MIGRAZIONI
Maurice Aymard
Il Mediterraneo ha assunto per noi l'aspetto del sole e del "dolce
far niente".
Il sole: folle di nordici che, invadendo charters e autostrade,
si precipitano con i primi tepori dell'estate verso le rive del
mare. Qui rimarranno, inchiodati sulle spiagge o nei caffè
all'aperto, per qualche settimana, affascinati o affaticati da
un diverso ritmo di vita. Oppure vagheranno, nomadi lenti o frettolosi,
da un'isola all'altra, da un tempio greco a una città medievale,
dal Partenone a Rodi, da Pompei ad Amalfi, da Palermo a Segesta
e a Selinunte. Da un secolo il numero di questi invasori temporanei
è prodigiosamente aumentato. Ieri erano un ristretto gruppo
di ricchi privilegiati, oggi si aggirano intorno ai sessanta milioni:
l'equivalente dell'intera popolazione del bacino mediterraneo
verso il 1600. Domani dovrebbero essere, secondo i calcoli degli
esperti, più di cento milioni. Oltre al numero, il turismo
ha mutato anche il periodo. Ancora verso il 1900 era la dolcezza
degli inverni a richiamare élites oziose e fortunate in
luoghi privilegiati, da Nizza a Taormina. La vittoria dell'estate
è stata quella della massa. Dopo le riviere francese e
italiana il flusso ha sommerso la Spagna e il Mezzogiorno d'Italia,
la Grecia e l'Anatolia, le isole del Tirreno, dell'Adriatico e
dell'Egeo, per poi debordare nel Maghreb, sulle sponde meridionali
del mare Interno. Ma ormai non basta più: dalle Canarie
alle Maldive alle isole del Pacifico, i mercanti di sole inventano
incessantemente altri Mediterranei.
È un'invasione pacifica, dunque, quella cui dà vita
questo turismo spesso irreggimentato, pronto a pagare, e a caro
prezzo, il diritto di dormire, di consumare e anche di guardare.
Non procura forse un'occupazione a gente senza lavoro, e buona
valuta per pareggiare la bilancia dei pagamenti di paesi poco
industrializzati? Nessuno si stabilisce o progetta di stabilirsi
in modo permanente. Quando riprende il lavoro negli uffici e nelle
fabbriche del Nord, le stesse folle riguadagnano in buon ordine
i paesi d'origine. È davvero un'invasione pacifica, dunque,
ma non innocente. Distrugge infatti siti e paesaggi, sfigurati
dal lusso un po' falso degli alberghi, degli immobili "fronte
mare" e delle seconde case: per l'archeologo di domani, la
sua traccia avrà tutte le caratteristiche di una conquista.
E distrugge anche gli equilibri antichi e fragili delle società
che la accolgono, in genere impreparate a subire lo shock dell'economia
monetaria e spinte a sacrificare il futuro per il presente. Consuma
infine esotismo e folclore, prestandosi al genere di vita mediterraneo
come a un gioco, non come a una realtà: per la prima volta
nella sua storia il Mediterraneo seduce gli invasori senza assimilarli
se non superficialmente, e anzi si ritrova a sua volta minacciato
di esserne assorbito e ridotto allo stato di oggetto: un luogo
di spettacolo popolato di attori sempre più amareggiati,
condannati a una vita di emarginati, frutto velenoso della dicotomia
tra l'esistenza nativa, ormai fossilizzata, dei mesi invernali,
e la falsa e venale vitalità della stagione estiva.
Per la prima volta, infatti, il Mediterraneo è in posizione
di debolezza. Il piacere, tanto caro alle nostre vacanze, dell'ozio,
del tempo libero e di un ritmo di vita più dolce si rivela
come il rovescio di una realtà molto più crudele,
propria delle nostre economie contemporanee: la disoccupazione,
intesa non tanto come il venire a mancare del lavoro dopo un periodo
di pieno impiego, quanto come l'assenza permanente di un'occupazione
regolare: i cinquanta o cento giorni di lavoro all'anno delle
antiche società rurali, in luogo dei duecento delle nostre
società industriali, non consentono più di mantenere
una popolazione divenuta troppo densa su una terra troppo povera.
Fatta eccezione per la Francia precocemente malthusiana della
Terza Repubblica, l'Europa non era in grado di offrire granché
ai suoi abitanti in soprannumero. Condannati a espatriare, essi
cominciarono con il raggiungere a milioni, a partire dal 1880,
i nuovi territori di insediamento bianco: gli Stati Uniti e il
Canada, l'America latina, l'Australia. L'ondata raggiunse tali
proporzioni che quei paesi chiusero le porte, o le lasciarono
aperte soltanto a metà. Quando nel 1964, gli Stati Uniti
decisero di trasferire ai "paesi poveri" (quelli mediterranei)
le quote di immigrazione (2 per cento degli effettivi insediati
in America nel 1890) inutilizzate dai "paesi ricchi"
(anglosassone, tedeschi o scandinavi), si era già verificato
il subentro dell'Europa industrializzata. A turno, italiani e
nordafricani, spagnoli e portoghesi, iugoslavi, greci e turchi
presero la via della Germania e della Svizzera, della Francia
e dei paesi del Benelux, diventando le "braccia" della
crescita degli anni 1955-75. Si ripeteva, a cinquant'anni di distanza,
la storia delle grandi trasmigrazioni transoceaniche: la partenza
in massa dei giovani in età da lavoro dalle regioni rurali
più sovrappopolate, il loro raggruppamento in comunità
di origini in grado di assicurare l'accoglienza, il primo impiego
e quel minimo di calore umano indispensabile all'integrazione;
la loro utilizzazione per i compiti più duri, meno qualificati
e meno remunerativi; la loro facile espulsione in caso di crisi;
i conflitti tra minoranze e autoctoni, spia delle difficoltà
di assimilazione.
L'Italia è con ogni probabilità il paese che più
è stato modificato da tale mobilità. In poco più
di un secolo (1860-1970), ha registrato 25 milioni di partenze
- per la verità non tutte definitive -, pari alla metà
della sua popolazione nel 1960. Si tratta di un caso per molti
versi esemplare. La prima emigrazione, a partire dagli inizi del
XIX secolo, aveva avuto come meta soprattutto il bacino mediterraneo,
l'Egitto, la Tunisia e in particolare l'Impero ottomano, dove
gli italiani, eredi dei genovesi e dei veneziani di Pera-Galata
- il quartiere "franco", ossia europeo, di Istanbul
-, si impongono come commercianti e negozianti, architetti e medici,
ingegneri e operai delle ferrovie: una emigrazione di "tecnici".
La realizzazione dell'unità, però, sconvolge l'economia
e la società della penisola. A voler partire saranno ormai
in maggioranza rurali, contadini senza terra, a malapena in grado
di pagarsi il viaggio: li ritroveremo come operai - spesso malvisti
in quanto "crumiri" - nell'agricoltura, nell'edilizia,
nelle miniere. È un'emigrazione della miseria e delle illusioni
perdute.
Verso il 1860-80 emigranti provenienti del Piemonte, dalla Toscana
o dall'Emilia si spargono per l'Europa, e soprattutto in Francia:
a partire, però, sono per il momento soltanto in 100.000
circa all'anno. Dopo il 1880 tale numero raddoppia, triplica,
supera i 600.000 nel decennio 1901-10, e raggiunge la cifra record
di 872.598 nel 1913. Provengono dalle zone rurali più povere,
dal Veneto e soprattutto dal Sud, dalla Sicilia e dalla Calabria,
dalle Puglie e dagli Abruzzi. Attraversano l'Atlantico, raggiungono
l'Argentina, il Brasile meridionale - dove fondano città
dai nomi evocativi, quali Nova Venetia, Nova Trento, Nova Vicenza,
Nova Milano - e soprattutto gli Stati Uniti. Poverissimi, si stabiliscono
nelle città e qui ricostituiscono quartieri e reti di rapporti
interpersonali: Little Italy, Brooklyn, una cultura comune fatta,
come scrive S. Romano, "un po' di religione, un po' di superstizione,
un po' di patriottismo e un po' di gastronomia". E anche,
mito o realtà, la mafia. Finisce così per prevalere
un po' dappertutto l'immagine di un italiano resistente all'assimilazione,
attaccato alla sua lingua, ai suoi costumi e al suo stile di vita,
di volta in volta "crumiro" e "sovversivo".
Dal pogrom di New Orleans nell'ottobre del 1890 all'esecuzione
di Sacco e Vanzetti nel 1927, nonché al complesso della
letteratura di ieri e di oggi sul sindacato del crimine, tutta
la comunità italoamericano ne ha pagato il prezzo, e un
prezzo pesante. In Francia, peraltro, è stato bandito dai
manuali di storia, per carità di patria, il ricordo degli
incidenti di Aigues-Mortes, nell'agosto del 1893 (una cinquantina
di morti) e di Lione, nel giugno del 1894, dopo l'assassinio di
Sadi Carnot per mano di Sante Caserio. Chi legge, oggi, il romanzo
di L. Bertrand L'invasion, che nel 1907 denunciava il "pericolo
italiano"?
Con le limitazioni imposte sia dagli Stati Uniti sia dal fascismo,
e in seguito alla crisi degli anni '30, il movimento rallentò
fin quasi a interrompersi. Dopo la guerra però eccolo riprendere
vigore, diretto questa volta più verso la Svizzera e la
Germania che non verso il Canada e gli Stati Uniti: intorno al
1960 l'Italia è ancora il paese che fornisce i più
grossi contingenti di manodopera all'Europa industrializzata.
Con il "miracolo economico", però, tale emigrazione
pressoché tradizionale è aggravata ed entra in competizione
con un'altra, questa volta interna, che ha per meta l'Italia del
Nord, le città e le fabbriche della Lombardia e del Piemonte,
e anche le campagne, dove i meridionali sostituiscono, sui terreni
meno produttivi, i contadini che già li hanno abbandonati.
Dei quattro milioni di uomini e donne che in vent'anni (1951-71)
hanno lasciato il Sud, solo un milione si è recato all'estero.
Durante l'autunno caldo del 1969, anche Torino e Milano scoprono
i sordidi "ghetti", popolati di calabresi e siciliani,
che hanno invaso le loro periferie, e insieme il volto sempiterno
del razzismo: sono sempre i meridionali, esclusi senza complimenti
dai quartieri borghesi, a occupare nei giornali le pagine di cronaca
nera, colpevoli, manco a dirlo, di tutti i delitti. Ma neppure
le dinamiche industrie del Nord bastano ad assorbire l'enorme
massa degli emigranti: molti sono ancora ammucchiati, prima tappa
o sosta provvisoria, nelle borgate e nelle bidonvilles delle periferie
di Napoli o di Roma, in attesa di un ipotetico impiego in qualche
ufficio o ministero promesso da un lontano cugino o da un grande
elettore dei partiti al potere... Intanto, nelle campagne siciliane
disertate dalla loro popolazione, bisogna fare appello ai tunisini
per le vendemmie nella zona di Marsala: e ancora una volta, ecco
affacciarsi il razzismo.
Nello spazio di un secolo l'Italia percorre così tutto
il grande ciclo delle migrazioni moderne, che svuotano a uno a
uno tutti i paesi mediterranei- e all'interno di ciascuno le regioni
più diseredate - delle popolazioni di campagna, mobilitandole
a svolgere i compiti più bassi presso le economie industriali.
Alle spalle di ogni emigrazione, però, va vista la violenza
culturale operata ai danni dei partenti, e di conseguenza la necessità
di quei poveri mezzi che consentono a questi ultimi di resistere:
le solidarietà familiari e religiose, la sposa fino a non
molto tempo fa scelta al paese dalla mezzana, le lettere e i regali
a parenti e amici, il denaro inviato alla madre o alla famiglia,
l'ostentazione dei simboli del successo materiale - le Cadillac
immatricolate in Venezuela posteggiate all'ombra in una viuzza
di un villaggio siciliano, i dollari offerti alla statua di Santa
Rosalia sul Monte Pellegrino, a Palermo -, il ritorno a casa,
occupando interi treni, in occasione delle elezioni, delle vacanze
e delle crisi di disoccupazione. La brutalità dello shock
subito, la distanza che separa e isola, traspaiono da queste lettere
inviate al "mago" del villaggio da alcuni migranti calabresi,
e pubblicate da L. Lombardi Satriani:
"Professore Illustrissimo,
Vi mando, come mi avete chiesto, qualche capello e la fotografia.
E poi vi mando anche un vaglia di 10.000 lire come modesta offerta
per il vostro prezioso lavoro..." (Novara, 3 marzo 1973.)
"Ho ricevuto la vostra risposta in cui mi dite di non potermi
dire il nome della persona che mi ha gettato il malocchio; ma
almeno ditemi se è una persona della casa o di fuori...
se il malocchio mi è stato gettato da lontano o da vicino,
se mi è stato dato in qualche bevanda o altrove..."
(Singen, 3 novembre 1970.)
"Rispondo alla tua lettera sulla polvere che avete mandato.
Tu spiegavi che noi dovevamo mettere dei capelli miei e di mia
moglie e noi li abbiamo messi... ma poi dici che dobbiamo trovare
tre chiodi di bara, mentre qui in Canada i morti non li sotterrano,
non è come in Italia..." (Toronto, 12 dicembre 1970).
Dappertutto, nelle campagne dell'interno, non solo in Sicilia
o in Calabria, ma anche nella Murcia o nel Peloponneso, la situazione,
negli ultimi venti o trent'anni, è precipitata. Certi villaggi
isolati, popolati di vecchi e di bambini - quando non sono già
abbandonati del tutto -, segnano l'ineluttabile punto di arrivo.
È come se i vari paesi del Mediterraneo si trovassero a
fasi diverse di uno stesso processo. All'inizio gli uomini partono
da soli, mandano denaro al paese per comprare un campo o un esercizio
commerciale, preparano o sognano il ritorno. Viene poi, dissolta
ogni speranza, la volta delle donne: con la loro partenza, la
rottura diventa definitiva. Per un certo periodo, attraverso l'invio
di denaro da parte dei suoi figli, il villaggio vive, o sopravvive,
grazie all'emigrazione; alla fine, muore.
Tutte le partenze di cui si è detto disegnano il volto
di un Mediterraneo che ha perduto il controllo economico del mondo
e ha affrontato l'era industriale con ritardo, e dunque in una
situazione rischiosa, di dipendenza, in Italia dopo l'unità,
nell'Africa del Nord nel periodo coloniale, nella Spagna e nel
Portogallo degli anni Cinquanta, nella Iugoslavia o nella Turchia
degli anni Sessanta o Settanta, si ripete la stessa storia: l'apertura
verso l'esterno di tali paesi ancora fragili e la volontà
dei loro dirigenti di integrarli nell'economia sviluppata comportano
la crisi delle società rurali tradizionali. La conseguenza
è rappresentata dalle partenze in massa verso l'estero
o verso le città, dove si può o si spera di poter
trovare lavoro. Il villaggio non è più che un ricordo
destinato a sparire o a essere reinventato dai turisti venuti
dal Nord. Il Mediterraneo paga il ritardo che ha accumulato e
la propria disperata volontà di colmarlo con il sole e
con il lavoro: due aspetti di una stessa dipendenza.
Per tre o quattro millenni le migrazioni avevano fatto storia
e l'unità del Mediterraneo: oggi minacciano di disfarla.
Contro tale minaccia va attualmente montando un po' dappertutto
lo stesso spirito di rivolta, la stessa ricerca appassionata di
un'identità che rischia di essere distrutta dal livellamento
linguistico, politico ed economico. Non sorprende vedere la protesta
svilupparsi in tutta la sua ampiezza nella Francia giacobina e
centralizzatrice. Al "Volem vivre al paîs" degli
occitani risponde il "Fora i Francesi" dei corsi. Sono
due slogan complementari, che tradiscono la stessa angoscia, lo
stesso rifiuto di un'integrazione che non lascia altra possibilità
che la partenza.
In tutti i paesi dell'Europa mediterranea, in Spagna come nell'Italia
meridionale, le regioni rialzano la testa e rivendicano quell'autonomia
che il consolidarsi di uno stato centralizzatore ha loro negato:
altrove, come nella Iugoslavia del dopoguerra, lo stato ha dovuto
fin dall'origine cercare un accomodamento, inserendo nella propria
costituzione - e facendo poi vivere giorno dopo giorno - il pluralismo
politico, linguistico, razziale, religioso e culturale che caratterizza
il paesaggio umano del Mediterraneo. Anche se l'indipendenza riconquistata
del XIX secolo dai cristiani dei Balcani, e nei XX dai territori
islamici dei suoi confini meridionali, lo imposero dovunque come
garanzia necessaria della sua ritrovata dignità, il modello
dello stato nazionale non è nato sulle rive del Mediterraneo.
È giunto dall'esterno, come prezzo di una riconquista.
E sopravvive a fatica. Quanti mediterranei potrebbero far propria,
ciascuno al proprio paese, la rivendicazione dei catalani di oggi:
"Spagnoli forse, castigliani mai"? Un po' dappertutto,
il concetto di nazione è ancora da inventare, o meglio,
da far vivere nel cuore degli uomini.
Non parliamo troppo presto di isolamento, di particolarismo, di
orizzonti limitati, consueti a tutte le civiltà antiche
e ulteriormente accentuati dal frazionamento provocato dai rilievi,
da quell'alleanza tra montagna e mare che fa delle isole mediterranee
prodigiosi bacini di conservazione, affascinanti per l'osservatore
curioso, cineasta o antropologo che sia. La crisi attuale è
qualcosa di più della terra che muore. Essa designa il
livello privilegiato in cui sino a oggi si esercitavano le solidarietà
essenziali, e che per secoli non era mai stato seriamente intaccato.
Non vi è nulla, tuttavia, che sia più mobile di
una storia posta sotto il segno dell'invasione e della conquista.
Per tre millenni il Mediterraneo non ha mai cessato di attrarre
popoli venuti da fuori, dalla foresta, dalla steppa o dal deserto.
E ciascuno di tali popoli, subito dopo essersi ritagliato uno
spazio sulle sue sponde, ha tentato - greci, "barbari",
arabi o turchi che fossero - di impadronirsene e di dominarlo
nella sua totalità. Da Roma agli ottomani, però,
gli imperi più prestigiosi si sono mostrati meno esigenti
del più deboli tra gli stati moderni: una sottomissione
passiva, l'omaggio politico e religioso, a un sovrano lontano,
il pagamento regolare dell'imposta, più raramente l'invio
di uomini per la guerra... poca cosa. Ogni volta essi si trovarono
di fronte alla necessità di venire a patti con un passato
tenace, di rispettare, se necessario in cambio di denaro, usi
e credenze, di assimilare in seguito le élites locali.
Ogni invasore, ogni dominazione ha potuto così lasciare
la propria traccia, ancora oggi leggibile, senza però fare
tabula rasa né unificare in profondità. Per conseguire
tale fine, in effetti, non vi è altro mezzo che un'estirpazione
brutale e assurda. Così, ad esempio, i Giovani Turchi hanno
voluto eliminare, con un atroce genocidio, il fastidioso problema
armeno. Per due volte, con gli ebrei alla fine del Quattrocento
e poi, cento anni più tardi, con i moriscos, la Spagna
castigliana ha ripetuto l'esperienza di un'espulsione totale,
senza che per questo ne fossero alleviati i dubbi circa la propria
"limpieza de sangre". Una purezza di sangue, peraltro,
oltremodo illusoria: nella penisola iberica, così come
in tutto il Mediterraneo, la regola non è forse costituita
dallo stretto intrecciarsi delle comunità etniche e religiose,
a volte giustapposte e a volte sovrapposte a seconda dei flussi
e riflussi del popolamento e del potere, e quindi della loro coesistenza?
È proprio tale coesistenza difficile, perennemente costellata
di scontri e conflitti, che l'affermarsi degli stati nazionali
rende oggi impossibile. Dappertutto si inaspriscono e si approfondiscono
conflitti e odi, e si sviluppano fenomeni di rigetto.
La Francia ha di recente vissuto, dopo l'Italia, il fallimento
della sua esperienza coloniale nei paesi del Maghreb, senza altra
scelta che il ritorno alla madrepatria di più di un milione
di connazionali. Oggi scopre con sorpresa la rivolta della Corsica
contro tale afflusso di nuovi venuti, portatori di mezzi tecnici,
di capitali e di uno stile di vita in contraddizione con quello
tradizionale dell'isola, che li vede arrivare come dei coloni.
A Cipro la rimessa in discussione del fragile equilibrio tra greci
e turchi - nel cui ambito questi ultimi sono stranamente i più
poveri, pur discendendo dai conquistatori ottomani del 1570-71
- provoca una divisione di fatto che tutto fa ritenere duratura.
In questa regione, per la verità, Cipro rappresenta un'eccezione.
Altrove, in tutto il territorio dei Balcani e dell'Egeo, la distruzione
dell'Impero ottomano ha provocato, a partire dal 1918, i primi
grandi spostamenti di popolazione dell'età contemporanea:
deportazioni in massa, espulsione dei turchi dalla Iugoslavia
e dalla Grecia, e simmetricamente sradicamento pressoché
totale di quell'insediamento greco sul litorale dell'Asia Minore
che pure aveva resistito, a partire dai persiani, a tutte le dominazioni
straniere, e che, tradizionalmente legato al mare, fu sostituito
da una popolazione turca che con il mare non vuole aver niente
a che spartire.
L'esempio più significativo che abbiamo sotto gli occhi
di tali lacerazioni contemporanee, e anche quello che ci tocca
di più, è però senza dubbio costituito da
Israele. La trasformazione in stato, nel 1948, dell'antica culla
della nazione ebraica segna la conclusione di una diaspora durata
duemila anni e insieme, per il popolo eletto, l'atteso compimento
della sua storia, l'adempimento di una promessa del suo Dio. L'esistenza
di tale stato è però sentita e combattuta, in tutto
il Vicino Oriente, come l'inserimento forzoso di un corpo estraneo.
Il vero paradosso, tuttavia, rivelatore di una certa dimensione
del Mediterraneo, è la lunga sopravvivenza del popolo ebraico
espulso dalla Palestina nel 133 dall'imperatore Adriano dopo due
sanguinose rivolte contro la dominazione romana.
Sparse nel Medioevo in territorio islamico e in tutta l'Europa
cristiana, le comunità israelite hanno conosciuto dappertutto
la stessa difficile situazione di minoranze urbane isolate nei
loro ghetti. Protetti e tollerati, nei periodi normali, dai poteri
costituiti, che ne apprezzano l'abilità nelle tecniche
commerciali e di maneggio del denaro - un'abilità eccezionale
presso società che ritenevano di doverlo disprezzare senza
tuttavia saperne fare a meno -, gli ebrei sarebbero stati per
molto tempo i migliori intendenti dei papi di Avignone e dei sultani
di Istanbul. A volte sono perseguitati, massacrati, scacciati,
costretti nuovamente all'esilio: così accade intorno al
1500 in Spagna e in Italia, da dove raggiungeranno il più
ospitale impero ottomano. Altre volte, al contrario - il che in
un certo senso è più grave -, sono minacciati di
assimilazione letterale dei precetti di una religione che costituisce
il primo monoteismo del bacino mediterraneo, quello da cui derivano
sia il cristianesimo sia l'Islam: un monoteismo, però,
che non si preoccupa del proselitismo.
Nato dal sionismo europeo, creato dai sopravvissuti ai pogrom
dell'Europa orientale, popolato dai superstiti degli stermini
hitleriani, lo stato d'Israele ha saputo attrarre a sé
anche gli ebrei dei territori musulmani, la cui esistenza è
stata resa precaria dalla sua creazione. Non pretende però
- ed è questa la suo originalità - di riunire tutti
gli ebrei del mondo. Dappertutto, in America come in Europa, si
rafforzano comunità dinamiche, regolarmente rinnovate da
un continuo apporto di sangue nuovo, come accade nel Midi francese
grazie all'arrivo degli israeliti dell'Africa del Nord, discendenti
dei marrani espulsi dalla Spagna dai re cattolici. meglio ancora:
oggi i dirigenti israeliani si preoccupano contrastando come il
loro paese stia ridiventando una terra di emigrazione.
Da un'estremità all'altra del Mediterraneo la nostra epoca
tende così a disfare, separare e distinguere quel che la
storia aveva unito, giustapposto e fuso strettamente. Punto di
arrivo di una lenta sedentarizzazione, ogni popolo si identifica
in una nazione, in uno stato, in un territorio delimitato da frontiere.
Anche in questo caso si tratta di una cesura fondamentale: la
fine di un'essenziale mobilità. La maggioranza dei popoli
che oggi vivono lungo il perimetro del Mediterraneo, infatti,
vi è giunta dal di fuori, in epoca abbastanza recente perché,
dal secondo millennio precedente la nostra era fino al medioevo,
se ne possa datare l'arrivo con relativa precisione.
Da nomadi che erano, tali popoli sono divenuti sedentari, legati
al loro territorio anche quando è povero o montagnoso.
Hanno sottomesso, inglobato, assimilato o respinto le popolazioni
che li avevano preceduti: così i greci con i pelagi, i
lelegi o i carii, nei quali vedevano i primi abitanti del bacino
dell'Egeo, ma anche gli arabi con i berberi del Maghreb. Allevatori,
hanno portato con sé, imposto e acclimatato i propri animali
da trasporto o da guerra: i greci il cavallo, gli arabi il dromedario,
i turchi il cammello. Hanno però anche appreso sul posto
- spesso per poi diffonderle meglio - le tecniche agricole: grano,
vite, ulivo e fico, verdura, frutta e fiori... tutta la terminologia
greca relativa alle culture mediterranee deve derivare da quelli
che vengono chiamati in mancanza di un'espressione più
corretta, i "pre-elleni".
Con la forza, la diplomazia o l'astuzia si sono ritagliati un
proprio dominio, quella che è rimasta la loro culla sulle
rive del mare. Hanno fondato città e stati. Superato il
loro terrore iniziale di gente di terra e divenuti marinai, non
hanno tardato a lasciarsi tentare dall'avventura: la scoperta,
la colonizzazione, la conquista e la riconquista del mare. La
storia del Mediterraneo, non meno che da tale arrivo di popoli
nuovi, è stata scandita dalle loro successive espansioni:
greca, fenicia, romana, araba, cristiana, ottomana. A tappe esse
hanno costruito quell'unità che trionfa con Roma, per poi,
nel Medioevo e nell'età moderna, consolidare le grandi
frontiere di civiltà, di religione, di popolazione e di
lingua che oggi la dividono. Ma ne hanno anche garantito il frazionamento,
rafforzato la diversità. Se infatti ciascuna dominazione
ha lasciato la propria traccia, nessuna ha completamente sepolto
o cancellato le precedenti: qualunque spaccato abbastanza profondo
restituisce tale eccezionale stratigrafia della storia e fa emergere
le permanenze che danno origine a ciascun genius loci.
Sul piano umano, il volto attuale del Mediterraneo è opera
innanzitutto di tre grandi complessi di movimenti migratori, distribuiti
su più di tre millenni.
Il primo, il più lungo e anche il più massiccio,
corrisponde all'arrivo degli indoeuropei, che dal 2000 a.c. alla
fine delle invasioni barbariche popolano le penisole e i litorali
del Nord. Avviene in due tappe principali. La prima, che inizia
nel secondo millennio, si svolge da est a ovest e comprende gli
ittiti, i greci, gli italici e i celti. Si verifica poi, vista
l'incapacità di Roma di contenerli, tutta una mescolanza
di etnie guerriere, affascinate dalla ricchezza e dalla civiltà
dell'Impero, dalla quale emergono, per il carattere duraturo del
loro impatto sull'insediamento e sulla lingua, franchi, longobardi
e slavi. Il tutto a prezzo di sconvolgimenti brutali e di devastazioni
che daranno origine a lunghi periodi di depressione: la distruzione,
nel XII secolo a.C., dei regni achei di Miceni e di Argo da parte
di una seconda ondata di invasori greci, i dori, inaugura un Medioevo
paragonabile a quello che segue il crollo di Roma di fronte alla
calata dei barbari.
Gli storici si interrogano circa il numero dei nuovi arrivati,
sui più antichi dei quali riescono a individuare solo una
traccia archeologica di interpretazione ambigua: livelli di incendi,
siti abbandonati, mutamento degli utensili, della ceramica, dei
riti funerari. Alcuni, dagli ittiti dell'Anatolia ai normanni
dell'Italia meridionale, sembrano essere stati soltanto piccoli
gruppi militari trasformati dalla conquista in aristocratici dirigenti:
da questo sarebbe dipesa la fragilità, a breve scadenza,
del loro potere. I principali tra loro, però, si rivelarono
in grado di assimilare altrettanto bene sia quanti li avevano
preceduti sia coloro che li avrebbero seguiti: ne è testimonianza
l'ellenizzazione delle popolazioni slave che tra il VII e l'VIII
secolo avevano occupato la maggior parte della Grecia continentale.
La prova a contrario è invece costituita dal carattere
superficiale del loro insediamento sulle coste meridionale del
mare. Vi creano agenzie commerciali (come i greci a Naucratis,
su uno dei rami del delta del Nilo), le sottomettono politicamente
e le inglobano nel loro impero (come Alessandria e Roma), vi insediano
amministratori, soldati e mercanti, vi fondano capitali come Alessandria
o colonie di veterani: con tutto questo, però, rimangono
sempre minoritari.
Gli altri due movimenti migratori riguardano due gruppi, probabilmente
meno numerosi, di grandi nomadi: gli arabi e i turchi. I primi
dilagano, a partire del VII secolo, dai deserti tropicali del
Vicino Oriente, fanno vacillare l'indebolita resistenza di Bisanzio,
impongono per due secoli, da Baghdad a Gibilterra, la loro nuovissima
fede e la loro lingua, straripano anche a nord, occupano la Spagna
e la Sicilia, devastano con le loro scorrerie le coste italiane
e francesi. Provenienti dalle gelide steppe dell'Asia centrale,
i secondi si stabiliscono in Anatolia a partire dall'XI secolo:
tre secoli più tardi lo stato degli Osmanli riesce a insediarsi
saldamente nei Balcani, per poi impadronirsi di Costantinopoli
e sottomettere quindi, fino ad Algeri, tutto l'Islam mediterraneo;
la sua tutela sul Maghreb, però, si allenta ben presto,
e la cesura fondamentale contrappone ormai non il Nord e il Sud,
ma l'Oriente e l'Occidente del mare.
Le due espansioni, quella araba e quella turca, non si sovrappongono:
X. de Planhol ne ha collegato le rispettive aree all'ecologia
del dromedario e del cammello, il primo inadatto alla montagna
e al clima freddo, il secondo incapace di sopportare il caldo.
Tra esse esiste tuttavia un punto in comune: arabi e turchi, al
di là dei loro domini, non sono che una minoranza. I primi
sono riusciti a islamizzare e arabizzare l'Egitto - dove sussiste
ancora una forte minoranza copta -, ma non lo hanno popolato,
e la loro vittoriosa avanzata verso ovest è stata resa
possibile solo dalla mobilitazione dei berberi del Maghreb. Nonostante
tutti gli sforzi dei sultani ottomani per trasferire e stabilire
nei Balcani nomadi turkmeni, il popolamento turco della Rumelia
non ha resistito allo smembramento del loro impero. Non vi è
traccia, per la verità, di conversioni forzate: dappertutto
c'è un posto per gli "infedeli", confermato da
un'apposita tassa. Istanbul, poi, è riuscita nell'impresa
paradossale di diventare, ai tempi di Solimano il Magnifico, la
principale città turca, ma anche la principale città
greca, armena ed ebraica... Una complessa gerarchia si stabilisce
nelle campagne tra religione, lingua, origine etnica e generi
di vita, le cui frontiere non coincidono: la marea nomade non
sfiora neppure le zone ad alta densità di popolazione,
in particolare sulle montagne, rifugio di tutti gli arcaismi.
Ha inizio una lunga lotta, che si può considerare appena
conclusa, tra beduini e sedentari.
In un'era di mondi strapieni, e ad un Occidente ormai stabilizzato
da circa un millennio, fatichiamo a rappresentarci quei continui
spostamenti di popolazioni attratte, un secolo dopo l'altro, dal
Mediterraneo, che a esse deve il suo volto attuale. È come
se la minuziosa erudizione degli archeologi e dei linguisti, o
i racconti atterriti degli scrittori della bassa romanità,
non riuscissero, per difetto o per eccesso, a rapportarli a una
scala commisurata al nostro comune sentire. Ci è più
facile immaginarli attraverso i testi egizi che, nel XII secolo
a.C., mostrano i carri trainati dai buoi, carichi di donne e bambini,
che seguono la marcia dei popoli del Nord e del mare: o attraverso
il bassorilievo in cui è rappresentato Enea in fuga da
Troia in fiamme, con il padre sulle spalle: oppure, ancora, attraverso
i "ritorni" degli eroi achei dalla presa di Troia, il
più celebre dei quali, quello di Ulisse, conferisce una
dimensione mitica ai siti del Mediterraneo occidentale scoperti
nella stessa epoca dai marinai achei: Scilla e Cariddi, l'antro
del Ciclope, la grotta di Circe. Possono esserci di aiuto anche
i racconti più o meno leggendari relativi alla fondazione
delle colonie greche nell'Italia del Sud e in Sicilia: un pugno
di uomini, cadetti di grandi famiglie, gente senza terra o esuli
politici; un capo che consulta l'oracolo; qualche imbarcazione,
una lenta e prudente navigazione a vista lungo le coste; la scelta
e la consacrazione del sito, la lottizzazione del terreno e la
fondazione di una nuova città; i rapporti difficili con
gli indigeni dell'entroterra; e per alcune di tali città,
Taranto o Sibari, Siracusa, Gela o Agrigento, una fortuna prodigiosa,
ai confini del mondo greco, quasi stimolata dalla concorrenza
di Cartagine che contende loro con gli stessi mezzi, il controllo
di un Far West mediterraneo ricco di cereali e di metalli.
Di tale indissociabile mescolanza di attaccamento appassionato
alla terra e di mobilità permanente nello spazio marino
le isole, e in particolare quelle del Mediterraneo centrale, ci
offrono probabilmente la migliore testimonianza. In esse, infatti,
sembrano essersi succedute tutte le civiltà e tutte le
dominazioni, provenissero dall'Oriente o dall'Occidente.
Dopo le tribù primitive del secondo millennio, che innalzarono
i megaliti di Filitosa, la Corsica ha successivamente assistito
allo sbarco degli iberi e dei liguri, dai cartaginesi e dei romani,
dei bizantini e dei saraceni, dei pisani e dei genovesi, per essere
infine unita alla Francia. Si tratta, semplicemente, dell'eredità
di un passato morto e sepolto, del quale non rimane altro che
la testimonianza archeologica? Tutti gli apporti di cui si è
detto si sono fusi in un unico stampo. A Cargese, però,
possiamo vedere, una di fronte all'altra, le due chiese di Santa
Maria, una latina e l'altra ortodossa, quest'ultima fornita di
un'icona proveniente dal monte Athos: qui infatti trovò
rifugio, non senza fatica, una comunità di greci esiliata
alla fine dei Seicento dopo la riconquista del Peloponeso da parte
dei turchi, sull'esempio di quei greci e di quegli albanesi che,
alla fine del XV secolo, avevano fondato numerosi villaggi nell'Italia
meridionale e in Sicilia.
Malta, nella quale alcuni hanno voluto vedere una delle prime
culle, anteriore anche a Creta, della civiltà mediterranea,
palesa in modo ancora più esplicito i paradossi di una
cultura comune lentamente elaborata a partire dai materiali più
eterogenei. Qui il visitatore trova, fianco a fianco, il neolitico
di Hal Tarxien e Mgaar e la città nuova della Valletta,
costruita dall'Ordine dopo la vittoriosa resistenza opposta all'assalto
dei turchi nel 1565, o le catacombe di san Paolo - che, gettato
su queste spiagge da un naufragio, vi trascorse tre anni - e l'antica
M'dina (Città vecchia) medievale, in cui si mescolano influenze
arabe e catalane. Questa popolazione di quattrocentomila anime,
però (quaranta volte più numerosa di quanto non
fosse al momento dell'insediamento dell'Ordine), riconosce, dopo
centocinquant'anni di occupazione inglese, il cattolicesimo come
religione di stato, e scrive in caratteri latini un dialetto derivante
dall'arabo maghrebino, superficialmente romanizzato: lingua parlata
soprattutto dai contadini, che si definiscono a loro volta gharab
(arabi), mentre le élites urbane, dopo aver usato per qualche
tempo, come lingua di cultura, l'italiano, hanno optato oggi per
l'inglese.
E che dire poi della Sicilia, mondo chiuso dove, dopo l'arrivo
dei sicani, che erano italici provenienti dal Nord, si sono incontrati
e affrontati greci, cartaginesi e romani. È sempre stata
una colonia, è detto nel Gattopardo. Ogni occupante ha
preso il posto, ancora caldo, del predecessore, e la cattedrale
di Palermo si è insediata nella grande moschea, come quella
di Siracusa nel tempo di Atena. A tutti gli stranieri che l'hanno
percorsa l'isola deve la sua eccezionale ricchezza di monumenti,
e soprattutto alla Grecia, della quale ha conservato i templi
più giganteschi: è nell'Italia meridionale e in
Sicilia che l'Europa erudita riscopre, nel Settecento, l'architettura
greca. L'antica civiltà rurale locale, però, irrigidita
da due millenni nelle strutture, che raramente vacillano, del
latifondo cerealicolo, si mostra tenacemente ribelle, sia di fronte
al potere di Roma sia di fronte a quello di Napoli, a qualsiasi
"modernizzazione" imposta dallo stato.
Per almeno quattro millenni - ma forse si potrebbe parlare del
doppio -, il Mediterraneo ha continuato, fino a non molto tempo
fa, ad attrarre verso di sé uomini, a indurli a stabilirsi
sulle sponde e a "civilizzarli". Da tale apporto di
sangue nuovo, anzi, ha tratto rinnovata vitalità. Ha pagato
il prezzo di una storia brutale, scandita da distruzioni e saccheggi,
massacri ed esili, scontri sanguinosi tra comunità. I nuovi
venuti, però, hanno rapidamente adottato e diffuso le sue
tecniche, i suoi generi di vita e i suoi culti, sfruttando a loro
volte tutte le possibilità offerte dall'equilibrio, tradizionale
benché fragile e instabile, tra agricoltura sedentaria
e vita nomade degli armenti, tra coltura a secco e imbrigliamento
delle acque, tra città e campagne, tra le risorse sempre
troppo scarse di una terra deludente e quelle, più promettenti,
del mare.
Un polo di attrazione e di acculturazione, dunque. Ma anche un
luogo privilegiato per la circolazione degli uomini, degli animali
e delle piante, dei beni e delle tecniche, delle religioni e dei
simboli. Una circolazione a volte tanto rapida da rendere difficile,
di fronte a un'innovazione, distinguere se sia elaborata sul posto
o importata dall'esterno: studiosi di storia e di preistoria si
smarriscono nel tentativo di individuare i diversi influssi. E
le cose stanno così sin dall'inizio: la terracotta sarebbe
apparsa nell'ottavo millennio sul medio Eufrate, e avrebbe impiegato
circa un migliaio d'anni per raggiungere il mare; appena arrivata
a toccarne le sponde, però, si sarebbe diffusa con una
rapidità prodigiosa dalla Siria al Sahara e dall'Anatolia
ai Balcani, per invadere poi tutto il Mediterraneo occidentale;
ritroviamo così sin dal sesto millennio le prime ceramiche
in Italia (nelle Puglie), in Francia (vicino a Marsiglia), in
Spagna (nei dintorni di Cuenca); gli stili, però, presentano
una tale diversità da costringerci ad ammettere che in
ciascun luogo la nuova tecnica sia stata liberamente adattata,
per non dire quasi reinventata. L'episodio è esemplare
sotto tutti gli aspetti, in quanto coinvolge insieme la funzione
iniziatrice dei paesi della Mezzaluna fertile - dalla Palestina
alla Mesopotamia -, il perdurante ritardo dell'Occidente e il
ruolo decisivo del mare rispetto a un così travolgente
turbine di scambi: qui le idee circolano ancora più in
fretta degli oggetti. Delinea altresì una traiettoria che
comincerà a invertirsi, e con lentezza solo dopo l'anno
mille.
Lo stesso esempio, però, vale anche a indicare, al disotto
dei grandi spostamenti di popolazioni che hanno scandito la storia
ufficiale del Mediterraneo, un altro livello di mobilità.
Permanente e in un certo senso ripetitiva, ma nella maggior parte
dei casi silenziosa perché da molto tempo regolata dalla
consuetudine, essa fa parte del quadro di vita quotidiano degli
uomini, esprimendone l'abitudine ad adattarsi all'ambiente, ad
accogliere le sollecitazioni esterne, ad adottare e assimilare,
tra gli apporti estranei, quelli che possono fare per loro. Per
molto tempo il Mediterraneo è stato animato, come da una
corrente sotterranea, da tale regolare circolazione.
Se la sua storia si identifica con una lunga lotta tra nomadi
e sedentari, i secondi finiscono dappertutto per avere la meglio,
costringendo i primi a darsi una stabilità, limitandone,
regolandone e anche sfruttandone gli spostamenti, e infine sottomettendoli.
Certo, le conquiste araba e turca hanno provocato qua e là
regressioni spettacolari, e la beduinizzazione di antiche popolazioni
contadine, come nell'Atlante sahariano, nello Zagros e nel Fars
iraniano o in Valacchia. Oggi però, dal Maghreb al Kurdistan
o nei Balcani, il nomadismo esiste ormai soltanto allo stato residuale:
qualche migliaio, o al massimo poche decine di migliaia di persone,
che in nessun caso costituiscono una minaccia alle porte dei centri
urbani. Molto presto, d'altro canto, in larga parte dello spazio
mediterraneo, la vita pastorale era stata regolata da un diverso
genere di leggi: quelle della transumanza, che tra l'altro mira
ad associarle risorse complementari delle montagne e delle pianure,
organizzando i trasferimenti degli armenti dai pascoli estivi
a quelli invernali, a volte su distanze molto lunghe, e stabilendone
itinerari, tappe e la stessa entità numerica. La Mesta
spagnola, o, nel regno di Napoli, la Dogana delle Puglie, organizzavano
così nel XVI secolo i movimenti di vari milioni di pecore.
L'aumento quantitativo del bestiame si accompagna alla diminuzione
del numero di coloro che si spostano: più che di intere
famiglie si tratta ormai di professionisti, pastori pagati dai
proprietari o dalle comunità di villaggio. Sono personaggi
un po' misteriosi, depositari di segreti e sempre in odor di magia:
gli ultimi migranti, ai margini di una società di sedentari.
Altri viaggi, però, continuano a vedere lo spostamento
di effettivi infinitamente più numerosi. Partono dalle
montagne, dove si è registrata, fino alla recente urbanizzazione,
la più alta densità di popolazione. e forniscono
alle pianure cerealicole, povere di uomini, la manodopera necessaria
al tempo della mietitura, della vendemmia, della racconta delle
olive e degli agrumi; ovunque vi si possa assistere, nella Maremma
toscana, nelle Puglie o in Tessaglia, tali spostamenti si presentano
rigidamente strutturati, organizzati e diretti da "caporali"
che hanno stipulato un accordo, con vari mesi di anticipo, con
i grandi proprietari. Alcuni, tuttavia, non tornano più
indietro: dopo ogni epidemia, così, la montagna ripopola
la pianura. Altri, al contrario, preferiscono mettersi al servizio
degli stati e delle città. Per gli uni si fanno soldati,
come quei greci e quegli albanesi impiegati di volta in volta
da Venezia e dal sultano. Alle altre forniscono tutta una popolazione
di bottegai, artigiani e piccoli commercianti. Fino alla fine
del Settecento, ad esempio, la Spagna è meta di un'immigrazione
francese regolare e numerosa. Nell'Italia del Nord vediamo nello
stesso periodo gli uomini dei borghi dell'alto Lario, sulla riva
occidentale del lago di Como, prendere a loro volta la via del
Sud, verso Milano, Genova, Ancona, Roma, Napoli, o Palermo, dove,
con il nome di "lombardi", monopolizzano, come i bougnats
(carbonai) parigini, alcune professioni: scalpellini, ciabattini,
(intorno a Campo de' Fiori, a Roma), mercanti di vino (a Palermo).
Ma non sono più degli isolati: ogni borgo ha la sua meta
prediletta, e in ogni città gli immigrati si raggruppano
in associazioni che si occupano dell'accoglienza ai giovani, del
mutuo soccorso e dell'appianamento delle controversie, e curano
gli affari del villaggio d'origine, che in genere vive soltanto
dei loro invii in denaro.
Tali migrazioni professionali, siano o meno seguite da ritorno,
si distinguono tuttavia dal grande esodo contemporaneo in due
punti essenziali. Innanzitutto, anziché fuggire dal Mediterraneo,
lo hanno come meta, ed esprimono una divisione spaziale dell'habitat
e del lavoro, una complementarità delle montagne e delle
pianure, delle quali esprimono, a modo loro, la profonda unità.
Inoltre, come oggi la diaspora ebraica o libanese, esse rafforzano
ed estendono la coesione delle comunità, garantendone al
tempo stesso la sopravvivenza.
Ancor più spettacolari di quelli degli uomini sono i trasferimenti
di animali e piante, che coinvolgono, da est a ovest, tutto il
mare. Come l'America centrale per il Nuovo Mondo, a partire dal
quinto millennio, così il Vicino Oriente, dal litorale
mediterraneo al golfo Persico, è stato per il Vecchio,
tre o quattro mila anni prima, la culla della "rivoluzione
neolitica". Qui sono apparsi i primi villaggi, segno di un
habitat sedentario. Qui sono state addomesticate le principali
specie animali: la pecora, sin da prima del nono millennio, e
poi la capra e il maiale, per finire, intorno al quinto millennio,
con il bue. E qui, ancora, è nata la coltura sistematica
dei cereali, grano tenero e orzo, e quindi quella delle piante
arbustive destinate a segnare una civiltà, quali la vite
e l'ulivo, nonché le tecniche della coltura a secco. È
a partire a tale nucleo iniziale che animali e piante, così
resi domestici, si sono diffusi lungo tutto il perimetro del bacino
del mediterraneo per poi travalicarne i confini e invadere l'intera
Europa, compiendo infine il balzo verso il Nuovo Mondo. Solo la
vite e l'ulivo sono stati limitati nella loro espansione dalle
condizioni climatiche, anche se veri e propri prodigi di ingegnosità
hanno spinto molto lontano, verso nord, i confini del vigneto,
che in Francia come nella Germania renana appare un "lascito
della romanità".
Nel Medioevo l'Occidente importa nuovamente dal Vicino Oriente,
per introdurla nei suoi orti, un'ulteriore profusione di verdure,
frutta e fiori: carciofi e asparagi, lattughe e melanzane, zucche
e meloni, pere e susine, pesche e agrumi, canna di zucchero e
gelso, rose damascene... Si tratta, del resto, di importazioni
indirette, in quanto, molto più che alle crociate, sono
dovute alla scoperta, in Sicilia e in Spagna, dei successi degli
orticoltori musulmani, a loro volta legati alla diffusione sistematica
e conseguente alla conquista araba, da Baghdad all'Andalusia a
Valenza, delle tecniche di irrigazione, anch'esse messe a punto
nella Mezzaluna fertile, cui Roma aveva dedicato modesta attenzione.
Ancora per molto tempo la ricchezza degli orti e dei giardini
dell'Islam e dei loro emuli in Italia e in Spagna contrasterà
con la povertà di quelli dell'Europa del Nord, e la cristianità
non saprà fare di meglio che preservare, prima di imitarle,
le huertas di Palermo, di Valenza e di Elche, dove tutta la terminologia
e le tecniche idrauliche sono rimaste arabe. Ed è ancora
in questi orti, e sulle rive del mare, che per molto tempo l'Europa
atlantica verrà a cercare le sementi necessarie a rinnovare
regolarmente il proprio patrimonio vegetale: "I semi che
risalgono dal Mezzogiorno al Settentrione sono molto vantaggiosi",
scrive Oliver de Serres verso il 1600...
Per millenni e fino a non molto tempo fa, grazie a tale circolazione
continua di uomini e cose, il Mediterraneo ha costituito l'area
di elaborazione e di diffusione di civiltà insieme rurali
e mercantili, la cui matrice si colloca in quel Vicino Oriente,
oggi tanto diviso, instabile e minacciato. Di qui ha ricevuto
la scrittura, e quei numeri provenienti dall'India che noi chiamiamo
"arabi". I paradossi della geologia fanno sì
che l'Europa industriale cerchi in quelle stesse terre la propria
essenziale forte energetica, il petrolio - che a sua volta, come
le piante, attraversa il Mediterraneo da est a ovest - e scopra
a poco a poco, con spavento, la propria dipendenza da una sorgente
che potrebbe inaridirsi in qualsiasi momento, e senza la quale
non sarebbe in grado di vivere. Si tratta di un caso, o di un
segno di quella mutazione dei valori che, nella nostra società
tecnologica, lascia poco spazio allo spirituale? Lo stesso ristretto
nucleo del Vicino Oriente, infatti, ha fornito al Mediterraneo
prima le religioni fondate su una Terra Madre dispensatrice del
regolare ritorno delle messi, e poi le tre grandi religioni monoteistiche
che ancora oggi se ne disputano il controllo. E, con queste ultime,
tutto un sistema di simboli, di riti e di valori, un'escatologia,
la speranza nell'avvento di un regno in cui la storia sarà
abolita e gli uomini ritroveranno finalmente posto in quel Giardino
dal quale la loro colpa li ha fatti cacciare e disperdere: una
speranza tenace, testimoniata a Roma, alla Mecca e nei luoghi
santi della Palestina da folle sempre più numerose di pellegrini.
(traduzione di Elena De
Angeli)
Saggio tratto dal libro Il Mediterraneo, org. Fernand
Braudel, Bompiani, Milano, 1985
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