MIGRAZIONI

Maurice Aymard



Il Mediterraneo ha assunto per noi l'aspetto del sole e del "dolce far niente".
Il sole: folle di nordici che, invadendo charters e autostrade, si precipitano con i primi tepori dell'estate verso le rive del mare. Qui rimarranno, inchiodati sulle spiagge o nei caffè all'aperto, per qualche settimana, affascinati o affaticati da un diverso ritmo di vita. Oppure vagheranno, nomadi lenti o frettolosi, da un'isola all'altra, da un tempio greco a una città medievale, dal Partenone a Rodi, da Pompei ad Amalfi, da Palermo a Segesta e a Selinunte. Da un secolo il numero di questi invasori temporanei è prodigiosamente aumentato. Ieri erano un ristretto gruppo di ricchi privilegiati, oggi si aggirano intorno ai sessanta milioni: l'equivalente dell'intera popolazione del bacino mediterraneo verso il 1600. Domani dovrebbero essere, secondo i calcoli degli esperti, più di cento milioni. Oltre al numero, il turismo ha mutato anche il periodo. Ancora verso il 1900 era la dolcezza degli inverni a richiamare élites oziose e fortunate in luoghi privilegiati, da Nizza a Taormina. La vittoria dell'estate è stata quella della massa. Dopo le riviere francese e italiana il flusso ha sommerso la Spagna e il Mezzogiorno d'Italia, la Grecia e l'Anatolia, le isole del Tirreno, dell'Adriatico e dell'Egeo, per poi debordare nel Maghreb, sulle sponde meridionali del mare Interno. Ma ormai non basta più: dalle Canarie alle Maldive alle isole del Pacifico, i mercanti di sole inventano incessantemente altri Mediterranei.

È un'invasione pacifica, dunque, quella cui dà vita questo turismo spesso irreggimentato, pronto a pagare, e a caro prezzo, il diritto di dormire, di consumare e anche di guardare. Non procura forse un'occupazione a gente senza lavoro, e buona valuta per pareggiare la bilancia dei pagamenti di paesi poco industrializzati? Nessuno si stabilisce o progetta di stabilirsi in modo permanente. Quando riprende il lavoro negli uffici e nelle fabbriche del Nord, le stesse folle riguadagnano in buon ordine i paesi d'origine. È davvero un'invasione pacifica, dunque, ma non innocente. Distrugge infatti siti e paesaggi, sfigurati dal lusso un po' falso degli alberghi, degli immobili "fronte mare" e delle seconde case: per l'archeologo di domani, la sua traccia avrà tutte le caratteristiche di una conquista. E distrugge anche gli equilibri antichi e fragili delle società che la accolgono, in genere impreparate a subire lo shock dell'economia monetaria e spinte a sacrificare il futuro per il presente. Consuma infine esotismo e folclore, prestandosi al genere di vita mediterraneo come a un gioco, non come a una realtà: per la prima volta nella sua storia il Mediterraneo seduce gli invasori senza assimilarli se non superficialmente, e anzi si ritrova a sua volta minacciato di esserne assorbito e ridotto allo stato di oggetto: un luogo di spettacolo popolato di attori sempre più amareggiati, condannati a una vita di emarginati, frutto velenoso della dicotomia tra l'esistenza nativa, ormai fossilizzata, dei mesi invernali, e la falsa e venale vitalità della stagione estiva.

Per la prima volta, infatti, il Mediterraneo è in posizione di debolezza. Il piacere, tanto caro alle nostre vacanze, dell'ozio, del tempo libero e di un ritmo di vita più dolce si rivela come il rovescio di una realtà molto più crudele, propria delle nostre economie contemporanee: la disoccupazione, intesa non tanto come il venire a mancare del lavoro dopo un periodo di pieno impiego, quanto come l'assenza permanente di un'occupazione regolare: i cinquanta o cento giorni di lavoro all'anno delle antiche società rurali, in luogo dei duecento delle nostre società industriali, non consentono più di mantenere una popolazione divenuta troppo densa su una terra troppo povera.
Fatta eccezione per la Francia precocemente malthusiana della Terza Repubblica, l'Europa non era in grado di offrire granché ai suoi abitanti in soprannumero. Condannati a espatriare, essi cominciarono con il raggiungere a milioni, a partire dal 1880, i nuovi territori di insediamento bianco: gli Stati Uniti e il Canada, l'America latina, l'Australia. L'ondata raggiunse tali proporzioni che quei paesi chiusero le porte, o le lasciarono aperte soltanto a metà. Quando nel 1964, gli Stati Uniti decisero di trasferire ai "paesi poveri" (quelli mediterranei) le quote di immigrazione (2 per cento degli effettivi insediati in America nel 1890) inutilizzate dai "paesi ricchi" (anglosassone, tedeschi o scandinavi), si era già verificato il subentro dell'Europa industrializzata. A turno, italiani e nordafricani, spagnoli e portoghesi, iugoslavi, greci e turchi presero la via della Germania e della Svizzera, della Francia e dei paesi del Benelux, diventando le "braccia" della crescita degli anni 1955-75. Si ripeteva, a cinquant'anni di distanza, la storia delle grandi trasmigrazioni transoceaniche: la partenza in massa dei giovani in età da lavoro dalle regioni rurali più sovrappopolate, il loro raggruppamento in comunità di origini in grado di assicurare l'accoglienza, il primo impiego e quel minimo di calore umano indispensabile all'integrazione; la loro utilizzazione per i compiti più duri, meno qualificati e meno remunerativi; la loro facile espulsione in caso di crisi; i conflitti tra minoranze e autoctoni, spia delle difficoltà di assimilazione.
L'Italia è con ogni probabilità il paese che più è stato modificato da tale mobilità. In poco più di un secolo (1860-1970), ha registrato 25 milioni di partenze - per la verità non tutte definitive -, pari alla metà della sua popolazione nel 1960. Si tratta di un caso per molti versi esemplare. La prima emigrazione, a partire dagli inizi del XIX secolo, aveva avuto come meta soprattutto il bacino mediterraneo, l'Egitto, la Tunisia e in particolare l'Impero ottomano, dove gli italiani, eredi dei genovesi e dei veneziani di Pera-Galata - il quartiere "franco", ossia europeo, di Istanbul -, si impongono come commercianti e negozianti, architetti e medici, ingegneri e operai delle ferrovie: una emigrazione di "tecnici". La realizzazione dell'unità, però, sconvolge l'economia e la società della penisola. A voler partire saranno ormai in maggioranza rurali, contadini senza terra, a malapena in grado di pagarsi il viaggio: li ritroveremo come operai - spesso malvisti in quanto "crumiri" - nell'agricoltura, nell'edilizia, nelle miniere. È un'emigrazione della miseria e delle illusioni perdute.

Verso il 1860-80 emigranti provenienti del Piemonte, dalla Toscana o dall'Emilia si spargono per l'Europa, e soprattutto in Francia: a partire, però, sono per il momento soltanto in 100.000 circa all'anno. Dopo il 1880 tale numero raddoppia, triplica, supera i 600.000 nel decennio 1901-10, e raggiunge la cifra record di 872.598 nel 1913. Provengono dalle zone rurali più povere, dal Veneto e soprattutto dal Sud, dalla Sicilia e dalla Calabria, dalle Puglie e dagli Abruzzi. Attraversano l'Atlantico, raggiungono l'Argentina, il Brasile meridionale - dove fondano città dai nomi evocativi, quali Nova Venetia, Nova Trento, Nova Vicenza, Nova Milano - e soprattutto gli Stati Uniti. Poverissimi, si stabiliscono nelle città e qui ricostituiscono quartieri e reti di rapporti interpersonali: Little Italy, Brooklyn, una cultura comune fatta, come scrive S. Romano, "un po' di religione, un po' di superstizione, un po' di patriottismo e un po' di gastronomia". E anche, mito o realtà, la mafia. Finisce così per prevalere un po' dappertutto l'immagine di un italiano resistente all'assimilazione, attaccato alla sua lingua, ai suoi costumi e al suo stile di vita, di volta in volta "crumiro" e "sovversivo". Dal pogrom di New Orleans nell'ottobre del 1890 all'esecuzione di Sacco e Vanzetti nel 1927, nonché al complesso della letteratura di ieri e di oggi sul sindacato del crimine, tutta la comunità italoamericano ne ha pagato il prezzo, e un prezzo pesante. In Francia, peraltro, è stato bandito dai manuali di storia, per carità di patria, il ricordo degli incidenti di Aigues-Mortes, nell'agosto del 1893 (una cinquantina di morti) e di Lione, nel giugno del 1894, dopo l'assassinio di Sadi Carnot per mano di Sante Caserio. Chi legge, oggi, il romanzo di L. Bertrand L'invasion, che nel 1907 denunciava il "pericolo italiano"?

Con le limitazioni imposte sia dagli Stati Uniti sia dal fascismo, e in seguito alla crisi degli anni '30, il movimento rallentò fin quasi a interrompersi. Dopo la guerra però eccolo riprendere vigore, diretto questa volta più verso la Svizzera e la Germania che non verso il Canada e gli Stati Uniti: intorno al 1960 l'Italia è ancora il paese che fornisce i più grossi contingenti di manodopera all'Europa industrializzata. Con il "miracolo economico", però, tale emigrazione pressoché tradizionale è aggravata ed entra in competizione con un'altra, questa volta interna, che ha per meta l'Italia del Nord, le città e le fabbriche della Lombardia e del Piemonte, e anche le campagne, dove i meridionali sostituiscono, sui terreni meno produttivi, i contadini che già li hanno abbandonati.
Dei quattro milioni di uomini e donne che in vent'anni (1951-71) hanno lasciato il Sud, solo un milione si è recato all'estero. Durante l'autunno caldo del 1969, anche Torino e Milano scoprono i sordidi "ghetti", popolati di calabresi e siciliani, che hanno invaso le loro periferie, e insieme il volto sempiterno del razzismo: sono sempre i meridionali, esclusi senza complimenti dai quartieri borghesi, a occupare nei giornali le pagine di cronaca nera, colpevoli, manco a dirlo, di tutti i delitti. Ma neppure le dinamiche industrie del Nord bastano ad assorbire l'enorme massa degli emigranti: molti sono ancora ammucchiati, prima tappa o sosta provvisoria, nelle borgate e nelle bidonvilles delle periferie di Napoli o di Roma, in attesa di un ipotetico impiego in qualche ufficio o ministero promesso da un lontano cugino o da un grande elettore dei partiti al potere... Intanto, nelle campagne siciliane disertate dalla loro popolazione, bisogna fare appello ai tunisini per le vendemmie nella zona di Marsala: e ancora una volta, ecco affacciarsi il razzismo.

Nello spazio di un secolo l'Italia percorre così tutto il grande ciclo delle migrazioni moderne, che svuotano a uno a uno tutti i paesi mediterranei- e all'interno di ciascuno le regioni più diseredate - delle popolazioni di campagna, mobilitandole a svolgere i compiti più bassi presso le economie industriali. Alle spalle di ogni emigrazione, però, va vista la violenza culturale operata ai danni dei partenti, e di conseguenza la necessità di quei poveri mezzi che consentono a questi ultimi di resistere: le solidarietà familiari e religiose, la sposa fino a non molto tempo fa scelta al paese dalla mezzana, le lettere e i regali a parenti e amici, il denaro inviato alla madre o alla famiglia, l'ostentazione dei simboli del successo materiale - le Cadillac immatricolate in Venezuela posteggiate all'ombra in una viuzza di un villaggio siciliano, i dollari offerti alla statua di Santa Rosalia sul Monte Pellegrino, a Palermo -, il ritorno a casa, occupando interi treni, in occasione delle elezioni, delle vacanze e delle crisi di disoccupazione. La brutalità dello shock subito, la distanza che separa e isola, traspaiono da queste lettere inviate al "mago" del villaggio da alcuni migranti calabresi, e pubblicate da L. Lombardi Satriani:
"Professore Illustrissimo,
Vi mando, come mi avete chiesto, qualche capello e la fotografia. E poi vi mando anche un vaglia di 10.000 lire come modesta offerta per il vostro prezioso lavoro..." (Novara, 3 marzo 1973.)
"Ho ricevuto la vostra risposta in cui mi dite di non potermi dire il nome della persona che mi ha gettato il malocchio; ma almeno ditemi se è una persona della casa o di fuori... se il malocchio mi è stato gettato da lontano o da vicino, se mi è stato dato in qualche bevanda o altrove..." (Singen, 3 novembre 1970.)
"Rispondo alla tua lettera sulla polvere che avete mandato. Tu spiegavi che noi dovevamo mettere dei capelli miei e di mia moglie e noi li abbiamo messi... ma poi dici che dobbiamo trovare tre chiodi di bara, mentre qui in Canada i morti non li sotterrano, non è come in Italia..." (Toronto, 12 dicembre 1970).

Dappertutto, nelle campagne dell'interno, non solo in Sicilia o in Calabria, ma anche nella Murcia o nel Peloponneso, la situazione, negli ultimi venti o trent'anni, è precipitata. Certi villaggi isolati, popolati di vecchi e di bambini - quando non sono già abbandonati del tutto -, segnano l'ineluttabile punto di arrivo. È come se i vari paesi del Mediterraneo si trovassero a fasi diverse di uno stesso processo. All'inizio gli uomini partono da soli, mandano denaro al paese per comprare un campo o un esercizio commerciale, preparano o sognano il ritorno. Viene poi, dissolta ogni speranza, la volta delle donne: con la loro partenza, la rottura diventa definitiva. Per un certo periodo, attraverso l'invio di denaro da parte dei suoi figli, il villaggio vive, o sopravvive, grazie all'emigrazione; alla fine, muore.
Tutte le partenze di cui si è detto disegnano il volto di un Mediterraneo che ha perduto il controllo economico del mondo e ha affrontato l'era industriale con ritardo, e dunque in una situazione rischiosa, di dipendenza, in Italia dopo l'unità, nell'Africa del Nord nel periodo coloniale, nella Spagna e nel Portogallo degli anni Cinquanta, nella Iugoslavia o nella Turchia degli anni Sessanta o Settanta, si ripete la stessa storia: l'apertura verso l'esterno di tali paesi ancora fragili e la volontà dei loro dirigenti di integrarli nell'economia sviluppata comportano la crisi delle società rurali tradizionali. La conseguenza è rappresentata dalle partenze in massa verso l'estero o verso le città, dove si può o si spera di poter trovare lavoro. Il villaggio non è più che un ricordo destinato a sparire o a essere reinventato dai turisti venuti dal Nord. Il Mediterraneo paga il ritardo che ha accumulato e la propria disperata volontà di colmarlo con il sole e con il lavoro: due aspetti di una stessa dipendenza.

Per tre o quattro millenni le migrazioni avevano fatto storia e l'unità del Mediterraneo: oggi minacciano di disfarla. Contro tale minaccia va attualmente montando un po' dappertutto lo stesso spirito di rivolta, la stessa ricerca appassionata di un'identità che rischia di essere distrutta dal livellamento linguistico, politico ed economico. Non sorprende vedere la protesta svilupparsi in tutta la sua ampiezza nella Francia giacobina e centralizzatrice. Al "Volem vivre al paîs" degli occitani risponde il "Fora i Francesi" dei corsi. Sono due slogan complementari, che tradiscono la stessa angoscia, lo stesso rifiuto di un'integrazione che non lascia altra possibilità che la partenza.
In tutti i paesi dell'Europa mediterranea, in Spagna come nell'Italia meridionale, le regioni rialzano la testa e rivendicano quell'autonomia che il consolidarsi di uno stato centralizzatore ha loro negato: altrove, come nella Iugoslavia del dopoguerra, lo stato ha dovuto fin dall'origine cercare un accomodamento, inserendo nella propria costituzione - e facendo poi vivere giorno dopo giorno - il pluralismo politico, linguistico, razziale, religioso e culturale che caratterizza il paesaggio umano del Mediterraneo. Anche se l'indipendenza riconquistata del XIX secolo dai cristiani dei Balcani, e nei XX dai territori islamici dei suoi confini meridionali, lo imposero dovunque come garanzia necessaria della sua ritrovata dignità, il modello dello stato nazionale non è nato sulle rive del Mediterraneo. È giunto dall'esterno, come prezzo di una riconquista. E sopravvive a fatica. Quanti mediterranei potrebbero far propria, ciascuno al proprio paese, la rivendicazione dei catalani di oggi: "Spagnoli forse, castigliani mai"? Un po' dappertutto, il concetto di nazione è ancora da inventare, o meglio, da far vivere nel cuore degli uomini.
Non parliamo troppo presto di isolamento, di particolarismo, di orizzonti limitati, consueti a tutte le civiltà antiche e ulteriormente accentuati dal frazionamento provocato dai rilievi, da quell'alleanza tra montagna e mare che fa delle isole mediterranee prodigiosi bacini di conservazione, affascinanti per l'osservatore curioso, cineasta o antropologo che sia. La crisi attuale è qualcosa di più della terra che muore. Essa designa il livello privilegiato in cui sino a oggi si esercitavano le solidarietà essenziali, e che per secoli non era mai stato seriamente intaccato.

Non vi è nulla, tuttavia, che sia più mobile di una storia posta sotto il segno dell'invasione e della conquista. Per tre millenni il Mediterraneo non ha mai cessato di attrarre popoli venuti da fuori, dalla foresta, dalla steppa o dal deserto. E ciascuno di tali popoli, subito dopo essersi ritagliato uno spazio sulle sue sponde, ha tentato - greci, "barbari", arabi o turchi che fossero - di impadronirsene e di dominarlo nella sua totalità. Da Roma agli ottomani, però, gli imperi più prestigiosi si sono mostrati meno esigenti del più deboli tra gli stati moderni: una sottomissione passiva, l'omaggio politico e religioso, a un sovrano lontano, il pagamento regolare dell'imposta, più raramente l'invio di uomini per la guerra... poca cosa. Ogni volta essi si trovarono di fronte alla necessità di venire a patti con un passato tenace, di rispettare, se necessario in cambio di denaro, usi e credenze, di assimilare in seguito le élites locali.
Ogni invasore, ogni dominazione ha potuto così lasciare la propria traccia, ancora oggi leggibile, senza però fare tabula rasa né unificare in profondità. Per conseguire tale fine, in effetti, non vi è altro mezzo che un'estirpazione brutale e assurda. Così, ad esempio, i Giovani Turchi hanno voluto eliminare, con un atroce genocidio, il fastidioso problema armeno. Per due volte, con gli ebrei alla fine del Quattrocento e poi, cento anni più tardi, con i moriscos, la Spagna castigliana ha ripetuto l'esperienza di un'espulsione totale, senza che per questo ne fossero alleviati i dubbi circa la propria "limpieza de sangre". Una purezza di sangue, peraltro, oltremodo illusoria: nella penisola iberica, così come in tutto il Mediterraneo, la regola non è forse costituita dallo stretto intrecciarsi delle comunità etniche e religiose, a volte giustapposte e a volte sovrapposte a seconda dei flussi e riflussi del popolamento e del potere, e quindi della loro coesistenza? È proprio tale coesistenza difficile, perennemente costellata di scontri e conflitti, che l'affermarsi degli stati nazionali rende oggi impossibile. Dappertutto si inaspriscono e si approfondiscono conflitti e odi, e si sviluppano fenomeni di rigetto.
La Francia ha di recente vissuto, dopo l'Italia, il fallimento della sua esperienza coloniale nei paesi del Maghreb, senza altra scelta che il ritorno alla madrepatria di più di un milione di connazionali. Oggi scopre con sorpresa la rivolta della Corsica contro tale afflusso di nuovi venuti, portatori di mezzi tecnici, di capitali e di uno stile di vita in contraddizione con quello tradizionale dell'isola, che li vede arrivare come dei coloni. A Cipro la rimessa in discussione del fragile equilibrio tra greci e turchi - nel cui ambito questi ultimi sono stranamente i più poveri, pur discendendo dai conquistatori ottomani del 1570-71 - provoca una divisione di fatto che tutto fa ritenere duratura. In questa regione, per la verità, Cipro rappresenta un'eccezione. Altrove, in tutto il territorio dei Balcani e dell'Egeo, la distruzione dell'Impero ottomano ha provocato, a partire dal 1918, i primi grandi spostamenti di popolazione dell'età contemporanea: deportazioni in massa, espulsione dei turchi dalla Iugoslavia e dalla Grecia, e simmetricamente sradicamento pressoché totale di quell'insediamento greco sul litorale dell'Asia Minore che pure aveva resistito, a partire dai persiani, a tutte le dominazioni straniere, e che, tradizionalmente legato al mare, fu sostituito da una popolazione turca che con il mare non vuole aver niente a che spartire.
L'esempio più significativo che abbiamo sotto gli occhi di tali lacerazioni contemporanee, e anche quello che ci tocca di più, è però senza dubbio costituito da Israele. La trasformazione in stato, nel 1948, dell'antica culla della nazione ebraica segna la conclusione di una diaspora durata duemila anni e insieme, per il popolo eletto, l'atteso compimento della sua storia, l'adempimento di una promessa del suo Dio. L'esistenza di tale stato è però sentita e combattuta, in tutto il Vicino Oriente, come l'inserimento forzoso di un corpo estraneo. Il vero paradosso, tuttavia, rivelatore di una certa dimensione del Mediterraneo, è la lunga sopravvivenza del popolo ebraico espulso dalla Palestina nel 133 dall'imperatore Adriano dopo due sanguinose rivolte contro la dominazione romana.

Sparse nel Medioevo in territorio islamico e in tutta l'Europa cristiana, le comunità israelite hanno conosciuto dappertutto la stessa difficile situazione di minoranze urbane isolate nei loro ghetti. Protetti e tollerati, nei periodi normali, dai poteri costituiti, che ne apprezzano l'abilità nelle tecniche commerciali e di maneggio del denaro - un'abilità eccezionale presso società che ritenevano di doverlo disprezzare senza tuttavia saperne fare a meno -, gli ebrei sarebbero stati per molto tempo i migliori intendenti dei papi di Avignone e dei sultani di Istanbul. A volte sono perseguitati, massacrati, scacciati, costretti nuovamente all'esilio: così accade intorno al 1500 in Spagna e in Italia, da dove raggiungeranno il più ospitale impero ottomano. Altre volte, al contrario - il che in un certo senso è più grave -, sono minacciati di assimilazione letterale dei precetti di una religione che costituisce il primo monoteismo del bacino mediterraneo, quello da cui derivano sia il cristianesimo sia l'Islam: un monoteismo, però, che non si preoccupa del proselitismo.
Nato dal sionismo europeo, creato dai sopravvissuti ai pogrom dell'Europa orientale, popolato dai superstiti degli stermini hitleriani, lo stato d'Israele ha saputo attrarre a sé anche gli ebrei dei territori musulmani, la cui esistenza è stata resa precaria dalla sua creazione. Non pretende però - ed è questa la suo originalità - di riunire tutti gli ebrei del mondo. Dappertutto, in America come in Europa, si rafforzano comunità dinamiche, regolarmente rinnovate da un continuo apporto di sangue nuovo, come accade nel Midi francese grazie all'arrivo degli israeliti dell'Africa del Nord, discendenti dei marrani espulsi dalla Spagna dai re cattolici. meglio ancora: oggi i dirigenti israeliani si preoccupano contrastando come il loro paese stia ridiventando una terra di emigrazione.
Da un'estremità all'altra del Mediterraneo la nostra epoca tende così a disfare, separare e distinguere quel che la storia aveva unito, giustapposto e fuso strettamente. Punto di arrivo di una lenta sedentarizzazione, ogni popolo si identifica in una nazione, in uno stato, in un territorio delimitato da frontiere. Anche in questo caso si tratta di una cesura fondamentale: la fine di un'essenziale mobilità. La maggioranza dei popoli che oggi vivono lungo il perimetro del Mediterraneo, infatti, vi è giunta dal di fuori, in epoca abbastanza recente perché, dal secondo millennio precedente la nostra era fino al medioevo, se ne possa datare l'arrivo con relativa precisione.

Da nomadi che erano, tali popoli sono divenuti sedentari, legati al loro territorio anche quando è povero o montagnoso. Hanno sottomesso, inglobato, assimilato o respinto le popolazioni che li avevano preceduti: così i greci con i pelagi, i lelegi o i carii, nei quali vedevano i primi abitanti del bacino dell'Egeo, ma anche gli arabi con i berberi del Maghreb. Allevatori, hanno portato con sé, imposto e acclimatato i propri animali da trasporto o da guerra: i greci il cavallo, gli arabi il dromedario, i turchi il cammello. Hanno però anche appreso sul posto - spesso per poi diffonderle meglio - le tecniche agricole: grano, vite, ulivo e fico, verdura, frutta e fiori... tutta la terminologia greca relativa alle culture mediterranee deve derivare da quelli che vengono chiamati in mancanza di un'espressione più corretta, i "pre-elleni".
Con la forza, la diplomazia o l'astuzia si sono ritagliati un proprio dominio, quella che è rimasta la loro culla sulle rive del mare. Hanno fondato città e stati. Superato il loro terrore iniziale di gente di terra e divenuti marinai, non hanno tardato a lasciarsi tentare dall'avventura: la scoperta, la colonizzazione, la conquista e la riconquista del mare. La storia del Mediterraneo, non meno che da tale arrivo di popoli nuovi, è stata scandita dalle loro successive espansioni: greca, fenicia, romana, araba, cristiana, ottomana. A tappe esse hanno costruito quell'unità che trionfa con Roma, per poi, nel Medioevo e nell'età moderna, consolidare le grandi frontiere di civiltà, di religione, di popolazione e di lingua che oggi la dividono. Ma ne hanno anche garantito il frazionamento, rafforzato la diversità. Se infatti ciascuna dominazione ha lasciato la propria traccia, nessuna ha completamente sepolto o cancellato le precedenti: qualunque spaccato abbastanza profondo restituisce tale eccezionale stratigrafia della storia e fa emergere le permanenze che danno origine a ciascun genius loci.

Sul piano umano, il volto attuale del Mediterraneo è opera innanzitutto di tre grandi complessi di movimenti migratori, distribuiti su più di tre millenni.
Il primo, il più lungo e anche il più massiccio, corrisponde all'arrivo degli indoeuropei, che dal 2000 a.c. alla fine delle invasioni barbariche popolano le penisole e i litorali del Nord. Avviene in due tappe principali. La prima, che inizia nel secondo millennio, si svolge da est a ovest e comprende gli ittiti, i greci, gli italici e i celti. Si verifica poi, vista l'incapacità di Roma di contenerli, tutta una mescolanza di etnie guerriere, affascinate dalla ricchezza e dalla civiltà dell'Impero, dalla quale emergono, per il carattere duraturo del loro impatto sull'insediamento e sulla lingua, franchi, longobardi e slavi. Il tutto a prezzo di sconvolgimenti brutali e di devastazioni che daranno origine a lunghi periodi di depressione: la distruzione, nel XII secolo a.C., dei regni achei di Miceni e di Argo da parte di una seconda ondata di invasori greci, i dori, inaugura un Medioevo paragonabile a quello che segue il crollo di Roma di fronte alla calata dei barbari.
Gli storici si interrogano circa il numero dei nuovi arrivati, sui più antichi dei quali riescono a individuare solo una traccia archeologica di interpretazione ambigua: livelli di incendi, siti abbandonati, mutamento degli utensili, della ceramica, dei riti funerari. Alcuni, dagli ittiti dell'Anatolia ai normanni dell'Italia meridionale, sembrano essere stati soltanto piccoli gruppi militari trasformati dalla conquista in aristocratici dirigenti: da questo sarebbe dipesa la fragilità, a breve scadenza, del loro potere. I principali tra loro, però, si rivelarono in grado di assimilare altrettanto bene sia quanti li avevano preceduti sia coloro che li avrebbero seguiti: ne è testimonianza l'ellenizzazione delle popolazioni slave che tra il VII e l'VIII secolo avevano occupato la maggior parte della Grecia continentale. La prova a contrario è invece costituita dal carattere superficiale del loro insediamento sulle coste meridionale del mare. Vi creano agenzie commerciali (come i greci a Naucratis, su uno dei rami del delta del Nilo), le sottomettono politicamente e le inglobano nel loro impero (come Alessandria e Roma), vi insediano amministratori, soldati e mercanti, vi fondano capitali come Alessandria o colonie di veterani: con tutto questo, però, rimangono sempre minoritari.

Gli altri due movimenti migratori riguardano due gruppi, probabilmente meno numerosi, di grandi nomadi: gli arabi e i turchi. I primi dilagano, a partire del VII secolo, dai deserti tropicali del Vicino Oriente, fanno vacillare l'indebolita resistenza di Bisanzio, impongono per due secoli, da Baghdad a Gibilterra, la loro nuovissima fede e la loro lingua, straripano anche a nord, occupano la Spagna e la Sicilia, devastano con le loro scorrerie le coste italiane e francesi. Provenienti dalle gelide steppe dell'Asia centrale, i secondi si stabiliscono in Anatolia a partire dall'XI secolo: tre secoli più tardi lo stato degli Osmanli riesce a insediarsi saldamente nei Balcani, per poi impadronirsi di Costantinopoli e sottomettere quindi, fino ad Algeri, tutto l'Islam mediterraneo; la sua tutela sul Maghreb, però, si allenta ben presto, e la cesura fondamentale contrappone ormai non il Nord e il Sud, ma l'Oriente e l'Occidente del mare.
Le due espansioni, quella araba e quella turca, non si sovrappongono: X. de Planhol ne ha collegato le rispettive aree all'ecologia del dromedario e del cammello, il primo inadatto alla montagna e al clima freddo, il secondo incapace di sopportare il caldo. Tra esse esiste tuttavia un punto in comune: arabi e turchi, al di là dei loro domini, non sono che una minoranza. I primi sono riusciti a islamizzare e arabizzare l'Egitto - dove sussiste ancora una forte minoranza copta -, ma non lo hanno popolato, e la loro vittoriosa avanzata verso ovest è stata resa possibile solo dalla mobilitazione dei berberi del Maghreb. Nonostante tutti gli sforzi dei sultani ottomani per trasferire e stabilire nei Balcani nomadi turkmeni, il popolamento turco della Rumelia non ha resistito allo smembramento del loro impero. Non vi è traccia, per la verità, di conversioni forzate: dappertutto c'è un posto per gli "infedeli", confermato da un'apposita tassa. Istanbul, poi, è riuscita nell'impresa paradossale di diventare, ai tempi di Solimano il Magnifico, la principale città turca, ma anche la principale città greca, armena ed ebraica... Una complessa gerarchia si stabilisce nelle campagne tra religione, lingua, origine etnica e generi di vita, le cui frontiere non coincidono: la marea nomade non sfiora neppure le zone ad alta densità di popolazione, in particolare sulle montagne, rifugio di tutti gli arcaismi. Ha inizio una lunga lotta, che si può considerare appena conclusa, tra beduini e sedentari.

In un'era di mondi strapieni, e ad un Occidente ormai stabilizzato da circa un millennio, fatichiamo a rappresentarci quei continui spostamenti di popolazioni attratte, un secolo dopo l'altro, dal Mediterraneo, che a esse deve il suo volto attuale. È come se la minuziosa erudizione degli archeologi e dei linguisti, o i racconti atterriti degli scrittori della bassa romanità, non riuscissero, per difetto o per eccesso, a rapportarli a una scala commisurata al nostro comune sentire. Ci è più facile immaginarli attraverso i testi egizi che, nel XII secolo a.C., mostrano i carri trainati dai buoi, carichi di donne e bambini, che seguono la marcia dei popoli del Nord e del mare: o attraverso il bassorilievo in cui è rappresentato Enea in fuga da Troia in fiamme, con il padre sulle spalle: oppure, ancora, attraverso i "ritorni" degli eroi achei dalla presa di Troia, il più celebre dei quali, quello di Ulisse, conferisce una dimensione mitica ai siti del Mediterraneo occidentale scoperti nella stessa epoca dai marinai achei: Scilla e Cariddi, l'antro del Ciclope, la grotta di Circe. Possono esserci di aiuto anche i racconti più o meno leggendari relativi alla fondazione delle colonie greche nell'Italia del Sud e in Sicilia: un pugno di uomini, cadetti di grandi famiglie, gente senza terra o esuli politici; un capo che consulta l'oracolo; qualche imbarcazione, una lenta e prudente navigazione a vista lungo le coste; la scelta e la consacrazione del sito, la lottizzazione del terreno e la fondazione di una nuova città; i rapporti difficili con gli indigeni dell'entroterra; e per alcune di tali città, Taranto o Sibari, Siracusa, Gela o Agrigento, una fortuna prodigiosa, ai confini del mondo greco, quasi stimolata dalla concorrenza di Cartagine che contende loro con gli stessi mezzi, il controllo di un Far West mediterraneo ricco di cereali e di metalli.
Di tale indissociabile mescolanza di attaccamento appassionato alla terra e di mobilità permanente nello spazio marino le isole, e in particolare quelle del Mediterraneo centrale, ci offrono probabilmente la migliore testimonianza. In esse, infatti, sembrano essersi succedute tutte le civiltà e tutte le dominazioni, provenissero dall'Oriente o dall'Occidente.

Dopo le tribù primitive del secondo millennio, che innalzarono i megaliti di Filitosa, la Corsica ha successivamente assistito allo sbarco degli iberi e dei liguri, dai cartaginesi e dei romani, dei bizantini e dei saraceni, dei pisani e dei genovesi, per essere infine unita alla Francia. Si tratta, semplicemente, dell'eredità di un passato morto e sepolto, del quale non rimane altro che la testimonianza archeologica? Tutti gli apporti di cui si è detto si sono fusi in un unico stampo. A Cargese, però, possiamo vedere, una di fronte all'altra, le due chiese di Santa Maria, una latina e l'altra ortodossa, quest'ultima fornita di un'icona proveniente dal monte Athos: qui infatti trovò rifugio, non senza fatica, una comunità di greci esiliata alla fine dei Seicento dopo la riconquista del Peloponeso da parte dei turchi, sull'esempio di quei greci e di quegli albanesi che, alla fine del XV secolo, avevano fondato numerosi villaggi nell'Italia meridionale e in Sicilia.
Malta, nella quale alcuni hanno voluto vedere una delle prime culle, anteriore anche a Creta, della civiltà mediterranea, palesa in modo ancora più esplicito i paradossi di una cultura comune lentamente elaborata a partire dai materiali più eterogenei. Qui il visitatore trova, fianco a fianco, il neolitico di Hal Tarxien e Mgaar e la città nuova della Valletta, costruita dall'Ordine dopo la vittoriosa resistenza opposta all'assalto dei turchi nel 1565, o le catacombe di san Paolo - che, gettato su queste spiagge da un naufragio, vi trascorse tre anni - e l'antica M'dina (Città vecchia) medievale, in cui si mescolano influenze arabe e catalane. Questa popolazione di quattrocentomila anime, però (quaranta volte più numerosa di quanto non fosse al momento dell'insediamento dell'Ordine), riconosce, dopo centocinquant'anni di occupazione inglese, il cattolicesimo come religione di stato, e scrive in caratteri latini un dialetto derivante dall'arabo maghrebino, superficialmente romanizzato: lingua parlata soprattutto dai contadini, che si definiscono a loro volta gharab (arabi), mentre le élites urbane, dopo aver usato per qualche tempo, come lingua di cultura, l'italiano, hanno optato oggi per l'inglese.

E che dire poi della Sicilia, mondo chiuso dove, dopo l'arrivo dei sicani, che erano italici provenienti dal Nord, si sono incontrati e affrontati greci, cartaginesi e romani. È sempre stata una colonia, è detto nel Gattopardo. Ogni occupante ha preso il posto, ancora caldo, del predecessore, e la cattedrale di Palermo si è insediata nella grande moschea, come quella di Siracusa nel tempo di Atena. A tutti gli stranieri che l'hanno percorsa l'isola deve la sua eccezionale ricchezza di monumenti, e soprattutto alla Grecia, della quale ha conservato i templi più giganteschi: è nell'Italia meridionale e in Sicilia che l'Europa erudita riscopre, nel Settecento, l'architettura greca. L'antica civiltà rurale locale, però, irrigidita da due millenni nelle strutture, che raramente vacillano, del latifondo cerealicolo, si mostra tenacemente ribelle, sia di fronte al potere di Roma sia di fronte a quello di Napoli, a qualsiasi "modernizzazione" imposta dallo stato.
Per almeno quattro millenni - ma forse si potrebbe parlare del doppio -, il Mediterraneo ha continuato, fino a non molto tempo fa, ad attrarre verso di sé uomini, a indurli a stabilirsi sulle sponde e a "civilizzarli". Da tale apporto di sangue nuovo, anzi, ha tratto rinnovata vitalità. Ha pagato il prezzo di una storia brutale, scandita da distruzioni e saccheggi, massacri ed esili, scontri sanguinosi tra comunità. I nuovi venuti, però, hanno rapidamente adottato e diffuso le sue tecniche, i suoi generi di vita e i suoi culti, sfruttando a loro volte tutte le possibilità offerte dall'equilibrio, tradizionale benché fragile e instabile, tra agricoltura sedentaria e vita nomade degli armenti, tra coltura a secco e imbrigliamento delle acque, tra città e campagne, tra le risorse sempre troppo scarse di una terra deludente e quelle, più promettenti, del mare.

Un polo di attrazione e di acculturazione, dunque. Ma anche un luogo privilegiato per la circolazione degli uomini, degli animali e delle piante, dei beni e delle tecniche, delle religioni e dei simboli. Una circolazione a volte tanto rapida da rendere difficile, di fronte a un'innovazione, distinguere se sia elaborata sul posto o importata dall'esterno: studiosi di storia e di preistoria si smarriscono nel tentativo di individuare i diversi influssi. E le cose stanno così sin dall'inizio: la terracotta sarebbe apparsa nell'ottavo millennio sul medio Eufrate, e avrebbe impiegato circa un migliaio d'anni per raggiungere il mare; appena arrivata a toccarne le sponde, però, si sarebbe diffusa con una rapidità prodigiosa dalla Siria al Sahara e dall'Anatolia ai Balcani, per invadere poi tutto il Mediterraneo occidentale; ritroviamo così sin dal sesto millennio le prime ceramiche in Italia (nelle Puglie), in Francia (vicino a Marsiglia), in Spagna (nei dintorni di Cuenca); gli stili, però, presentano una tale diversità da costringerci ad ammettere che in ciascun luogo la nuova tecnica sia stata liberamente adattata, per non dire quasi reinventata. L'episodio è esemplare sotto tutti gli aspetti, in quanto coinvolge insieme la funzione iniziatrice dei paesi della Mezzaluna fertile - dalla Palestina alla Mesopotamia -, il perdurante ritardo dell'Occidente e il ruolo decisivo del mare rispetto a un così travolgente turbine di scambi: qui le idee circolano ancora più in fretta degli oggetti. Delinea altresì una traiettoria che comincerà a invertirsi, e con lentezza solo dopo l'anno mille.
Lo stesso esempio, però, vale anche a indicare, al disotto dei grandi spostamenti di popolazioni che hanno scandito la storia ufficiale del Mediterraneo, un altro livello di mobilità. Permanente e in un certo senso ripetitiva, ma nella maggior parte dei casi silenziosa perché da molto tempo regolata dalla consuetudine, essa fa parte del quadro di vita quotidiano degli uomini, esprimendone l'abitudine ad adattarsi all'ambiente, ad accogliere le sollecitazioni esterne, ad adottare e assimilare, tra gli apporti estranei, quelli che possono fare per loro. Per molto tempo il Mediterraneo è stato animato, come da una corrente sotterranea, da tale regolare circolazione.

Se la sua storia si identifica con una lunga lotta tra nomadi e sedentari, i secondi finiscono dappertutto per avere la meglio, costringendo i primi a darsi una stabilità, limitandone, regolandone e anche sfruttandone gli spostamenti, e infine sottomettendoli. Certo, le conquiste araba e turca hanno provocato qua e là regressioni spettacolari, e la beduinizzazione di antiche popolazioni contadine, come nell'Atlante sahariano, nello Zagros e nel Fars iraniano o in Valacchia. Oggi però, dal Maghreb al Kurdistan o nei Balcani, il nomadismo esiste ormai soltanto allo stato residuale: qualche migliaio, o al massimo poche decine di migliaia di persone, che in nessun caso costituiscono una minaccia alle porte dei centri urbani. Molto presto, d'altro canto, in larga parte dello spazio mediterraneo, la vita pastorale era stata regolata da un diverso genere di leggi: quelle della transumanza, che tra l'altro mira ad associarle risorse complementari delle montagne e delle pianure, organizzando i trasferimenti degli armenti dai pascoli estivi a quelli invernali, a volte su distanze molto lunghe, e stabilendone itinerari, tappe e la stessa entità numerica. La Mesta spagnola, o, nel regno di Napoli, la Dogana delle Puglie, organizzavano così nel XVI secolo i movimenti di vari milioni di pecore. L'aumento quantitativo del bestiame si accompagna alla diminuzione del numero di coloro che si spostano: più che di intere famiglie si tratta ormai di professionisti, pastori pagati dai proprietari o dalle comunità di villaggio. Sono personaggi un po' misteriosi, depositari di segreti e sempre in odor di magia: gli ultimi migranti, ai margini di una società di sedentari.
Altri viaggi, però, continuano a vedere lo spostamento di effettivi infinitamente più numerosi. Partono dalle montagne, dove si è registrata, fino alla recente urbanizzazione, la più alta densità di popolazione. e forniscono alle pianure cerealicole, povere di uomini, la manodopera necessaria al tempo della mietitura, della vendemmia, della racconta delle olive e degli agrumi; ovunque vi si possa assistere, nella Maremma toscana, nelle Puglie o in Tessaglia, tali spostamenti si presentano rigidamente strutturati, organizzati e diretti da "caporali" che hanno stipulato un accordo, con vari mesi di anticipo, con i grandi proprietari. Alcuni, tuttavia, non tornano più indietro: dopo ogni epidemia, così, la montagna ripopola la pianura. Altri, al contrario, preferiscono mettersi al servizio degli stati e delle città. Per gli uni si fanno soldati, come quei greci e quegli albanesi impiegati di volta in volta da Venezia e dal sultano. Alle altre forniscono tutta una popolazione di bottegai, artigiani e piccoli commercianti. Fino alla fine del Settecento, ad esempio, la Spagna è meta di un'immigrazione francese regolare e numerosa. Nell'Italia del Nord vediamo nello stesso periodo gli uomini dei borghi dell'alto Lario, sulla riva occidentale del lago di Como, prendere a loro volta la via del Sud, verso Milano, Genova, Ancona, Roma, Napoli, o Palermo, dove, con il nome di "lombardi", monopolizzano, come i bougnats (carbonai) parigini, alcune professioni: scalpellini, ciabattini, (intorno a Campo de' Fiori, a Roma), mercanti di vino (a Palermo). Ma non sono più degli isolati: ogni borgo ha la sua meta prediletta, e in ogni città gli immigrati si raggruppano in associazioni che si occupano dell'accoglienza ai giovani, del mutuo soccorso e dell'appianamento delle controversie, e curano gli affari del villaggio d'origine, che in genere vive soltanto dei loro invii in denaro.
Tali migrazioni professionali, siano o meno seguite da ritorno, si distinguono tuttavia dal grande esodo contemporaneo in due punti essenziali. Innanzitutto, anziché fuggire dal Mediterraneo, lo hanno come meta, ed esprimono una divisione spaziale dell'habitat e del lavoro, una complementarità delle montagne e delle pianure, delle quali esprimono, a modo loro, la profonda unità. Inoltre, come oggi la diaspora ebraica o libanese, esse rafforzano ed estendono la coesione delle comunità, garantendone al tempo stesso la sopravvivenza.
Ancor più spettacolari di quelli degli uomini sono i trasferimenti di animali e piante, che coinvolgono, da est a ovest, tutto il mare. Come l'America centrale per il Nuovo Mondo, a partire dal quinto millennio, così il Vicino Oriente, dal litorale mediterraneo al golfo Persico, è stato per il Vecchio, tre o quattro mila anni prima, la culla della "rivoluzione neolitica". Qui sono apparsi i primi villaggi, segno di un habitat sedentario. Qui sono state addomesticate le principali specie animali: la pecora, sin da prima del nono millennio, e poi la capra e il maiale, per finire, intorno al quinto millennio, con il bue. E qui, ancora, è nata la coltura sistematica dei cereali, grano tenero e orzo, e quindi quella delle piante arbustive destinate a segnare una civiltà, quali la vite e l'ulivo, nonché le tecniche della coltura a secco. È a partire a tale nucleo iniziale che animali e piante, così resi domestici, si sono diffusi lungo tutto il perimetro del bacino del mediterraneo per poi travalicarne i confini e invadere l'intera Europa, compiendo infine il balzo verso il Nuovo Mondo. Solo la vite e l'ulivo sono stati limitati nella loro espansione dalle condizioni climatiche, anche se veri e propri prodigi di ingegnosità hanno spinto molto lontano, verso nord, i confini del vigneto, che in Francia come nella Germania renana appare un "lascito della romanità".
Nel Medioevo l'Occidente importa nuovamente dal Vicino Oriente, per introdurla nei suoi orti, un'ulteriore profusione di verdure, frutta e fiori: carciofi e asparagi, lattughe e melanzane, zucche e meloni, pere e susine, pesche e agrumi, canna di zucchero e gelso, rose damascene... Si tratta, del resto, di importazioni indirette, in quanto, molto più che alle crociate, sono dovute alla scoperta, in Sicilia e in Spagna, dei successi degli orticoltori musulmani, a loro volta legati alla diffusione sistematica e conseguente alla conquista araba, da Baghdad all'Andalusia a Valenza, delle tecniche di irrigazione, anch'esse messe a punto nella Mezzaluna fertile, cui Roma aveva dedicato modesta attenzione. Ancora per molto tempo la ricchezza degli orti e dei giardini dell'Islam e dei loro emuli in Italia e in Spagna contrasterà con la povertà di quelli dell'Europa del Nord, e la cristianità non saprà fare di meglio che preservare, prima di imitarle, le huertas di Palermo, di Valenza e di Elche, dove tutta la terminologia e le tecniche idrauliche sono rimaste arabe. Ed è ancora in questi orti, e sulle rive del mare, che per molto tempo l'Europa atlantica verrà a cercare le sementi necessarie a rinnovare regolarmente il proprio patrimonio vegetale: "I semi che risalgono dal Mezzogiorno al Settentrione sono molto vantaggiosi", scrive Oliver de Serres verso il 1600...

Per millenni e fino a non molto tempo fa, grazie a tale circolazione continua di uomini e cose, il Mediterraneo ha costituito l'area di elaborazione e di diffusione di civiltà insieme rurali e mercantili, la cui matrice si colloca in quel Vicino Oriente, oggi tanto diviso, instabile e minacciato. Di qui ha ricevuto la scrittura, e quei numeri provenienti dall'India che noi chiamiamo "arabi". I paradossi della geologia fanno sì che l'Europa industriale cerchi in quelle stesse terre la propria essenziale forte energetica, il petrolio - che a sua volta, come le piante, attraversa il Mediterraneo da est a ovest - e scopra a poco a poco, con spavento, la propria dipendenza da una sorgente che potrebbe inaridirsi in qualsiasi momento, e senza la quale non sarebbe in grado di vivere. Si tratta di un caso, o di un segno di quella mutazione dei valori che, nella nostra società tecnologica, lascia poco spazio allo spirituale? Lo stesso ristretto nucleo del Vicino Oriente, infatti, ha fornito al Mediterraneo prima le religioni fondate su una Terra Madre dispensatrice del regolare ritorno delle messi, e poi le tre grandi religioni monoteistiche che ancora oggi se ne disputano il controllo. E, con queste ultime, tutto un sistema di simboli, di riti e di valori, un'escatologia, la speranza nell'avvento di un regno in cui la storia sarà abolita e gli uomini ritroveranno finalmente posto in quel Giardino dal quale la loro colpa li ha fatti cacciare e disperdere: una speranza tenace, testimoniata a Roma, alla Mecca e nei luoghi santi della Palestina da folle sempre più numerose di pellegrini.




(traduzione di Elena De Angeli)
Saggio tratto dal libro Il Mediterraneo, org. Fernand Braudel, Bompiani, Milano, 1985




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