LO SPUTO NELLA MINESTRA

Fiammetta Palpati


LO SPUTO NELLA MINESTRA
Apologia di un Terapeuta

Ovvero dell’inutilità della psicoterapia
e dell’utilità degli psicoterapeuti

Avventura è andare incontro - a - verso l’altro:
l’avvenire delle possibilità degli eventi (ventura come caso)
e l’avvenire del futuro degli eventi (ventura come tempo a venire).

Armando Gnisci


I
Fondamentalmente la terapia di M. consistette nello sputarmi nella minestra.

II
Degli psicoanalisti nutriva un’ottima considerazione: pensava che avessero trovato un efficace sistema per essere pagati mentre riposavano. Evidentemente di se stesso non aveva la medesima considerazione, anche se cercava di perfezionarsi.
Dopo essermi proposta come la futura biografa, mi fu chiaro che per lungo tempo mi sarei sentita una specie di dott. Watson alle prese con Holmes; e questa, per una narcisista egocentrica quale sono, non è la più auspicabile delle condizioni in cui trovarsi. D’altro canto M. condivideva con Holmes alcuni lati del carattere e, a onor del vero, non sempre i migliori. Altre caratteristiche erano invece di sua esclusiva pertinenza e accettando la terapia non si poteva fare a meno di accettare anche queste. Una di esse era la sua capacità di ridere con metà della faccia. Ora, l’abilità di questa mezza risata aveva poco a che fare con un virtuosismo micromuscolare - sul genere di muovere in avanti e indietro i padiglioni auricolari o alzare a ritmo alternato le arcate sopraccigliari. Piuttosto quella metà faccia con gli angoli della bocca, la mandibola, la guancia e l’occhio piegati all’insù - preferibilmente la metà destra - rappresentava bene lo stato di frequente inquietudine in cui usava mostrarsi ai suoi pazienti. Il dubbio, la relativizzazione spinta al parossismo, lo spirito critico e spesso polemico, costituivano dei validi surrogati dell’oppio, e più a buon mercato. Sapendo che nessuna idea, sentimento, stato d’animo potevano essere sostenuti a lungo in termini assoluti la sua faccia esprimeva, come Giano bifronte, l’altra possibilità, quella di non ridere o semplicemente, e qui mi servo d’una espressione tipica di M., quella di non.
Del suo odore non potrei dire né che era buono né che non lo fosse, semplicemente non lo avevo mai sentito. Quello che invece non si poteva fare a meno di sentire quando si aveva a che fare con M., era la puzza del fumo.
Avrei preferito dirvi che interrompeva la terapia per accendere una bella pipa, magari in radica, magari sfilata con noncuranza dalla tasca del suo cardigan (questi tratti pittoreschi avrebbero costituito un’attenuante al vizio), invece M. fumava delle banalissime sigarette commerciali. Le sigarette, a voler essere gentili, maleodorano - questo aspetto non viene negato persino dai fumatori più incalliti - e lui ne fumava molte e quando si entrava nel suo studio si poteva star certi che anche gli abiti se ne sarebbero ricordati a lungo. C’è da precisare che io con le sigarette, il fumo e simili ho un problema personale, ed aggiungerei che sin dal principio M. mi chiarì che per la mia idiosincrasia nei confronti del fumo lui non era disposto a modificare la sua abitudine.
Insieme alla parcella avrei dunque pagato l’indiscreta presenza del fumo di sigaretta. Tuttavia, da persona educata e rispettosa quale è, il dottor M. è sempre stato molto accorto all’aerazione della stanza, aprendo e chiudendo finestre frequentemente; la qual cosa, insieme alla nebbia che respiravamo, contribuì alle frequenti faringiti che mi afflissero durante la terapia. Questo fu uno dei motivi per cui mi feci un punto d’onore fare in modo che il lavoro con me non fosse esattamente una discesa ed M. si guadagnasse l’onorario fino all’ultima lira.
Mi accorgo che dalle mie parole traspare una certa animosità. Ammetto quindi, non senza riluttanza, che con l’andar del tempo a quella puzza di fumo mi sono abituata; non sono mai arrivata a gradirla, ma sentendola mi sentivo subito a casa e a mio agio; M. a dispetto di tutto creava un’atmosfera in cui qualsiasi cosa facessi o dicessi, indipendentemente dal fatto che lui la potesse condividere, disprezzare o trovare semplicemente ridicola, mi sentivo comunque accolta. Questa è una bella sensazione e mi sembra impossibile che la puzza del fumo, al pari di una madelaine proustiana, me la faccia ricordare e rimpiangere.

III
Della sua persona fisica, oltre al fatto che portava lenti da vista dietro vispi occhi chiari, capelli corti, castani, senza un taglio particolare, che era di altezza e di corporatura regolari e che vestiva con ostentata semplicità, c’è da dire ancora che assumeva pose plastiche. Questa era l’unica concessione che faceva al suo narcisismo. Sono inoltre convinta dell’elasticità delle sue giunture; questo spiegherebbe come non è arrivato a slogarsi la mandibola durante i suoi indiscreti sbadigli.
Credo che fosse un conservatore. Tuttavia, come sostenne Borges, in un’epoca di fanatismi come la nostra, l’essere conservatori è l’unica possibilità di continuare ad essere rivoluzionari.
Quasi mai usava un linguaggio specifico - lo psicologese per intenderci; affermava di conoscerlo poco e lo stesso diceva a proposito delle diagnosi. Inizialmente attribuii tale risposta ad una malcelata modestia ma ora che, a ragion veduta, lo stimo di più, so che era assolutamente sincero.
Come che fosse anch’io non potei imparare che pochi termini e più dai libri che da M. stesso. Dapprincipio questo aspetto mi crucciò: un paziente in terapia si riconosce, prima ancora che dai cambiamenti apportati a se stesso, dalla disinvoltura con cui applica a chiunque gli capiti a tiro epiteti e diagnosi da poco appresi. Questo provoca un effetto terapeutico incalcolato. Dal momento che un atteggiamento così tracotante non può che suscitare un salutare allontanamento dei malcapitati di fronte all’apprendista psicologo, al paziente non si offrono che due alternative: un effettivo ripensamento di se stesso e del proprio modo di fare o la costituzione di un piccolo gruppo di eletti, ansiosi di offrire il proprio sapere a chiunque non ne faccia richiesta. Personalmente non ho ancora preso una posizione definitiva.
Da M. ho pure appreso la disciplina del dialogo che è anche disciplina dell’ascolto; non solo ascolto dell’altro, ma anche ascolto di noi altri, stessi ed altri allo stesso tempo.

IV
M. era un virtuoso della sorpresa, un Bastian Contrario della terapia: esaltava le inezie e minimizzava i grandi eventi, era capace di parlare per decine di minuti su quisquilie e di liquidare in quattro e quattrotto i drammi personali, tanto che alla fine della seduta duravo fatica a ricordare quale era il dramma personale che mi affliggeva, mentre mi tornavano insistentemente alla memoria particolari insignificanti. Insomma sembrava farlo apposta a gettarmi in uno stato confusionale. Ho chiamato questa peculiarità l’arte di Caputo.
Il signor Caputo è un tranquillo ed onesto cittadino (almeno così voglio credere), che non sarebbe mai assurto alla gloria se non avesse avuto la fortuna di abitare al piano sottostante lo studio di M., sito al n° * di via T* in Roma. L’episodio in questione si è verificato allorquando la sottoscritta, sentendo giunto il momento di affrontare l’affaire tranfert (questione che i più conoscono come assai spinosa ma fondamentale in qualsiasi psicoterapia), ha voluto interpretare sino in fondo il ruolo di brava paziente introducendo, per così dire, l’argomento.
Come sempre facevo - le abitudini, soprattutto quelle cretine, sono dure a morire - quel giorno salii a piedi le scale che mi portavano allo studio del dottor M. Mentre salivo ripassavo a mente quello che avrei portato in terapia: frasi ad effetto, posizioni seducenti, inflessioni inusitate e, come sempre, poco prima di arrivare al cospetto del mio Terapeuta, cioè in coincidenza della porta dell’abitazione del signor Caputo, mi resi conto (complici l’abbondante sudorazione delle estremità e l’accelerazione del battito cardiaco non completamente giustificati dallo sforzo di salire le scale) che ero incontrovertibilmente emozionata. Decisi di farne il mio cavallo di battaglia. Giunta davanti ad un M. più che mai fumoso, snocciolai con tutti i sentimenti la storiella preparata tanto bene. Non tralasciai di menzionare - ed ebbi a pentirmene - l’episodio delle mani sudate e del cuore che mi batteva all’impazzata davanti alla porta del signor Caputo. Non ci fu nemmeno bisogno di simulare emozione, imbarazzo e vergogna dal momento che ero veramente emozionata ed imbarazzata, anche se pregustavo quello che immaginavo sarebbe stato il sorrisetto di soddisfazione di M. alla fine della mia sofferta ammissione. Potete sforzarvi di immaginare la mia delusione quando alzai lo sguardo e vidi la sua faccia tra il contrito e il preoccupato? Disse solo questo: «sarà colpa di Caputo?». La questione finì lì, né io ebbi mai il coraggio di riprenderla.

V
Dopo alcuni vani tentativi di cercare un senso, una regolarità a quello che faceva e diceva mi abbandonai all’evidenza dei fatti: dietro le azioni di M., le sue parole, i suoi aneddoti, addirittura nei libri che ogni tanto mi consigliava di leggere non esisteva, ahimè, alcun progetto, alcun disegno. Quando era arrabbiato non faceva molto per dissimularlo, così come quando qualcuno lo rendeva felice o triste o sorpreso. Se diceva di non sapere qualcosa era perché la ignorava effettivamente o, al più perché non aveva voglia di parlarne. Come quando, in uno dei miei afflati misticheggianti, gli chiesi che differenza riteneva esserci tra spirito e anima. Rispose semplicemente: «perché, ce n’è una?».
Mi occorse tempo per perdonargli questa leggerezza, dovuta perlopiù al tedio di una seduta lunga e noiosa. Per un paziente non è facile concepire che il proprio terapeuta agisca dietro impulsi ed emozioni. Egli immagina che il proprio percorso sia un processo di cui il magister conosce il principio, il termine, i modi del come e del quando; che egli tenga ogni cosa sia sotto controllo e che il fine della terapia sia che il paziente erediti questo controllo. M. non faceva molto per alimentare questo mito; è stato piuttosto mostrando il suo smarrimento che mi suggeriva il mio. Chi è irretito dall’immagine classica del Maestro, della Guida, faticherà a pagare in moneta sonante qualcuno che non sembra essere molto lontano da lui e nemmeno si sforza di esserlo. Anch’io sono appartenuta a quella schiera; poi ho capito che M. praticava un’arte insolita, quella di essere sempre e soltanto se stesso; di quest’arte semplice, raffinata e difficilissima da praticare aveva fatto la sua terapia e meritava il danaro che chiedeva. Sono sempre le cose più semplici quelle che costano di più, perché nessuno è disposto a vederle.

VI
La terapia con M. fu fatta, oltre che di questi aneddoti, di sedie, di sogni, di lacrime, di soldi, lettere e letteratura. Insomma delle solite poche cose banali di cui è fatta la vita di qualsiasi essere umano. La mia, di vita intendo, continuò, nelle linee essenziali, ad essere quella che era stata. Non cambiai nemmeno il colore dei capelli. Eppure avevo la sensazione di essere molto diversa da quella Arianna che, con le lacrime agli occhi e il groppo alla gola, era entrata per la prima volta nello studio del dottor M..
Così, nel tempo, ho immaginato la psicoterapia in questo modo: il paziente è come un affamato; un piatto di minestra è pronto a soddisfare la sua fame. Prima che egli abbia portato alla bocca il primo cucchiaio il terapeuta guarda nel piatto e poi, con noncuranza, ci sputa dentro. (Nella versione più articolata il terapeuta pronuncia anche la frase: «ed ora vediamo se sei capace di mangiartela ancora», si tratta comunque di un’aggiunta non essenziale). Il paziente è sconcertato ma «più dell’onor poté ‘l digiuno» e continua a mangiare. Tuttavia, appena può, si mette in cerca di un nuovo piatto di minestra (o chissà, magari anche di una coscia di pollo).
La scommessa del terapeuta consiste nel non conoscere la nuova pietanza, nell’ignorare quando e se accadrà quell’appena può, nel non poter evitare che il paziente, nel caso così abbia deciso, gli tiri il piatto di minestra in faccia. Ma, soprattutto, nell’infischiarsene di tutto ciò.



Fiammetta Palpati vive e lavora a Roma. Da oltre 10 anni si occupa, teoricamente e praticamente, dell’educazione e della riabilitazione dei minorati della vista, conseguendo due titoli di specializzazione. Contemporaneamente ha coltivato la passione per la letteratura. Dall’incontro di questi due amori è nato il progetto della sua tesi di laurea in “Letterature comparate” dal titolo Il tema della cecità e l’immagine del cieco nella letteratura occidentale del XX secolo, di prossima discussione. Ha scritto saggi sul rapporto tra la cecità e l’arte, fiabe e racconti.



         
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