Gli ultimi giorni di Foucault
Eric Favereau
Daniel
Defert, compagno del filosofo, racconta in un'intervista inedita realizzata 10
anni fa, le condizioni della morte di Michel Foucault. Bugie ed equivoci sull'Aids
l'hanno portato a fondare l'associazione Aides.
Daniel
Defert, sociologo, ha sempre rifiutato di ricordare la morte di Michel Foucault.
Per più di venti anni, è stato il compagno del filosofo. Era il
1996, a casa sua, nel suo appartamento del XV arrondissement di Parigi.
Quel giorno, aveva accettato di parlarne, per il progetto di un libro in cui diversi
protagonisti della lotta contro l'Aids avrebbero affrontato un momento unico di
questo combattimento. La morte di Michel Foucault fu uno dei momenti “in cui qualcosa
oscilla”. Poiché è a partire dagli equivoci, dalle bugie, dalle
prese di potere medico e politico, e più in generale dalle ipocrisie intorno
a questo decesso all'ospedale Pitié-Salpêtrière, che Daniel
Defert decide di fare del suo lutto una “lotta”. Fonda, nel dicembre 1984, l'associazione
Aides, che avrebbe capovolto il paesaggio, non solo dell'epidemia del HIV in Francia,
ma anche quello della sanità. Oggi, per i venti anni dalla morte del suo
compagno, Daniel Defert ha accettato che Libération pubblichi
questa intervista. Giugno
1984, Michel Foucault è appena ricoverato. Michel
è stato ricoverato una sola volta. Alla fine. I mesi precedenti, aveva
seguito una cura in ambulatorio. All'inizio era una tosse. Michel aveva subito
degli esami dolorosi, come la fibroscopia, che all'epoca si faceva con molte meno
precauzioni anestetiche di oggi. Michel sopportava, era molto duro con sé
stesso. Quando usciva da quell'esame, andava a lavorare direttamente alla Biblioteca
Nazionale, e questo fatto nascondeva per me i suoi problemi di salute. Nel gennaio
del 1984, la sua cura di Bactrim si era dimostrata molto efficace. All'epoca,
la rappresentazione dell'Aids era quella di una malattia brutale, che portava
presto alla morte. Bene, non ne era il caso ai nostri occhi. E quindi l'ipotesi
dell'Aids, che avevamo chiaramente evocato entrambi nel dicembre del 1983, è
sparita davanti all'efficacia della cura. Dato che guariva, voleva dire che non
era l'Aids. La
vita è ripresa. È primavera. Michel svolge i suoi corsi al Collège
de France nel febbraio del 1984, finisce di scrivere due libri, continua a fare
esercizi coi pesi tutte le mattine. Una vita normale, anche se è estremamente
dimagrito, fragile. E a giugno, la ricaduta. Un ricovero di tre settimane che
si concluderà col suo decesso. Ma
perché questo ricovero sarà decisivo per la nascita dell'Aids ? È
solo dopo che ho decifrato un certo numero di fatti. Ma durante queste settimane
in ospedale, la situazione medica mi è apparsa globalmente insopportabile.
Non ho pensato subito che era andata così male a causa dell'Aids. Che
cosa dicevano allora i medici ? I
medici sostenevano di non sapere che cosa avesse. Cosa che succede frequentemente,
Tolstoï l'ha descritto nella Morte di Ivan Ilitch . I medici, dal
dicembre del 1983, hanno fatto delle ipotesi, ed è vero che avevano delle
reticenze legittime a precipitarsi sull'ipotesi dell'Aids. È troppo semplice,
omosessualità = Aids. Si sono proibiti di pensarci troppo presto, o troppo
esclusivamente. Ma a partire da un viaggio di Jacques Leibowitch negli Stati Uniti,
che fa un resoconto a febbraio all'ospedale Tarnier, la squadra che curava Michel
è stata messa davanti l'evidenza che la scadenza era a breve termine, e
senza metodi terapeutici. Bisogna anche dire che il medico di Michel aveva capito
che non voleva che fosse formalizzata una diagnosi, l'urgenza era di lasciargli
del tempo per finire di scrivere. Ho capito molto tardi che la preoccupazione
più grande dell'équipe era stata di mantenere un certo silenzio
per lasciarlo esclusivamente al suo lavoro. “ Nella relazione segreta della
sua propria morte ”, che aveva descritto qualche mese prima nel necrologio
del suo amico Philippe Ariès. Il
problema che potesse essere l'Aids non si poneva, né per voi né
per i medici… Era
un'ipotesi che avevo preso in considerazione a dicembre. Ne avevamo parlato chiaramente
con Michel, e questa possibilità non gli sembrava così improbabile.
È per questo che, dopo il successo del Bactrim, Michel ha scritto a gennaio
a un amico, dicendogli che aveva creduto di avere l'Aids, ma che non era. Mi ripeto,
ma non bisogna dimenticare che, agli inizi del 1984, non si conosceva la malattia
concretamente. Chiaro, i nostri amici americani parlavano solo di Aids, ma sotto
una forma fantasmagorica. Un amico newyorkese, legato alla stampa medica gay,
ha passato il Natale a casa, gli parlava sempre e non vedeva niente. Tutto era
centrato intorno all'immagine del Kaposi. Questo tumore maligno della pelle che
formava delle macchie terribilmente violente. Bene, Michel non aveva il Kaposi.
Quando ho rivolto la domanda al medico, pochi giorni prima della sua morte, mi
ha risposto : “Ma se avesse avuto l'Aids l'avrei esaminata.” Questa
risposta mi è parsa di una logica implacabile. Poi, è questo che
ho percepito come una vera ferita, poiché era una menzogna frontale. In
più, quella menzogna ha pesato sulla nostra relazione, perché gli
ho annunciato trionfalmente che non era l'Aids. Bene, per Michel, invece, è
stata un'evidenza. E l'angoscia assoluta che io sia colpito a mia volta. Il
ricovero è stato decente ? Ero
molto sensibile alla questione dei rapporti di potere in ospedale. Li ho provati
duramente. Per
esempio ? L'inizio.
Una domenica, Michel ha avuto una sincope a casa. Non riesco a rintracciare i
suoi medici curanti. Suo fratello, chirurgo, se ne occupa, lo ricoverano vicino
al nostro domicilio. Il lunedì successivo, riusciamo a trovare i medici
curanti. Subito, l'ospedale di quartiere pensa solo a sbarazzarsi di questo malato
ingombrante ed è previsto che sia trasferito alla Salpêtrière.
Manifestamente, i suoi medici avevano fatto in modo che Michel non fosse ricoverato
in un reparto troppo segnato dall'Aids. Scartano l'ospedale Claude-Bernard e il
reparto dove era Willy Rozenbaum. Si arriva alla Salpêtrière nel
giorno di Pentecoste. Ci aspettavano per la sera e noi arriviamo prima di mezzogiorno.
Come un cane in chiesa. Michel era estremamente stanco, non mangiava più,
sfinito. Restiamo bloccati nel corridoio. Ci dicono: “ La camera non è
pronta, vi aspettavamo per la sera.” Bisogna richiedere una sedia, poi un
po' da mangiare, non mi ricordo una tale disattenzione. Mi
si fa notare che non era neanche registrato. Mi reco allo sportello. Al ritorno,
una nuova sorvegliante mi accoglie, gentile, scusandosi, dicendo che la camera
non era pronta, ma che tutto si sarebbe sistemato. Michel viene messo subito in
una camera confortevole. Poco dopo, sento un medico chiedere a un'infermiera :
“ La camera è stata disinfettata per bene? ” credo di capire che
la risposta sia negativa, che si era perso del tempo. Forse due giorni dopo, Michel
ha un'infezione polmonare; nel reparto, inizia a circolare l'ipotesi che fosse
stato infetto nell'ospedale. È trasferito nel reparto di terapia intensiva.
Si vede
bene come funziona: una sorvegliante che non sa dire che la camera non è
disinfettata e che si doveva solamente aspettare, poi un'altra che aveva capito,
nell'intervallo, che si trattava di Foucault. Si può supporre che il capo-reparto
fosse stato avvisato e, alla fine, Michel viene sistemato troppo presto nella
camera, tutto questo in ragione di educazioni gerarchiche. È tutto il gioco
di rapporti di potere in un servizio ospedaliero e tutto il gioco dei rapporti
di verità che inizio a scoprire. Poi
la morte. E altre menzogne. Dopo
il decesso, mi viene chiesto di andare allo stato civile della Salpêtrière.
La persona in carica è abbastanza infastidita: “Ascolti, i giornalisti
ci assillano da parecchi giorni per avere una diagnosi e sapere se si tratta di
Aids. Bisogna fare un comunicato.” Erano le 13 e 30. Chiedo del tempo,
bisogna che sua madre sia avvisata prima da noi che dalla radio, e sua sorella
è partita in macchina vicino a Poitiers. L'impiegato risponde: “
Alle 17, al massimo.” Ritorno alle 17 con Denys Foucault, suo fratello,
e il medico che lo seguiva da dicembre e che era il primo ad avere diagnosticato
un Kaposi in questa epidemia in Francia, ma questo l'ho saputo molto più
tardi. Sulla scrivania, c'è un foglio dove riconosco la mia scrittura.
Non mi sento indiscreto nel prenderlo. Era il certificato di ammissione. E vedo:
“Causa del decesso : Aids . ” È così che
l'ho saputo. Credevo che le cause del decesso non figurassero sui fogli amministrativi.
Il
suo medico era lì, a suo fianco ? Sì,
e gli chiedo: "Ma cosa significa ?" Mi risponde
"Si tranquillizzi, scomparirà, non ce ne saranno tracce. "
" Ma aspetti, non è questo il punto . "
E lì, violentemente, scopro la realtà sull'Aids: far finta di
niente nell'impensabile sociale. Scopro questa specie di paura sociale che aveva
occultato ogni rapporto di verità. Trovo inammissibile che delle persone,
ancora giovani, all'estremità del loro tempo di vita, non possano avere
dei rapporti di verità né con la loro diagnosi, né con chi
sta loro intorno. Questo
divenne per me uno scopo maggiore e immediato: la padronanza della propria vita.
Il problema si era già posto con Michel. Dove morire ? Un medico aveva
evocato il ritorno a casa perchè fosse libero della sua decisione. Era
un momento in cui faceva molto caldo, sarebbe stato sopportabile? Sarebbe tornato
a casa per mettere fine ai suoi giorni? Ne abbiamo discusso. E perché farlo
a casa, quando c'era tutta un'équipe medica all'ospedale per assisterlo?
A
sentirla parlare, era evidente che Foucault sarebbe morto. Per
i medici, sì. Per me, no. E non lo sapevo per una ragione molto semplice:
non ero mai stato vicino a un moribondo. Ma avevo vicino a me il filosofo Robert
Castel, che aveva appena perso la moglie; per lunghi mesi, tutt'e due avevano
fatto di questo accompagnamento una storia passionale che mi aveva profondamente
colpito. Françoise è deceduta tre giorni prima del ricovero di Michel.
Robert Castel mi ha sostenuto molto. Mi ha spiegato che aveva fatto una sorta
di divisione dei compiti; sua moglie era medico, lui le lasciava gli affari medici,
occupandosi della relazione psicologica. È
quello che è successo a voi? Michel
se ne intendeva perfettamente di medicina. Dunque, la parte medica era la sua.
Io mi occupavo del resto delle relazioni. Non era semplice. L'ospedale era ossessionato
dalla paura di indiscrezioni giornalistiche, di foto e di processi. E ha invocato
ragioni mediche per imporre una frustrazione relazionale inammissibile. Michel
voleva vedere Deleuze, Canguilhem, Mathieu Lindon, e questo fu impossibile. Si
può improvvisare un sostegno di qualcuno che sa che deve morire? Esiste
un savoir-faire che non avevo. Non è la stessa cosa essere vicino
a una persona molto cara o sostenerla. Ma, come le dicevo, mi ero vietato di fare
delle domande mediche. Si sarebbe potuto credere che non volessi vedere, né
sapere. Un giorno, un medico mi ha voluto parlare, e gli ho detto di no, rispondendogli:
“Se la veda con Michel” . Invece, all'Aides, vogliamo assolutamente capire
e rispondere alle domande mediche. E credo che questo abbia fatto una grande differenza
con i comportamenti esistenti. In più, mi ero vietato di pensare alla morte,
mi ero detto che pensando che sarebbe morto, pensavo soprattutto a me. Ho pensato
che, per essere il più disponibile possibile, bisognava che scartassi l'ipotesi
della sua morte imminente. Forse ho fatto un'opera di censura, ma è tutto
un modo di gestire la cosa in cui ho dovuto prendere a prestito, indovinare, provare.
Improvvisavo. E poi, mi avevano ripetuto che non era l'Aids, per cui pensavo che
fosse qualcosa di gestibile. All'esterno,
c'era una voce che diceva che Foucault era ricoverato per Aids ? Non
ero quasi mai fuori dall'ospedale. E so che, fino al ricovero, Jean-Paul Escande
(capo-reparto a Tarnier) e il medico Odile Picard hanno assicurato una protezione
massima. In ogni caso, c'è qualcosa di insopportabile : è che
una malattia sia un tale oggetto di voracità sociale e che allo stesso
tempo si sia spodestati dell'informazione. Due giorni dopo il funerale, entro
in un bar, incrocio un giornalista che conoscevo un pò. Mi guarda, assolutamente
sbalordito. Come un oggetto di terrore. Capisco il suo sguardo. Scopro, così,
brutalmente, che, a Parigi, ero l'unica persona di cui si poteva pensare che avesse
l'Aids. Siccome Foucault era morto di Aids, allora l'avevo anche io. Scopro l'Aids
nel faccia a faccia con qualcuno. Ed è lì che capisco che sarò
obbligato a fare un test, poiché altrimenti non avrei potuto sostenere
questo confronto a lungo. Quando
emerge l'idea di un movimento contro l'Aids? Quando,
non lo so. Dopo la morte di Michel, sono partito con l'idea di creare un movimento.
E per svariate ragioni. Prima di tutto, delle ragioni molto personali, legate
alla nostre storia comune. Con Michel, avevamo un passato militante, avevamo creato,
fra le altre cose, un movimento sulle prigioni. Un movimento intorno a un silenzio,
il silenzio sulla prigione, intorno a un tabù sociale e morale. I primi
volantini all'inizio del GIP (Gruppo d'Informazione sulle Prigioni) erano sul
silenzio e sulla presa di parola dei detenuti. In qualche modo, un movimento che
io chiamo socioetico, prima che politico. Quindi, come dire? Ho voluto vivere
questo lutto della morte di Michel continuando una storia comune intorno a una
situazione etica di presa di parola. Ne
ha parlato presto intorno a lei? Sono
andato all'Isola d'Elba con Hervé Guibert con questo progetto. Hervé
sopportava estremamente male questa idea. Era ostile, irritato, era fondamentalmente
uno scrittore. Quando sono tornato a Parigi, ho letto una lettera sulla corrispondenza
di Libération , la lettera di un ragazzo che diceva di avere l'Aids,
che conosceva la sua diagnosi e che era insopportabile. Ciò rimetteva totalmente
in causa il mio modello sul diritto di sapere. Quel ragazzo aveva scritto una
lettera senza firma. Sono entrato, non senza difficoltà, in contatto con
lui attraverso Libération . Non mi voleva incontrare; poi, finalmente,
a settembre, ci siamo visti. Era la prima volta che incontravo qualcuno che sapeva
di avere l'Aids. Imparavo insieme a lui quanto fosse insopportabile vivere. E
molte delle prime conversazioni che abbiamo avuto si ritrovano nei primi opuscoli
di Aides, anche se sono stati scritti collettivamente. In
quell'epoca, nell'autunno 1984, sapeva che era sieronegativo? No.
Ho voluto gestire un solo dramma alla volta. Ma avevo parlato con degli amici
medici. Jacques Lebas e Odile Picard mi avevano spinto a fare un test. Non c'era
ancora nessuna letteratura sui test, erano tutti sperimentali e artigianali. Come
si è svolto questo test? All'epoca,
c'erano due prelievi a settimana alla Salpêtrière, cosa che concentrava
tutti i candidati. Non eravamo molto a nostro agio. L'infermiera che mi fa il
prelievo grida a squarciagola, nella sala: “Qual è il codice per il
LAV (all'epoca, il nome del virus)? ” così, non sono entrato
proprio nel panico. Un mese dopo, ritorno all'ospedale : niente risultati.
E il medico mi dice di ritornare il mese successivo. Ritorno. Ancora niente risultati.
Era insopportabile, penso a una messa in scena. Allora, era implicito il problema
del diritto di sapere. Mi sono innervosito. Il dottore telefona subito davanti
a me al laboratorio che gli risponde che ero negativo. In
quell'ottobre 1984, aveva dei contatti con altre associazioni, all'estero, per
esempio? Il
mese di agosto del 1984, l'ho passato, come ogni anno, alla British Library di
Londra, dove ho letto tutto quello che ho trovato per avere una conoscenza medica
sull'Aids (nome inglese, che si sarebbe trasformato in Aides, con la e
che cambia la malattia in solidarietà). Ho scoperto così il Terence
Higgins Trust, che era la prima associazione inglese, creata nel 1983. Uno strano
miscuglio. Una decina di persone assicuravano un servizio telefonico in un locale
sordido prestato dal Great London Council (governo Thatcher). Avevo l'impressione
che ci si riimpegnasse in quelle lotte conosciute negli anni '70, le lotte minoritarie,
ai margini. È negli Stati Uniti che ho scoperto, un anno più tardi,
la superficie sociale delle associazioni, con degli uffici come può essere
qui la Sicurezza sociale. Detto questo, era appassionante quello che facevano,
ho imparato a fare il servizio telefonico con loro. E poco a poco, così,
cominciava a esistere un universo che iniziava a strutturarsi, unito al GMHC (Gay
Men's Health Crisis) di New York. Un modello di risposta. Non era il modello giuridico
al quale avevo spontaneamente pensato e per il quale avevo scritto una lettera-manifesto
a una decina di giuristi e medici militanti, nell'estate del 1984.
Proprio
all'inizio, fra questi primi militanti che sarebbero diventati Aides, si poneva
il problema dello statuto sierologico di ognuno? No.
La maggioranza delle persone, credo, dovevano pensare che non erano colpiti. Ed
è a posteriori una delle cose più inverosimili :
la maggior parte delle persone che erano alle primissime riunioni era già
colpita. E non lo sapeva. È abbastanza tragico, poiché si credeva
allora di non essere in ritardo e si pensava di prendere le cose a monte rispetto
agli Stati Uniti. Conoscevamo poca gente colpita. Immaginavamo veramente che ci
fossero solo i 294 casi conosciuti. Abbiamo scoperto un po' più tardi che
l'epidemia in Francia si era istallata probabilmente alla fine degli anni '70.
Le persone erano contaminate, ma non lo sapevano. Venivano a iscriversi all'Aides
sulla base di una solidarietà, di una responsabilità del militantismo
gay degli anni precedenti, o dello scandalo che era questa nuova discriminazione
sociale. E per bisogno di imparare, poiché non circolava nessuna informazione.
Sentivo l'evidenza di fare qualcosa, ma c'era questa dimensione del lutto, del
mio lutto, che mi sembrava importante. Mi ritrovavo nudo, avevo vissuto protetto
per venti anni. Uno sposo, una sposa, tutti sanno quale comportamento adottare.
Là, c'erano per di più esitazioni, ma, in generale, non una parola.
Un dettaglio : all'università, quando un collega perde il coniuge,
lo si va a trovare, gli si scrive. Tutto un insieme di cose mi indicavano che
non era un lutto come gli altri. E ho avuto voglia che fosse un lutto di combattimento.
Cioè? Quando
il medico mi aveva detto che avremmo dovuto cancellare la diagnosi, non capivo.
Per me, non c'era nessuno scandalo ad avere l'Aids. Michel avrebbe potuto dirlo,
ma non era nel suo stile, e inoltre non c'è stata l'occasione. A partire
dal momento in cui era morto senza dirlo, senza potere o senza saper dirlo, avevo
l'impressione di non poter dirlo al suo posto, che andava contro l'etica medica
alla quale aderisco. E non dire niente, sarebbe stato rientrare nella paura dello
scandalo. Dovevo risolvere un problema: non parlare per lui, ma non restare senza
fare niente. C'era l'obbligo di creare qualche cosa che non fosse solo una parola
sulla sua morte, ma una lotta.
("Les derniers jours", tratto dal giornale Libération, 25 Giugno
2004. Traduzione di Martina Pierini.)
Successivo
Copertina
|