CULTURA E COLONIZZAZIONE
Aimé
Césaire
Dopo un po'
di giorni abbiamo cominciato ad interrogarci anche sul senso di
questo nostro Congresso.
Ci siamo chiesti in particolare quale possa essere il denominatore
comune in un'assemblea che riunisce persone di così diversa
estrazione, tra chi proviene dall'Africa nera e chi dall'America
del Nord, chi dalle Antille chi dal Madagascar.
Il denominatore comune è la condizione coloniale.
La maggior parte dei paesi neri vive, infatti, sotto un regime coloniale.
Anche un paese indipendente come Haiti è di fatto un paese
semi-coloniale. E i nostri fratelli Americani, a causa della discriminazione
razziale, si trovano in una posizione difficile in seno ad una grande
nazione moderna. Si tratta di una situazione che non si comprende
se non si fa riferimento ad un colonialismo, certo abolito, ma le
cui conseguenze continuano a farsi sentire.
Che significa tutto questo? Che, per quanto desiderosi di assicurare
una giusta serenità al nostro dibattito, se vogliamo contemporaneamente
stringere la realtà da vicino, dobbiamo affrontare il problema
che determina tuttora lo sviluppo delle culture nere: la condizione
coloniale. In altri termini, che lo si accetti o meno, non si può
porre oggi il problema di una cultura nera senza porre nel medesimo
tempo il problema del colonialismo, visto che tutte le culture nere
si sviluppano attualmente dentro quella particolare situazione che
si chiama condizione coloniale, o semi-coloniale, o para-coloniale.
Ma, che cos'è la cultura? È necessario darne una definizione
per dissipare possibili malintesi e per rispondere in maniera chiara
a quelle preoccupazioni manifestate da alcuni nostri avversari,
ma anche da alcuni amici.
Ci si è interrogati, per esempio, sulla legittimità
stessa di questo Congresso. Qualcuno ha detto: se è vero
che non esiste se non una cultura nazionale, parlare di una cultura
negro-africana non sarà un'astrazione illegittima?
Credo che il miglior modo per impostare le questioni sia sempre
quello di definire con cura le parole che usiamo.
Penso che sia vero che non esista cultura se non come cultura nazionale.
Eppure salta agli occhi che le culture nazionali, anche se integre
nelle loro peculiarità, si raggruppano in ragione delle loro
affinità. Queste comunità o grandi famiglie di culture
hanno un nome: civiltà. In altri termini, se è evidente
che c'è una cultura nazionale francese, una cultura nazionale
italiana, inglese, spagnola, tedesca, russa, ecc., non è
meno evidente che tutte queste culture, al di là delle loro
concrete differenze, presentino delle somiglianze tali che si possa
dire che accanto alle culture nazionali che ho appena elencato ci
sia una civiltà europea.
Allo stesso modo, ritengo che si debba parlare di una grande famiglia
di culture africane che merita il nome di civiltà negro-africana
che accomuna le diverse culture dei paesi africani. E sappiamo bene
che gli avatars della storia hanno fatto sì che oggi l'area
di questa civiltà vada ben oltre i confini del continente
africano, tanto che possiamo affermare che in Brasile e nelle Antille,
ad Haiti, nelle Antille francesi e negli Stati Uniti esistono se
non dei centri, per lo meno delle propaggini della civiltà
negro-africana.
Non sto esponendo un punto di vista inventato da me per avvalorare
il discorso che vado facendo, si tratta, invece, di una prospettiva
implicata in qualsiasi discorso sociologico e scientifico intorno
al nostro problema.
Il sociologo francese Mauss ha definito la civiltà "un
insieme di fenomeni abbastanza numerosi e importanti che si estende
ad un numero sufficientemente considerevole di territori".
Si può dedurre da questa definizione che una civiltà
tende all'universalità mentre una cultura tende alla particolarità.
Ancora: che la cultura è la civiltà propria di un
popolo o di una nazione, non condivisa con altri e che porta il
carattere indelebile di quel popolo o di quella nazione. Se la si
vuole descrivere da un punto di vista esterno, diremo che essa è
l'insieme dei valori materiali e spirituali creati da una società
nel corso della sua storia, ed è chiaro che per valori bisogna
intendere degli elementi molto diversi tra loro come la tecnica
o le istituzioni politiche, una cosa fondamentale come la lingua
e una cosa effimera come la moda, e le arti così come la
scienza o la religione.
Se la si vuole definire invece in termini di finalità e presentarla
nel suo dinamismo, diremo che la cultura è lo sforzo di tutta
una comunità per dotarsi di una personalità.
Civiltà e cultura, quindi, definiscono due aspetti della
stessa realtà: la civiltà delimita il circuito più
esterno della cultura, ciò che una cultura ha di più
generale, mentre la cultura è il nocciolo intimo e irradiante,
l'aspetto più singolare di una civiltà.
Sappiamo che Mauss cercando le ragioni della partizione del mondo
in "aree di diverse civiltà" nettamente definite,
le trovò in una qualità profonda, comune secondo lui
a tutti i fenomeni sociali, che egli denominò: l'arbitrarietà.
"Tutti i fenomeni sociali sono ad un certo livello opera
della volontà collettiva, e chi dice volontà umana
dice scelta tra diverse opzioni possibili
Da simile
natura delle rappresentazioni e della pratiche collettive deriva
che l'area della loro estensione, fino a quando l'umanità
non formerà un'unica società, è necessariamente
finita e relativamente fissa.".
E così ogni cultura avrà la sua specificità.
Specificità, perché opera di una volontà particolare,
unica e che ha scelto tra diverse opzioni.
Si vede chiaramente dove ci porta questa idea.
Facciamo un esempio concreto: si può dire che esiste una
civiltà medioevale, una civiltà capitalista e una
civiltà socialista. Ma salta subito agli occhi che sul terreno
di una stessa economia la vita, la passione di vivere, la spinta
a vivere di ciascun popolo ha delle radici molto diverse da quelle
degli altri. Ciò non significa che non esista un determinismo
della struttura sulla sovrastruttura, per dirla con il linguaggio
di Marx. Significa, invece, che il rapporto tra struttura e sovrastruttura
non è mai semplice e che non deve essere mai semplificato.
È Marx stesso ad esprimersi al proposito con grande chiarezza
(Il Capitale, t. III): "È' sempre nei rapporti
immediati tra i padroni dei mezzi di produzione e i diretti produttori,
è sempre in questi rapporti che scopriamo l'intimo segreto,
il fondamento nascosto di ogni struttura sociale. Questo non
impedisce che la stessa base economica - la stessa per lo meno rispetto
alle condizioni principali - può, in ragione di innumerevoli
ma distinte condizioni empiriche - fattori naturali e razziali,
influenze storiche provenienti dall'esterno
- presentare una
infinità di variazioni e di gradazioni che non possono essere
comprese se non attraverso un'analisi delle specifiche circostanze
empiriche date".
Non si potrebbe dir meglio che la civiltà non è mai
abbastanza particolare da non supporre, vivificandola, una costellazione
di risorse creative, di tradizioni, di credenze, di modi di pensare,
di valori, un vero arsenale intellettuale, un complesso emozionale
e una saggezza che è quanto chiamiamo cultura.
Credo che tutto ciò legittimi questa riunione. C'è
tra tutti noi qui riuniti una doppia forma di solidarietà:
una orizzontale, quel tipo di solidarietà che è
determinata dalla condizione coloniale, o semi-coloniale, o para-coloniale,
imposta dall'esterno, e un'altra solidarietà, verticale direi,
una solidarietà nel tempo, che proviene da una specie
di unità primordiale, l'unità della civiltà
africana, che si è poi differenziata in una serie di culture
che, in gradi diversi, a quella sono legate.
Il risultato del ragionamento è che possiamo considerare
questo Congresso da due punti di vista diversi ma entrambi veri:
questo Congresso può rappresentare quella specie di ritorno
alle origini che effettuano tutte le comunità quando sono
in crisi e, nello stesso tempo, è un'assemblea che riunisce
uomini che affrontano le stesse difficoltà di vivere e, perciò,
sono uomini che combattono la stessa lotta e nutrono la stessa speranza.
Non credo che ci sia un'antinomia tra le due cose. Al contrario,
credo che questi due aspetti siano complementari tra di loro e che
il nostro cammino che può sembrare bloccato tra il passato
e l'avvenire è, al contrario, il più naturale, ispirato
dall'idea che la rotta più breve verso l'avvenire è
sempre quella che passa attraverso l'approfondimento del passato.
Vengo
al mio proposito essenziale: quello di cercare di illustrare le
condizioni concrete alle quali oggi si pone il problema delle
culture nere.
Ho già affermato che questo condizionamento ha un nome:
la situazione coloniale, o semi-coloniale, o para-coloniale, nella
quale è costretto lo sviluppo delle nostre culture.
E allora ecco porsi un problema: che influenza può avere
tale condizionamento sul loro sviluppo? E, innanzitutto, una forma
politica può avere delle conseguenze culturali? La questione
non è così semplice. Se si pensa con Frobenius che
la cultura nasca dall'emozione dell'uomo davanti al mondo e che
essa è <<paideuma>>, allora non c'è
influenza, se non molto limitata, del politico sul culturale.
Se si pensa con Schubart che il fattore primordiale sia di ordine
geografico e che "è lo spirito del paesaggio che forgia
l'animo dei popoli", allora non c'è alcuna influenza,
se non abbastanza trascurabile, del politico sulla cultura.
Ma se pensiamo, come il buon senso ci consiglia di fare, che la
civiltà è innanzitutto un fenomeno sociale e la
risultante di fatti e di forze sociali, allora l'idea di una influenza
del politico sul culturale s'impone con la massima evidenza.
Hegel lo sa bene quando scrive, nelle Lezioni di filosofia
della storia, la piccola frase innocente che poi Lenin considererà
meno innocente di quanto ne avesse l'aria, visto che la cita e
la sottolinea con forza nei suoi Quaderni filosofici: "L'importanza
della natura non deve essere né sotto- né sovra-stimata;
certamente il dolce cielo della Jonia ha contribuito molto alla
grazia dei poemi omerici. Ma esso da solo non può generare
degli Omeri. Tanto è vero che non ne ha prodotti mai
più da allora. Nessun aedo nacque, infatti, sotto la dominazione
turca".
Un regime politico e sociale che sopprima l'autodeterminazione
di un popolo uccide al contempo la capacità creativa di
quel popolo.
E, il che è lo stesso, lì dove ci sia un regime
coloniale, delle intere popolazioni sono private della loro cultura,
di ogni possibilità di cultura.
In questo senso possiamo dire che la storica Conferenza di Bandung
- nella quale è stato condannato il colonialismo - non
è stato solo un grande avvenimento politico, ma anche un
importante evento culturale. Essa ha rappresentato, infatti, il
sollevamento pacifico di popoli affamati non solo di giustizia
e di dignità, ma anche di ciò che la colonizzazione
ha loro strappato in primo luogo: la cultura.
Il meccanismo di morte della cultura e delle civiltà sotto
il regime coloniale comincia ormai ad essere riconosciuto. La
cultura per svilupparsi ha bisogno di una cornice, di una struttura.
Gli elementi che strutturano la vita culturale di un popolo colonizzato
spariscono o si avviliscono sotto il regime della colonizzazione.
Si tratta, naturalmente, in primo luogo dell'organizzazione politica.
Non bisogna mai dimenticare, infatti, che l'organizzazione politica
che un popolo si è liberamente data, fa parte in modo eminente
della cultura di quel popolo che, d'altra parte, essa stessa contribuisce
a determinare.
Subito dopo bisogna considerare la lingua che questo popolo parla.
La lingua, come qualcuno ha detto, è "psicologia pietrificata".
La lingua indigena quando non è più la lingua ufficiale
e amministrativa, la lingua della scuola e delle idee, subisce
un declassamento che impedisce il suo sviluppo e spesso ne minaccia
la stessa esistenza.
Bisogna farsi penetrare da quest'idea. Quando gli inglesi distrussero
l'organizzazione statuale degli Ashanti in Costa-d'oro diedero
un colpo anche alla loro cultura.
Quando i francesi non riconoscono il carattere di lingua ufficiale
all'arabo in Algeria o al malgascio in Madagascar, impedendo a
queste lingue di evolversi alle condizioni del mondo moderno,
essi procurano una ferita profonda alla cultura araba e a quella
malgascia.
Miseria della civiltà colonizzata. Soppressione o svilimento
di tutto ciò che la struttura. Come meravigliarsi, allora,
della sparizione di quella caratteristica fondamentale di ogni
civiltà vivente che è la capacità di rinnovarsi?
È un luogo comune in Europa diffamare i movimenti di liberazione
nazionale dei paesi coloniali presentandoli come forze oscurantiste
che si sforzano di far rivivere forme medioevali di vita e di
pensiero. Ma ciò vuol dire dimenticare che il potere di
superarsi sopravvive in ogni civiltà che sia viva
e che ogni civiltà è viva quando è libera.
Ciò che oggi accade nell'Africa e nell'Asia libere mi sembra
molto significativo. Basti ricordare che è la Tunisia liberata
dalla colonizzazione che sopprime i tribunali religiosi e non
la Tunisia colonizzata; che è la Tunisia libera che nazionalizza
i beni habous e sopprime la poligamia e non la Tunisia dei colonialisti.
E che è l'India sotto il dominio inglese che mantiene lo
statuto tradizionale della donna indiana e che è l'India
liberatasi della tutela inglese che parifica la donna all'uomo.
Limitata nell'azione e frenata nel dinamismo la civiltà
colonizzata, non ci si può illudere, entra ormai nel crepuscolo
che precorre la fine.
Spengler, nel suo "declino dell'Occidente" cita i versi
di Goethe:
E' necessario che tu sia così, nulla sfugga alla sua
testa.
Così disse Apollo, così disse il profeta.
Sviluppa vivendo la forma impressa in te
Che né tempo né re o legge possa spezzare.
Il grande rimprovero che facciamo all'Europa è di aver
spezzato lo slancio vitale delle civiltà che non avevano
ancora realizzato tutte le loro promesse, di non aver loro permesso
di sviluppare e portare a compimento tutta la ricchezza di forme
contenuta nella loro "testa".
Sarebbe superfluo studiare il processo mortale di questo insieme.
Diciamo semplicemente che è proprio alla base che esso
è stato spezzato. Alla base, e quindi irrevocabilmente.
Viene in mente il paradigma di Marx sulle società dell'India:
piccole comunità che scoppiano, perché l'intrusione
straniera fa saltare la loro base economica. Assolutamente vero,
e non solo per l'India. Lì dove la colonizzazione europea
ha fatto irruzione, l'introduzione dell'economia basata sul denaro
ha provocato, insieme con la disintegrazione della famiglia, la
distruzione o l'indebolimento dei legami tradizionali e la polverizzazione
della struttura sociale ed economica delle comunità originarie.
Quando si affermano queste cose e si appartiene ad un popolo colonizzato,
la propensione degli intellettuali europei è di gridare
scandalizzati all'ingratitudine e di ricordare con compiacimento
ciò che il mondo deve all'Europa. In Francia abbiamo ancora
molto viva l'impressionante tesi sostenuta dal signor Caillois
e dal signor Béguin, il primo con una serie di articoli
intitolata "Illusioni all'indietro" e il secondo con
la sua prefazione al libro di Pannikar sull'Asia. Scienza, storia,
sociologia, etnografia, morale, tecnica, non manca nulla. Che
importa qualche atto inevitabile di violenza di fronte alla lista
di meriti? C'è sicuramente qualcosa di vero in simili descrizioni.
Ma nessuno di questi signori può impedire che agli occhi
del mondo la grande rivoluzione che l'Europa incarna nella storia
dell'umanità non sia costituita né dall'introduzione
di un sistema fondato sul rispetto della dignità umana,
come si sforzano di farci credere, né sull'invenzione del
rigore intellettuale, ma che tale rivoluzione è fondata
su un ordine totalmente diverso, che è sleale non guardare
in faccia: l'Europa è stata la prima ad aver inventato
e ad aver introdotto ovunque essa ha dominato, un sistema economico
e sociale basato sul denaro, e di aver impietosamente eliminato
qualsiasi, dico qualsiasi, cultura, filosofia e religione: tutto
ciò che poteva rallentare o bloccare la corsa all'arricchimento
di un gruppo di individui e di popoli privilegiati.
So perfettamente che da un po' di tempo si contesta il fatto che
i danni provocati dall'Europa siano irreparabili. Si sostiene
che se si fossero prese alcune precauzioni si sarebbe potuto alleviare
gli effetti devastanti della colonizzazione. L'Unesco si è
recentemente espressa su questa questione (Corriere dell'Unesco,
febbraio 1956) e abbiamo sentito il suo direttore generale Evans
affermare che "si poteva in certe condizioni introdurre il
progresso tecnico in alcune culture in modo da armonizzarlo con
il loro sviluppo". E una famosa etnografa, Margaret Mead,
ha affermato che se si tiene presente che "ogni cultura forma
un insieme logico e coerente" e che "ogni modificazione
di un elemento qualsiasi di una cultura comporta delle trasformazioni
anche in altri punti", allora, una volta che si siano prese
queste precauzioni, si può "introdurre in questa o
in quella cultura l'educazione di base, delle nuove pratiche agricole
o industriali, delle nuove regole di amministrazione sanitaria
con
un minimo di turbamenti o per lo meno finalizzando costruttivamente
gli inevitabili turbamenti prodotti".
Tutto questo è certamente dettato da buone intenzioni.
Ma bisogna che ognuno si assuma le sue responsabilità:
non esiste una cattiva colonizzazione che distrugge le civiltà
indigene e attenta alla "salute morale dei colonizzati",
e un'altra colonizzazione, una colonizzazione illuminata e ispirata
dalla migliore etnografia, che integrerebbe in maniera armoniosa,
e senza rischi per "la salute morale dei colonizzati",
degli elementi culturali del colonizzatore nel corpo delle civiltà
indigene. Bisogna che ognuno faccia la sua parte: i tempi della
colonizzazione non si coniugano mai con i verbi dell'idillio.
Abbiamo visto che qualsiasi colonizzazione si traduce prima o
dopo nella morte della civiltà colonizzata. Ma si potrebbe
dire: se la civiltà indigena muore, il colonizzatore la
sostituisce con un'altra civiltà, addirittura superiore
a quella indigena: quella del colonizzatore.
Propongo di chiamare questa illusione "l'illusione di Deschamps",
dal nome del Governatore Deschamps che inaugurando ieri mattina
questo Congresso ricordava in modo patetico che la Gallia era
stata colonizzata dai Romani e che i Galli non avevano conservato
una troppo cattiva memoria di tale colonizzazione. L'illusione
di Deschamps è antica quanto la stessa colonizzazione romana.
Si può anche chiamarla l'illusione di Rutilio Namaziano,
visto che tra gli antenati del Governatore Deschamps trovo un
uomo che non era Governatore ma Prefetto di Palazzo, cariche molto
simili, che nel quinto secolo dopo Cristo esprimeva in versi latini
un pensiero perfettamente analogo a quello dichiarato in prosa
francese dal nostro Governatore. E' chiaro che l'accostamento
pone qualche problema. Ci si può domandare, ad esempio,
se la comparazione tra situazioni storiche molto differenti ha
qualche valore e se, come in questo caso, una colonizzazione pre-capitalistica
possa essere comparata ad una capitalista. Ma ascoltiamo Rutilio
Namaziano:
Fecisti
patriam diversis gentibus unam;
Profuit iniustis te dominante capi
Dumque offers victis proprii consortia iuris
Urbem fecisti quod prius orbis erat
Constatiamo
en passant che l'ordine colonialista moderno non ha ispirato nessun
poeta e che l'orecchio dei colonialisti moderni non è stato
mai addolcito da un inno di riconoscenza. Direi che ciò
rappresenta già di per sé una forma di condanna
dell'ordine colonialista. Ma poco importa. Veniamo alla sostanza
dell'illusione: così come in Gallia una cultura latina
prese il posto di quella indigena, ci sarebbero nel mondo moderno
come conseguenze della colonizzazione dei polloni di civiltà
francese, inglese o spagnola. Ancora una volta si tratta di un'illusione.
La diffusione di un simile errore non è mai inconsapevole
o disinteressata. Accontentiamoci a tal proposito di ricordare
che nel 1930, in una riunione di filosofi e di storici dedicata
alla definizione del termine "civiltà", un uomo
politico come Doumer interrompeva lo storico Berr o l'etnografo
Mauss, per segnalare i pericoli politici del loro relativismo
culturale, sostenendo che bisognava lasciare intatta l'idea che
la Francia aveva come missione di portare "la civiltà"
nelle sue colonie, la civiltà francese, chiaramente. Dico
illusione perché bisogna convincersi del contrario: nessun
paese colonizzatore può prodigare la propria civiltà
ad un paese colonizzato, perché non c'è, non c'è
mai stata e non ci sarà mai, qua e là per il mondo
come si voleva nei primi tempi del colonialismo, nessuna "Nuova
Francia", o "Nuova Inghilterra", o "Nuova
Spagna".
Bisogna insistere su questo argomento: una civiltà è
un insieme coordinato di funzioni sociali: da quelle tecniche
a quelle intellettuali, da quelle organizzative a quelle istituzionali.
Dire che il colonizzatore sostituisce la civiltà indigena
con la propria può significare solo una cosa: che la nazione
colonizzatrice assicura alla nazione colonizzata e agli indigeni
nel proprio paese la padronanza completa di tutte queste diverse
funzioni.
Che cosa insegna, invece, la storia del colonialismo? Esattamente
il contrario. E cioè: che la tecnica in un paese coloniale
si sviluppa sempre ai margini della società indigena e
senza che sia mai data agli indigeni la possibilità di
possederla. (La grande miseria dell'insegnamento tecnico in tutti
i paesi coloniali e lo sforzo dei colonizzatori di impedire agli
operai indigeni l'accesso alla qualificazione tecnica, sforzo
che trova la sua espressione più odiosa e radicale in Sudafrica,
sono significativi a questo proposito). Insegna che per quanto
riguarda le funzioni intellettuali non c'è paese coloniale
che non sia afflitto dall'analfabetismo e dal basso livello dell'istruzione
pubblica. E che in tutte le colonie per quanto riguarda le funzioni
che riguardano l'organizzazione politica e le istituzioni, il
potere appartiene alle potenze colonizzatrici ed è esercitato
direttamente dal governatore e dai suoi uomini.
(Il che spiega, detto en passant, la vanità e l'ipocrisia
di tutte le politiche basate sull'integrazione o sull'assimilazione.
Politiche che i popoli riconoscono facilmente ormai come trappole
acchiappagonzi).
È evidente, allora, la portata delle esigenze in campo.
Le riassumerò in poche parole: per il colonizzatore esportare
la propria civiltà nel paese colonizzato significa solo
intraprendere deliberatamente l'edificazione di un capitalismo
indigeno (e di una società capitalista indigena) immagine
e allo stesso tempo concorrente del capitalismo metropolitano.
Basta dare uno sguardo alla realtà per constatare che in
nessun luogo il capitalismo metropolitano ha generato un capitalismo
indigeno. E se in nessun paese coloniale è nato un capitalismo
indigeno - non parlo, evidentemente, del capitalismo dei coloni,
che è direttamente collegato con quello metropolitano -
non bisogna cercarne le ragioni nella incapacità degli
indigeni, ma nella natura stessa e nella logica del capitalismo
colonizzatore.
Malinowski, per altri versi molto criticabile, ha il merito di
aver evidenziato con chiarezza il fenomeno che egli definisce
del "dono selettivo".
" La concezione che descrive la civiltà europea come
una cornucopia da cui si spande liberamente ogni ricchezza è
fallace. Non c'è bisogno di essere un antropologo per scoprire
che il "dono europeo" è sempre altamente selettivo.
Noi non doniamo mai e mai doneremo ai popoli indigeni che vivono
sotto il nostro controllo - dato che sarebbe una pura follia dal
punto di vista del realismo politico - i seguenti elementi della
nostra cultura: 1) gli strumenti del potere materiale: le armi
da fuoco e gli altri mezzi militari che rendono efficace la difesa
e possibile l'aggressione; 2) i nostri strumenti del potere politico.
La sovranità resta sempre nelle mani della "corona
britannica", della "corona belga" o della repubblica
francese. Anche quando governiamo in maniera indiretta è
sempre sotto il nostro controllo che il potere viene esercitato;
3) noi non dividiamo con gli indigeni l'essenziale dei profitti
e della nostra ricchezza. Il metallo che proviene dalle miniere
d'oro e di rame africane non viene mai avviato nei canali africani,
se non come salario, che resta comunque molto basso. Anche quando
in un sistema di sfruttamento economico indiretto delle risorse
naturali, come quello che pratichiamo in Africa occidentale o
in Uganda, lasciamo una parte del profitto agli indigeni, il controllo
completo dell'organizzazione economica resta sempre nelle mani
dell'impresa occidentale.
In nessun posto è accordata l'uguaglianza politica, né
quella sociale, né la piena parità religiosa. In
effetti, quando consideriamo tutti i punti che abbiamo elencato
è facile constatare che non si tratta affatto di un "donare",
né di un offrire "generosamente", ma piuttosto
di un "prendere". Noi abbiamo preso agli africani le
loro terre e in generale le terre più ricche. Abbiamo tolto
alle tribù la sovranità e il diritto di fare guerra.
Facciamo pagare delle imposte agli indigeni la cui destinazione
essi non possono controllare. Infine, il lavoro che essi forniscono
non è mai volontario, se non di nome." (Introductory
essays on the anthropology of changing African cultures, 1939).
Malinowski avrebbe tirato le conclusioni di questo discorso qualche
anno più tardi in The dynamics of culture.
" E' il dono selettivo l'elemento che forse più di
tutti gli altri nella condizione coloniale determina il processo
di cambiamento culturale. Ciò che gli europei si astengono
dal donare è allo stesso tempo significativo e ben determinato.
Si tratta di un rifiuto che tende a preservare dal contatto culturale
tutti quegli elementi che costituiscono i privilegi economici,
politici e giuridici della cultura superiore. Se fossero donati
agli indigeni il potere, la ricchezza e gli altri benefici sociali,
il cambiamento culturale sarebbe relativamente facile. L'assenza
di tali fattori, invece, il nostro "dono selettivo",
rende così difficile e complicato il cambiamento culturale".
Sembra chiaro, quindi, che non si tratta affatto e mai di un dono
totale; e dato che non si da il caso di una civiltà che
si prodighi totalmente non si può parlare di un trasferimento
di civiltà. Nella sua opera Il Mondo e l'Occidente,
Toynbee avanza una teoria molto ingegnosa intorno alla psicologia
degli incontri delle civiltà. Egli ci spiega che quando
il raggio di una civiltà tocca un corpo sociale straniero,
"la resistenza del corpo straniero rifrange il raggio culturale
scomponendolo, esattamente come il prisma scompone i raggi di
luce ed evidenzia i colori dello spettro". La resistenza
del corpo sociale straniero si oppone, quindi, alla diffusione
totale di una cultura in un'altra e opera una specie di selezione
di natura fisica che trattiene addirittura gli elementi meno importanti
e più nocivi.
La verità è un'altra: è Malinowski che ha
ragione su Toynbee. La selezione degli elementi culturali offerti
ai colonizzati non è l'effetto di una legge fisica ma è
risultato di una politica voluta dal colonizzatore, una politica
che si può riassumere nel carattere stesso del capitalismo:
il regime dell'import-export, sua potenza, virtù e fondamento.
Ma,
si dirà, c'è un'altra possibilità: quella
dell'elaborazione di una nuova civiltà, una civiltà
che sarà debitrice nei confronti dell'Europa così
come delle civiltà indigene. Scartate le due soluzioni,
quella della conservazione della civiltà indigena e quella
dell'esportazione oltremare della civiltà del colonizzatore,
non si può immaginare un processo che tenderebbe all'elaborazione
di una civiltà assolutamente nuova che non si rifarebbe
né a quella europea né a quella indigena?
Questa è proprio l'illusione che attira molti di quegli
europei che immaginano di assistere nei paesi di colonizzazione
francese o inglese alla nascita di civiltà franco o anglo-africane
o franco e anglo-asiatiche.
Per poterlo credere si appoggiano sull'idea che ogni civiltà
vive di prestiti. Da qui deducono che attraverso la colonizzazione
che mette a contatto due diverse civiltà la civiltà
indigena possa fornire dei prestiti culturali alla cultura europea
e che da questo matrimonio possa nascere una civiltà nuova,
una civiltà meticcia.
L'errore di questa teoria sta nel fatto che essa riposa sull'illusione
che la colonizzazione è un contatto tra civiltà
come un altro e che tutti i prestiti si equivalgono.
La verità è molto diversa: il prestito è
valido e benefico se è riequilibrato da uno stato interiore
che lo invoca e che lo assimila al soggetto che se ne appropria;
che da esterno lo rende interiore. Il pensiero di Hegel trova
qui applicazione. Quando una civiltà prende un prestito,
essa si impadronisce di qualcosa: agisce e non subisce. "Impadronendosi
dell'oggetto il processo da meccanico diventa interno e attraverso
di esso l'individuo si appropria dell'oggetto in modo da
spogliarlo di tutto ciò che costituisce la sua particolarità,
ne fa un mezzo e gli da la sostanza della propria soggettività."
(Logica, t. II).
Il caso della colonizzazione è del tutto diverso. Non si
tratta di un prestito chiesto in nome di un bisogno e di elementi
culturali che si integrano spontaneamente nel mondo del soggetto.
Malinowski e la sua scuola hanno ragione ad insistere su questo
punto: il processo di contatto culturale deve essere considerato
innanzitutto come un processo continuo di inter-azione tra gruppi
di diverse culture.
Che dire, se no che proprio la situazione coloniale che mette
l'uno in faccia all'altro il colonizzatore e il colonizzato è
in ultima analisi il fattore determinante?
Il risultato di questa mancanza di integrazione attraverso la
dialettica del bisogno è l'esistenza in tutti i paesi coloniali
di un vero mosaico culturale. Intendo dire che in tutti i paesi
colonizzati i tratti culturali si trovano giustapposti ma non
armonizzati.
E che cosa è una civiltà se non un'armonia e una
globalità? Una cultura non è una giustapposizione
di tratti culturali e per questo non è possibile una cultura
meticcia. Con questo non voglio affermare che delle persone biologicamente
meticce non potranno dare vita ad una civiltà. Voglio dire,
invece, che la civiltà che essi fonderanno non sarà
una civiltà se sarà meticcia. Questo perché
una caratteristica importante della cultura è lo stile,
e cioè quella proprietà di un popolo e di un'epoca
che si ritrova in tutte le loro manifestazioni. Nietzsche al proposito
mi sembra illuminante. "La cultura è innanzitutto
l'unità dello stile artistico che appare in tutte le manifestazioni
vitali di un popolo. Sapere molte cose e averne apprese molte
non è un carattere né una risorsa necessaria di
una cultura, anzi, in certi casi si accorda proprio con il contrario
della vera cultura, la barbarie: la mancanza di stile o il
caos di tutti gli stili".
Non si potrebbe fare una descrizione più azzeccata della
situazione culturale dei paesi coloniali. In questi paesi, infatti,
la sintesi armoniosa che costituiva la cultura indigena si è
dissolta ed è stata sostituita da un minestrone informe
di tratti culturali eterogenei che si accavallano senza armonizzarsi.
Non si tratta di barbarie per mancanza di cultura, ma di barbarie
per anarchia culturale.
La parola barbarie può forse intimorire. Ma non possiamo
dimenticare che le epoche di grande creatività sono sempre
state delle epoche di grande unità psicologica, di comunione
e che la cultura vive e si sviluppa intensamente lì dove
vige un sistema di valori comuni. E che, al contrario, lì
dove la società è in dissolvimento, si frantuma
e si disperde in una varietà di valori non riconosciuti
dalla comunità. Si fa posto così all'imbastardimento
e alla sterilità della cultura.
Un'altra obiezione possibile è che qualsiasi cultura, per
quanto grande sia, anzi tanto quanto più grande essa è,
è un mélange di caratteri incredibilmente
eterogenei. Basti pensare alla cultura greca, formata di elementi
cretesi, egizi e asiatici. E ci si potrà spingere anche
più in là, arrivando a sostenere che le culture
sono sempre come gli abiti di arlecchino. Questo punto di vista
ha trovato il suo interprete spirituale nell'antropologo americano
Kroeber (Anthropology, 1948): "E' come se un coniglio
potesse trapiantarsi il sistema digestivo di un montone, le branchie
di un pesce, gli artigli e i denti di un gatto, qualche tentacolo
della piovra e un assortimento di altri organi prelevati dalle
specie animali più diverse e così sopravvivere,
anzi perpetuarsi e prosperare. Dal punto di vista organico è
senz'altro un non senso, ma nel dominio della cultura è
una approssimazione molto vicina alla realtà."
Sono d'accordo: la regola vitale delle culture è la diversità.
Ma attenzione: questa eterogeneità non è mai vissuta
come tale. Nella realtà vivente di una civiltà si
tratta sempre di una eterogeneità che viene vissuta interiormente
come una omogeneità. L'analisi descrittiva può rilevare
tutta la diversità che si vuole, ma gli elementi, per quanto
eterogenei possano essere, sono vissuti dalla coscienza comunitaria
come propri, allo stesso modo degli elementi più
tipicamente autoctoni. La civiltà non avverte il corpo
estraneo, perché esso non è estraneo. Gli scienziati
possono ben dimostrare che l'origine di una parola o di una tecnica
sia straniera, la comunità avvertirà quella parola
e quella tecnica come proprie. Cosa è successo? Un processo
di naturalizzazione che è ispirato dalla dialettica dell'avere.
Degli elementi stranieri sono diventati miei, sono passati nel
mio essere affinché io possa usarli, organizzarli nel mio
universo e disporne per i miei bisogni. Sono a mia disposizione,
non io alla loro. Proprio questa possibilità dialettica
è impedita, invece, al popolo colonizzato. Gli elementi
stranieri vengono depositati sul suo terreno, ma restano lì,
estranei: cose dei Bianchi, usi dei Bianchi. Cose che restano
nelle vicinanze del popolo indigeno ma sulle quali esso non ha
potere.
Si
dirà a questo punto: ma possiamo immaginare che il popolo
colonizzato possa ricostituire questa unità infranta, integrando
le nuove esperienze come nuove ricchezze in una nuova unità.
Unità che non sarà mai quella di una volta, ma che
sarà comunque un'unità.
Va bene. Ma diciamoci tutto con estrema chiarezza e fino in fondo:
questa unità nuova è impossibile sotto il regime
coloniale perché un tale mescolamento e rimescolamento
non lo si può pretendere da un popolo se non è libero
e padrone della propria iniziativa storica. E questa è
incompatibile con la condizione coloniale.
Riprendiamo quello che abbiamo detto prima sulla dialettica del
bisogno. Certo, il Giappone ha potuto salvare i suoi caratteri
culturali tradizionali e fonderli con i prestiti europei in una
nuova cultura che resta, però, cultura giapponese. Il Giappone,
infatti, è sempre rimasto libero e ha potuto seguire la
legge dei propri bisogni. Aggiungiamo pure che una operazione
simile postula una salute psicologica: audacia storica e fiducia
in se stessi. Esattamente ciò che il colonizzatore in mille
modi e fin dai primi giorni tenta di rubare ai colonizzati.
E' importante comprendere che il famoso complesso di inferiorità
che si assegna sempre alle culture colonizzate non è un
effetto casuale: è un risultato ricercato dal colonizzatore.
La colonizzazione è un fenomeno che, tra le altre conseguenze
disastrose dal punto di vista psicologico, comporta la distruzione
di quei punti di riferimento essenziali attraverso cui i colonizzati
stabilivano il loro rapporto con il mondo. Riprendiamo Nietzsche:
"Come i terremoti devastano le città tanto che con
angoscia gli esseri umani edificano sul suolo vulcanico le loro
dimore, così la vita stessa si sfalda, si accascia e perde
di coraggio quando il terremoto dei concetti priva l'uomo della
base di ogni sicurezza e serenità, della sua fede in tutto
ciò che è duraturo ed eterno."
Questo fenomeno, questa mancanza di coraggio di vivere, questo
vacillamento della voglia di vivere, è stato spesso segnalato
presso le popolazioni coloniali. Il caso più celebre è
quello dei Tahitiani, analizzato da Victor Segalen ne Les Immemoriaux.
Insomma, la situazione culturale nei paesi coloniali è
tragica. Ovunque faccia irruzione il colonialismo la cultura indigena
comincia a decadere. E tra le rovine nasce non una nuova cultura,
ma una specie di sub-cultura. Una sub-cultura condannata a restare
ai margini alla cultura europea e ad essere premio per un numero
ristretto di individui, <<l'élite>> locale
che resta in una condizione artificiale, privata del contatto
vivo con la cultura popolare e con le masse. Una cultura che non
ha alcuna possibilità di trasformarsi in una vera cultura.
Il risultato è la produzione di zone di vuoto culturale
o, il che è lo stesso, di perversione culturale o di cascami
di sub-cultura.
Questa è la situazione che noi uomini di cultura neri dobbiamo
avere il coraggio di guardare bene in faccia.
Di fronte a questa situazione che cosa dobbiamo, che cosa possiamo
fare? Gravi responsabilità pesano sulle nostre spalle.
Che fare? Si risponde spesso presentando la necessità di
una scelta. Quella tra la tradizione autoctona e la civiltà
europea. E quindi: o rifiutare la civiltà indigena come
puerile, inadeguata, superata dalla storia, oppure, per salvare
il patrimonio culturale indigeno, barricarsi contro la civiltà
europea e respingerla.
In altri termini: "scegliete
scegliete tra la fedeltà
e l'arretratezza e il progresso e la rottura".
Cosa rispondiamo? Che le cose non sono così semplici e
che non c'è propriamente una alternativa. Che la vita (sto
dicendo la vita e non il pensiero astratto) non conosce e non
accetta quell'alternativa. O piuttosto, che è la vita che
si incarica di trascenderla. Rispondiamo che un simile problema
non si presenta solo alle società nere; che in qualsiasi
società c'è sempre un equilibrio, sempre precario,
sempre da ristabilire, e sempre ristabilito nei fatti da ogni
generazione, tra l'antico e il nuovo. E che le nostre società
e le nostre civiltà, le nostre culture nere non potranno
sottrarsi a questa legge.
Crediamo che nella cultura africana o para-africana che nascerà
ci saranno molti elementi nuovi e moderni ed elementi presi in
prestito dall'Europa. Ma crediamo anche che sopravviveranno nelle
nostre culture molti caratteri tradizionali. Ci rifiutiamo di
cedere alla tentazione dell'idea della tabula rasa. Mi rifiuto
di pensare che la futura cultura africana possa opporre un diniego
totale e brutale all'antica cultura africana.
Per illustrare questi argomenti permettetemi di servirmi di una
parabola: gli antropologi hanno spesso descritto ciò che
uno di loro ha definito la stanchezza culturale. L'esempio che
essi citano ha ormai assunto un valore emblematico. Ecco la storia:
il luogo sono le isole Hawai. Qualche anno dopo della scoperta
dell'arcipelago da parte di Cook, il re morì e gli succedette
il giovane principe Kamehamela II. Affascinato dalla cultura europea
egli decise di abolire la religione ancestrale e si accordò
con il gran sacerdote per organizzare una grande festa nel corso
della quale sarebbe stato rotto solennemente il tabù e
annullati gli Dei ancestrali. Nel giorno stabilito, ad un segno
del nuovo re il gran sacerdote si scagliò sulle immagini
degli Dei, le calpestò e infranse mentre si levava un grido
generale: "il Tabù è infranto". Inevitabilmente
pochi anni dopo gli hawaiani accolsero a braccia aperte i missionari
cristiani
Il seguito è il solito. Appartiene alla
storia. Si tratta dell'esempio più chiaro che si conosca
della sovversione culturale che prepara l'asservimento. E allora
chiedo: è questa rinuncia di un popolo intero al proprio
passato e alla propria cultura, è questo che ci aspetta?
Lo dico con estrema chiarezza: non ci sarà per noi un Kamehamela
II!
Credo
che la civiltà che ha dato al mondo dell'arte la scultura
negra, la civiltà che ha dato al mondo politico e sociale
degli esempi originali di istituzioni comunitarie, come la democrazia
di villaggio o la fraternità di età o la proprietà
su base famigliare, vera negazione del capitalismo, e tante altre
forme sociali ispirate dalla solidarietà, che questa civiltà,
la stessa che ha dato al mondo morale una filosofia originale
fondata sul rispetto della vita e sull'integrazione cosmica, questa
civiltà, per insufficiente che sia rispetto al mondo moderno,
non può essere annullata e rinnegata perché possa
nascere una nuova cultura dei popoli neri.
Credo che le nostre culture particolari celino in sé abbastanza
forza vitale e capacità di rigenerazione per potersi adattare
al mondo moderno, quando saranno rimosse le condizioni attuali
e potranno offrire a tutti i problemi, politici, economici, sociali
o culturali che siano, delle soluzioni importanti e originali,
importanti proprio perché originali.
Nella nostra cultura futura ci saranno insieme antico e nuovo.
Quali elementi nuovi e quali antichi? A questo punto comincia
la nostra ignoranza. E, in verità, non è all'individuo
che tocca dare una risposta. Essa può essere data solo
dalla comunità. E comunque noi possiamo affermare da ora
che essa sarà data e non verbalmente, ma nei fatti e attraverso
l'azione.
Proprio questo, in definitiva, permette a noi altri uomini di
cultura neri di poter definire il nostro ruolo. Il nostro ruolo
non è quello di stendere a priori il programma della futura
cultura nera o di predire quali saranno gli elementi che saranno
integrati e quali quelli scartati. Il nostro ruolo, infinitamente
più umile, è quello di annunciare l'avvento e di
preparare la venuta di chi possiede il potere di rispondere: il
popolo, i nostri popoli, liberati dalle pastoie, i nostri popoli
e il loro genio creatore finalmente resi liberi da ciò
che li ha ostacolati e insteriliti.
Oggi siamo nel caos culturale. Il nostro ruolo è di proclamare:
liberate il demiurgo che può organizzare questo caos e
trasformarlo in una nuova sintesi, una sintesi che meriterà
il nome di cultura, una sintesi che sarà riconciliazione
e superamento dell'antico e del nuovo. A noi uomini di cultura
tocca reclamare: date la parola ai popoli. Lasciate che i popoli
neri entrino sulla grande scena della storia.
* Discorso pronunciato al primo Congresso degli Scrittori Africani,
a Parigi nel 1956. Traduzione di Armando Gnisci
L'autore, Aimé Césaire
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