Zonghetti)
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