Ai
confini del verso
- Poesia della migrazione in italiano -
A
cura di Mia Lecomte
Ai confini del verso. Poesia della migrazione in italiano, Firenze,
Le Lettere 2006. Postfazione e Bibliografia generale di Franca Sinopoli (autori
antologizzati: Ubax Cristina Ali Farah, Hasan Atiya al Nassar, Anahid Baklu, Mihai
Mircea Butcovan, Gregorio Carbonero, Arnold de Vos, Nader Ghazvinizadeh, Gëzim
Hajdari, Pap Khouma, Thea Laitef, Egidio Molinas Leiva, Julio Monteiro Martins,
Ndjock Ngana Yogo Ndjock, Heleno Oliveira, Lidia Amalia Palazzolo, Barbara Pumhösel,
Candelaria Romero, Barbara Serdakowski, Boidar Staniic, Spale Miro
Stevanovic).
PREFAZIONE In
Italia la nascita della cosiddetta "letteratura della migrazione", ovvero
quella prodotta dagli scrittori stranieri presenti a vario titolo nel nostro paese
che utilizzano l'italiano come lingua di espressione letteraria, si colloca intorno
all'inizio degli anni novanta, e sino a oggi si possono individuare alcune fasi
che vanno dalle prime opere sostanzialmente di testimonianza dell'esperienza dell'immigrazione,
scritte con un italiano sommario, spesso a quattro mani con autori autoctoni,
fino ai brillanti prodotti di una maturazione linguistica, contenutistica e di
generi; dal racconto autobiografico, dalla memorialistica, si è passati
al romanzo d'evasione, a racconti più sperimentali e si sta arrivando al
fantasy, al noir, alla fantascienza. Il percorso della produzione poetica è
stato più lento e accidentato, il suo sviluppo più complesso, e
a parte qualche eccezione, solo ora cominciano a delinearsi veramente dei poeti,
con una propria voce ben definita e una tenuta qualitativa. Quando si parla
di letteratura della migrazione si adotta una definizione mutuata dall'inglese,
utile per intendersi ma che in realtà è riduttiva della complessità
del fenomeno; se ne potrebbero utilizzare molte altre - letteratura di ibridazione,
globale, mondiale - ognuna ugualmente valida e ugualmente limitativa. È
molto difficile etichettare la parola condivisa che trae origine dalla migranza,
non è possibile che con definizioni trasversali e profondamente interculturali
che ancora ci appartengono poco. In qualche modo bisogna capirsi, e in passato
le definizioni sono state necessarie per proteggere questo fenomeno letterario
e permettergli di aggiudicarsi degli spazi. Oggi è soprattutto l'editoria
che deve dimenticarsi delle etichette, sia quella piccola, coraggiosa, che durante
gli anni ha comunque permesso una sorta di monitoraggio, ma anche la grande, che
è ora che si assuma le proprie responsabilità, che diventi davvero
rappresentativa della realtà culturale del nostro paese. La letteratura
della migrazione è lontana dal poter essere considerata un sottogenere,
e forse anche semplicemente un genere. Ha una sua connotazione particolare, la
migranza appunto, che accomuna tutti gli scrittori in un'identità plurale
che li rende simili e dissimili a un tempo, unici nell'alchimia ogni volta differente
che li contraddistingue. Riveste sempre più un posto di primaria importanza,
destinato a crescere mano a mano che crescerà la qualità di una
scrittura fortemente motivata eticamente, ricca di storie e sentimenti e linguisticamente
innovativa. Tanto importante che credo sia ora di smettere di ragionare per categorie
e contrapposizioni e collaborare invece a una ridefinizione dell'accoglienza.
Sia necessario cioè riconfigurare al più presto i parametri critici
con cui si è giudicata e classificata fin qui la stessa letteratura italiana,
che attraverso altre letterature innestate nella sua lingua è ora costretta
a ripensare seriamente alla propria ragion d'essere, al proprio destino. Ma deve
trattarsi di un processo assimilatorio che tenga presente comunque le differenze.
Dimenticarsi di quelle caratteristiche umane e dunque letterarie che solo la migrazione
conferisce e garantisce, è un impoverimento che perde di vista una questione
di importanza capitale che investe il futuro di tutte le letterature. E non solo.
Seppellisce un percorso evolutivo e identitario di cui diventa impossibile rintracciare
reperti. E non permette di capire dove la nostra letteratura, dopo quelle in lingua
inglese, francese, e tedesca, si sta incamminando nella sua evoluzione italofona,
lontana e libera da una motivazione postcoloniale, ma se mai frutto del nostro
recentissimo e accidentato apprendistato di "cittadini del mondo".
Per
definirsi "cittadini del mondo", certo, bisogna anzitutto intendersi
su cosa si possa ancora considerare mondo: il disco poggiato sull'acqua di Talete,
il dominio indiscusso di Roma caput, l'immagine speculare della costruzione ultraterrena
dantesca, un campo di crociate, il globo di Colombo, la materia delle prime scienze,
l'aldiqua dell'infinito leopardiano, una fucina instancabile di evoluzione e progresso,
la scacchiera per la spartizione di colonie, e schiavi, il luogo di realizzazione
di grandi utopie, l'oggetto di impero delle nuove potenze economiche... Il
mondo è oggi qualcosa dagli incerti confini spaziali e temporali, che un'immensa
massa di individui precari attraversa sospinta dal bisogno, da esigenze di tutti
i generi, soprattutto primarie, vitali, ma anche le più sofisticate, privilegiate.
Globalizzazione non è altro che il nome rassicurante che si è deciso
di dare a un fenomeno la cui portata ancora in parte si vuole ignorare, anche
se lascia inquieti, è l'etichetta con cui si è provveduto a definire
e formalizzare il processo deflagatorio in corso dell'universo conosciuto, un
modo illuminato ed evoluto, da stretta di mano fra professori universitari, per
salutare l'apocalisse. Gli scrittori, i poeti, e primi fra tutti - in quanto
a esperienza - quelli migranti, sanno di non potersi considerare cittadini di
un mondo, il loro mondo, che cessa insistentemente di essere; e ora più
che mai riconoscono come pianeta d'elezione soltanto la letteratura, e come unico
passaporto ancora valido quello che li individua e li rappresenta come "cittadini
della letteratura". La scrittura, narrativa e poetica, è un "fare",
che vuol dire soprattutto cercare di costruire il proprio luogo, la propria dimora,
un universo in qualche modo somigliante in cui trovare una ragione di esistere.
Questo è vero a maggior ragione per lo scrittore, il poeta migrante, che
ha del "fare" e del "subire" un'esperienza umana, e conseguentemente
letteraria, più diretta e circostanziata. E per questo "sa",
in maniera più reale e dolente di un qualunque autore stanziale, che i
mondi che con lui e attraverso di lui si vengono a incontrare, non sono quelli
che ha percorso e in cui si è stabilito, ma il luogo interiore della propria
invariata estraneità al mondo esterno, e quello esteriore dell'integrazione
sempre possibile e sempre contraddetta. Si tratta dello straniamento esistenziale,
lo ripeto, conosciuto da ogni scrittore, e in particolare dai poeti - quell'ostranenie
che Josif Brodskij considera imprescindibile da ogni produzione artistica in generale
- ma per il migrante sperimentato e subito anche nella più ordinaria quotidianità,
le cui conseguenze sono più consapevoli, direi paradigmatiche. Non che
la condizione di "migrante" aggiunga né tolga nulla a quella
di "scrittore". Se mai è vero il contrario, è cioè
l'accezione "scrittore" ad aggiungere o togliere qualcosa allo status
di migrante. Più chiaramente: si può essere certo migranti senza
essere scrittori - e andrebbe ricordato, per non giudicare ingenuamente e ipocritamente
tanta cattiva letteratura della migrazione - ma non si può assolutamente
essere scrittori senza essere migranti. Per questo anche il più stanziale
degli scrittori di provincia, che conosce e parla solo il proprio dialetto minoritario,
non può essere, se si tratta realmente di uno scrittore, che radicalmente
e ineluttabilmente migrante. Va riconosciuto piuttosto come un "viaggiatore
immobile". Cosa contraddistingue allora la scrittura migrante, al di là
della lingua in cui si esprime? L'identità multipla di cui è composta,
la stratificazione di destini e progetti futuri che ne guida la voce. Una formula
ogni volta differente che fa sì che in ogni momento sia altra, straniera
a se stessa, in un continuo rinnovamento della propria volatile essenza. Gli
scrittori migranti sono individualità ben distinte, ognuna espressione
di una composizione alchemica assolutamente unica e irripetibile, risultato di
una personale e composita avventura biologica e culturale, che nella differenza
accomuna storie e destini. La causa e l'effetto insieme di una deterritorializzazione
interiore ed esteriore ad un tempo, straordinariamente fertile. La
caratteristica principale che emerge da questa nuova poesia in italiano che cerchiamo
di presentare - e che ne garantisce in un certo senso la necessità, l'esistenza
come poesia - è innanzitutto l'alto grado di eticità, ancorato alla
storia, di cui si fa portatrice. Quello che subito balza agli occhi, al di
là delle differenti identità geografiche dei poeti, è la
sua "necessità": un vincolo carnale coi significati che arrivano
di conseguenza con la violenza delle esperienze reali. La sua forza deriva dalla
doppia componente della migrazione - il dolore e la speranza, viva, di rinascita
- che conferiscono appunto fisicità e potenza al bel verso. Proprio
il dolore è infatti la chiave di volta, a mio avviso, per comprendere la
sostanza etica della poesia e delle narrativa migrante, una letteratura che è
germinata dal dolore - dolore del distacco, dell'abbandono, della perdita, della
solitudine, dell'estraneità, della diversità, della lontananza...
- e si nutre consapevolmente di dolore per dare corpo a parole che del dolore
sono figlie, sorelle, alleate, gli fanno eco all'infinito nelle sue più
diverse incarnazioni. Ma il dolore è anche e soprattutto speranza, avvertibile
come vitalità rigeneratrice, energia della parola, logos dell'animale uomo,
in tutta la sua materialità sublimata. A individuare la poesia della
migrazione è ancora il dato linguistico, inteso come cardine della questione
identitaria. Accanto alla lingua egemone, se vogliamo della globalizzazione, qual
è certamente l'inglese, che sempre più sta diventando una lingua
di comunicazione basica, con una tramatura più vicina a un codice numerico
che a un alfabeto - e questo è molto grave per lo stesso inglese, che andrebbe
invece approfondito in tutta la sua complessità e ricchezza - proprio grazie
alle nuove tecnologie di comunicazione, che avvicinano mondi geograficamente e
culturalmente molto lontani, si stanno affacciando altri due territori linguistici:
quello della lingua madre, che in virtù di una maggiore circolazione delle
informazioni trova uno spazio di diffusione più ampio, e quello della cosiddetta
lingua neutra, "del cuore", una lingua scelta liberamente e "affettivamente"
per comunicare la parte più profonda di sé. È la lingua che
lo scrittore migrante trova necessariamente nelle varie tappe del proprio pellegrinaggio
migratorio e allo stesso tempo decide autonomamente di utilizzare per esprimere
il proprio universo interiore. Una lingua, dunque, di imposizione ed elezione
a un tempo. Quella di abbandonare la lingua madre è comunque sempre
una decisione molto sofferta, un taglio con il proprio passato - le proprie origini,
la propria storia personale, il proprio paese, inteso geograficamente e come spazio
interiore, di cui si rischia di impoverire il futuro letterario - che alcuni decidono
di non compiere mai. Ed è una scelta complessa, perché la padronanza
di una lingua straniera, soprattutto come scrittore, implica un lungo percorso,
con una zona di passaggio più o meno ampia che i linguisti chiamano di
"duplice incompetenza", persi tra l'eco dell'idioma famigliare che sbiadisce
ogni giorno di più e i palpiti vitali di una lingua che non si lascia possedere. Una
lingua è sostanzialmente un sistema di valori e il farla propria comporta
necessariamente una condivisione. Ci sono quindi sicuramente delle differenze
fra la letteratura che si esprime in una lingua scelta liberamente e quella in
una lingua in qualche modo imposta dalle circostanze. Il secondo caso può
riservare delle gradite sorprese, come molti "matrimoni combinati",
ma è nel primo a mio avviso che si riscontrano i risultati più intensi,
proprio per quella componente di libertà - linguistica, contenutistica,
morale - che, nel rischio, è garanzia di uno spessore, di una forza, altrimenti
irraggiungibili. Ed è questa differenza a rendere tanto importante,
nella sua unicità, il caso della letteratura della migrazione in italiano,
una lingua senza un passato coloniale tale da ricondurla al filone delle letterature
post-coloniali - con cui condivide comunque molti risultati espressivi - scelta
al di là di qualsiasi imposizione implicita o esplicita, che viene conquistata
e fatta propria con più difficoltà, più lentamente e laboriosamente,
e proprio per questo rinnovata più radicalmente. Sono modificazioni quasi
impercettibili - i primi effetti cominciano a essere avvertibili soltanto ora
- che vanno di pari passo con la padronanza spregiudicata della lingua parlata,
ma che agiscono in maniera sotterranea, corrodendo visceralmente le fondamenta
di una costruzione solo apparentemente integra, in un equilibrio di forze illusoriamente
autonomo e definitivo. È proprio una prerogativa della lingua italiana,
infatti, lingua di importanza letteraria per eccellenza, quella di essere anche
contaminata, impura, dialettale; di essere caratterizzata da una doppia spinta
conservatrice-eversiva insita nella sua storia. Da sempre c'è stata la
ricerca di una lingua unitaria, attica, ciclicamente messa in discussione, e oggi,
in una situazione di stagnamento politico e culturale, in cui l'italiano è
ridotto ad un'approssimativa contaminazione di linguaggi pubblicitari e mediatici,
in un appiattimento linguistico e letterario in cui la stessa esistenza della
poesia è messa a dura prova, proprio questa lingua della migrazione, provvidenzialmente
e naturalmente rivoluzionaria, vitale, rischia di restituirci finalmente - abortiti
molti dei tentativi autoctoni costruiti a tavolino - l'italiano nella sua vera
ricchezza, a farne finalmente cantare la poesia. Da un punto di vista strettamente
linguistico la migrazione, volontaria o necessitata, comporta un lungo percorso
attraverso tutti i sensi di una lingua, e in certi casi espatriare è proprio
il mezzo per visitare tutti gli aspetti della lingua-esistenza: quella d'accoglienza,
ma anche la madre, che viene riscoperta sulla scia della nuova consapevolezza
acquisita. È anzi il rapporto costante tra lingua madre e lingua d'uso
che garantisce la qualità della terza lingua, quella letteraria, e l'incertezza
delle parole dev'essere costantemente ancorata alla propria soggettività
umana e culturale, in una parola, poetica. È una pratica dolorosa, il cui
travaglio si stratifica in una mappatura di cicatrici, ma è proprio questo
a garantirne l'autenticità dello spessore. Quando,
nel '97, cominciai con la collaborazione di Francesco Stella a pubblicare i primi
poeti migranti della collana "Cittadini della poesia" - fino ad allora
erano uscite soltanto alcune prime antologie che contenevano promiscuamente narrativa
e poesia - se si eccettuano gli studi critici di Armando Gnisci, pioniere e principale
studioso del fenomeno, e nonostante fossero già emersi dei narratori in
grado di staccarsi dell'aspetto esclusivamente cronachistico della prime opere,
ancora non si parlava di poesia, con tutto quello che comporta. In pochi anni
si è fatta molta strada, gli scrittori, i poeti migranti stanno riconfigurando
a tutti gli effetti la struttura monolitica della nostra letteratura nazionale,
e si può parlare di un vero e proprio movimento fiorito intorno al fenomeno,
un movimento a tutti gli effetti, con le sue diatribe e le sue contraddizioni. Ed
è diventato a questo punto necessario un confronto fattivo fra scrittori
migranti e autoctoni - i viaggiatori immobili -, una collaborazione artistica
trasversale all'insegna della contaminazione e dell'eterogeneità. Indispensabile
agli uni, da un lato, per liberare la lingua della poesia italiana sfinita, autoreferenziale,
da barocchismi, ermetismi e sperimentazioni di una certa avanguardia ormai in
retroguardia, e riascoltarla davvero attraverso la voce altrui fatta propria;
e agli altri per essere accompagnati nella messa a punto dello strumento sonoro
senza rischiare un appiattimento e un impoverimento dei risultati poetici, perché
questo possa risuonare e fare eco in tutta la sua potenza, e acclimatarsi musicalmente
all'interno dell'universo comune di una parola sempre più bastarda e condivisa. I
poeti qui antologizzati sono molti di quelli che in questi anni hanno lavorato
alla ridefinizione italofona di una letteratura unica, universale, e dei valori
di cui è portatrice. La loro individualità poetica, a prescindere
dalla provenienza geografica, è il prodotto - lo si è detto - delle
loro "identità plurali", multiple, composite secondo i più
diversi dosaggi, che generano risultati tematici, e soprattutto stilistici, differenti. L'utilizzo
comune a tutti, ad esempio, del verso libero, risente profondamente della versificazione
poetica, spesso legata all'oralità, del paese di origine, ne innesta i
ritmi e le armonie nei versi italiani, creando sonorità che rieducano la
percezione metrica in senso auditivo, e non più solo matematico, visivo.
I poeti, come gli uccelli, si riconoscono dai suoni che emettono, per utilizzare
ancora un'immagine di Brodskij. E non per nulla gli antichi fecero riferimento
a Omero, alla sua "cecità", come modello assoluto, "non
visivo", di poesia. Nel caso dei poeti migranti la difficoltà è
doppia: si tratta per loro di ricreare nella lingua acquisita, in questo caso
l'italiano, le musicalità della lingua madre, l'orchestrazione generale
del proprio retroterra culturale. E poi di definire l'assolo rimodulando il proprio
respiro con la consapevolezza delle nuove sonorità, esteriori e interiori,
rapresentative del nuovo universo di cui fanno parte e di quello che in esso sono
diventati. Sono poeti che meritano di essere presi in considerazione per ciò
che individualmente e singolarmente li contraddistingue, al di là di ciò
che tutti li accomuna. Anche se quella zona della letteratura italiana che è
la poesia della migrazione continua comunque a indicare e garantire, in contro-trama,
sul rovescio, le caratteristiche peculiari, di genere, di cui abbiamo finora parlato.
Si tratta insomma di dare volume alle singole voci non perdendo d'ascolto l'armonia
di insieme del corale, di apprezzare ogni singolo suono con l'orecchio alle possibilità
combinatorie che arricchiscono la simmetria musicale globale. La scrittrice
somala Ubax Cristina Ali Farah, nata nel 1976, è vissuta a Mogadiscio fino
al 1991, quando è scappata in Ungheria, e poi in Italia, a causa della
guerra civile scoppiata nel suo paese. Autrice di narrativa e di poesia, i suoi
testi, spesso di genere ibrido, risentono fortemente della tradizione orale africana
e brasiliana, letteratura quest'ultima che ha costituito l'humus della sua formazione
universitaria. "Avevo delle idee che mi perseguitavano per mesi - è
lei stessa a chiarire - finché non riuscivo a metterle su carta. Per questo
alcuni testi sono così embrionali, quasi non esplosi. Testi a cavallo tra
la prosa e la poesia, non meglio definibili. Per le tematiche e le modalità
espositive mi hanno molto condizionata i libretti di letteratura di cordel brasiliana
su cui ho fatto la mia tesi di laurea e di cui mi sono subito invaghita, insieme
alle poesie orali somale che tanto spesso venivano recitate durante i matrimoni
e le feste in generale. Desideravo fondere tra loro le voci che ascoltavo e cercare
di renderle in un componimento che conservasse in qualche modo quell'aura misteriosa
che mi sembravano emanare i componimenti poetici popolari. Questo era anche un
tentativo di legittimare il mio ruolo. All'inizio infatti quello di scrivere mi
sembrava un atto di presunzione. Speravo che, ricalcando i passi dei poeti anonimi,
avrei in qualche modo cancellato ogni traccia di narcisismo. Come conciliare però
il desiderio di anonimato e di oralità con la realtà cittadina in
cui ci troviamo inseriti?". Hasan Atiya al Nassar è nato nel 1954
a Dicar, in Iraq. Rifugiato politico in Italia dal 1983, si è laureato
in Storia dei Paesi Islamici presso l'Università di Firenze, città
dove vive, ed è parte attiva nel collegamento fra la cultura italiana e
quella del suo paese occupandosi di recensire la poesia araba sulle pagine del
semestrale di poesia comparata "Semicerchio", e scrivendo su varie riviste
arabe pubblicate in Siria, in Libano, a Londra. La sua è una poesia che
si distende nell'ampiezza del dire orientale, in lunghe composizioni ricche di
immagini dilatate nutrite da un dolore espanso, che si accende nella presenza
costante e reiterata di infuocate epifanie: "Questa è la spiga della
terra,/ questo è l'eterno che lieto dorme/ e tu non somigli a nessun uccello:/
tu non sai volare,/ tu sei le città che latrano feroci/ tu sei l'infinito
sul limitare della morte./ Stai seguendo il grano senza ali/ dal marciapiede all'esilio/
dal paradiso al fuoco/ o dal fuoco al fuoco...". In questa sorta di poemetti
Al Nassar interpreta con una matura forza elegiaca, una visionarietà incantata,
la poetica più autentica dell'esilio. È iraniana Anahid Baklu,
e nel suo paese ha cominciato a pubblicare giovanissima, con grande apprezzamento
della critica. Per anni in esilio politico, ha ripreso da poco a vivere tra Roma,
Teheran e Dubai, nutrendo la sua poesia del confronto-incontro tematico e linguistico
tra immaginari speculari. Nei suoi versi, inequivocabilmente femminili, l'eleganza
di una tradizione antichissima, assimilata con rigore e profondità, si
scioglie in una liricità tersa, netta, la luce dell'orizzonte romano a
illuminare di taglio una velata sensualità: "Io dalle tue labbra sfumate
di petunia/ ho cantato l'improvvisarsi del giardino./ Avevo gli occhi negli occhi
del vino per poterti bere./ Il calice misurato della mia età/ è
il taglio amaro di un amore ribelle./ Che sia una lunga primavera/ la tua anima
rosa accanto a me". Quella di "Osservatore Romeno" è
l'attività principale che Mihai Mircea Butcovan, nato a Oradea, in Transilvania,
nel 1969, dice di esercitare in Italia, dove vive dal 1991. È frutto della
sua osservazione lucidamente poetica sono il surreale racconto del romanzo Allunaggio
di un poeta innamorato, e le poesie della raccolta inedita Dal comunismo
al consumismo. In ambedue è evidente una vena umoristica stralunata
e inquietante, a capovolgere con leggerezza il forte sostrato politico e sociale
delle sue parole di impegno e denuncia: "Così mi stai pregando ora/
Calvario che si colora/ E tutte le stazioni/ Per divenire buoni/ Inchiodi la prigione/
Delle parole buone/ E dici che non sanno/ Quello che dicono e fanno/ Perdonali
se vuoi/ Ma sono fatti tuoi". Parole, le sue, dedicate ai deboli della terra,
che si consolano pensando che "...quando maturerà il paradicsom, diventerà
tutto rosso!". Gregorio Carbonero, oboista, è figlio di emigrati
italiani in Venezuela. La sua esperienza famigliare e personale della migrazione
è quella di "un crollo, un improvviso svuotamento, un'interruzione.
L'emergere di una coscienza separata che chiede di spiegarsi-spiegare la propria
vita". E allora i racconti, personali e famigliari, della sua poesia narrativa,
di grandissima musicalità, che si dipana nelle andate e ritorni, nelle
ripetizioni, nelle volute armoniche in cui, nella trama del ricordo, si dispongono
indifferentemente parole e note: "La tessitura sensibile del ricordo più
che i fatti concreti, più che i dettagli, che possono essere presunti,
inventati o falsati dalla memoria. È una trama che emerge di traverso,
in controtempo, solo come suggestione equivoca, dalle parole, dal ritmo, o dal
tono. Si può anche mentire ma la verità, o qualcosa di simile, verrà
a galla. L'esperienza diretta e sempre unica e rimanda a un'idea-motivo non svelati,
anteriori, inesorabili e determinanti per l'esistenza individuale, a qualcosa
che abbiamo da dire da sempre, forse da ridire, abbiamo sempre da ridire nel nostro
più intimo. Ridire è una sorta di mugugnare dell'anima". Arnold
de Vos, nato in Olanda agli albori della Seconda Guerra mondiale, vive a Trento,
dopo innumerevoli trascorsi in altri paesi per studi legati all'archeologia, e
molti anni nella Roma letteraria del settanta. Poeta in più lingue - olandese,
inglese, francese - oltre all'italiano, de Vos trova nella poesia una forma di
riparazione e riparo dai mali del mondo. Suggestionato dal flagello della bellezza
di uomini e cose, la poesia gli estorce però, come sotto tortura, confessioni
che si prestano a essere male interpretate, causando altre lacerazioni. Il rapporto
virtualmente conflittuale con il lettore fa sì che de Vos si rifugi spesso
in epoche e culture remote, nelle quali i poeti si facevano carico degli stessi
problemi a lui congeniali: il rapporto omoerotico, la trasposizione della tensione
bipolare nel rapporto uomo-Dio: "Alzi gli occhi/ e li butti ai piedi del
cielo/ impaginato dalla creazione/ per i tipi di Dio,/ letto da tutti/ con o senza
scolarizzazione". Particolarmente affascinato dalla poesia sufi di stampo
arabo-persiano, ha acquisito una cultura del mondo mediorientale tramite lo studio
delle disquisizioni di Annemarie Schimmel, raffinata islamologa recentemente scomparsa.
Gli anni passati in Tunisia hanno contribuito all'arricchimento dell'orizzonte
culturale di questo poeta celebrativo della povertà in tutte le sue forme,
esperita come unica via di sublimazione del male personale e del mondo. La
prima parola pronunciata da Nader Ghazvinizadeh è stata una parola persiana,
il che, a suo dire, rende "il farsi la mia lingua madre". Agli inizi
degli anni ottanta, nel corso di una vacanza con la famiglia in Italia, lo scoppio
della rivoluzione e poi la guerra li costringono a prolungare il soggiorno, che
diverrà definitivo. I primi anni sono ancora segnati da incontri con i
connazionali e pranzi a base di khorm' e sabzi. Ma poi l'integrazione
è completa e di tutto questo nella poesia di Ghazvinizadeh non si trova
traccia. Ci sono invece la provincia emiliana e romagnola in tutti gli aspetti,
lungo le stagioni, terre di pioppi, d'acque dolci e salate, mare e fiumi, canali.
I bar sport da briscola e tressette, le trattorie - e anche la madre gestirà
la propria, "da Assunta" - i circoli, le bische, le latterie. Campi
di calcio, di bocce, biliardi, gare ciclistiche, zanzare, e noia. Moka, vino,
ammazzacaffè e canzoni. Concerti e cabaret. E il cinema, di cui Ghazvinizadeh
è cultore e sceneggiatore. Un'Italia pigra e sorniona, e anche un po' demodé,
in cui il poeta è beatamente immerso, con un autocompiacimento in bianco
e nero, che di per sé è anche un filtro, una forma forte di straniamento:
"Quanto a me stesso, sono riconoscibile direi in diagonale: 'Io sono al bar
che gioco a carte con le vecchie glorie', 'Vado al supermercato ma non ho voglia
di niente'". Gëzim Hajdari è stato uno dei primi poeti migranti
a maturare una produzione poetica di alto livello. Albanese, esule politico dal
1992, nel 1996 ha vinto il Premio Montale con la raccolta inedita Corpo presente
ed è ora considerato uno dei maggiori poeti in lingua italiana della sua
generazione. Le sue poesie sono tradotte in greco e in inglese, e lui stesso si
traduce in albanese, ritrovando ogni volta nel dolore della riconversione di sé
la propria anima scissa ed esponenzialmente rinnovata. Ricorrono nella sua poetica
la solitudine (come condizione esistenziale quasi catartica), il viaggio (come
esule ma anche come animale uomo) ed elementi naturali come la pietra, la terra,
il cielo, legati alla sua origine balcanica, all'aridità di un paesaggio
naturale e umano in disfacimento, e a una più universale condizione di
poeta malgrado tutto, alla ricerca di una propria dimora che lo riscatti dall'esilio
storico ed esistenziale, e lo confermi nella certezza che di tutto rimane solo
l'atto poetico come impegno di fronte a se stesso al mondo, la certezza di una
vocazione che si fa sacerdozio: "Procedo nel verde consumato/ e non porto
niente oltre il mio corpo. // Non lascerò niente!". Con il romanzo
Io venditore di elefanti, scritto a quattro mani con il giornalista Oreste
Pivetta, agli inizi degli anni novanta Pap Khouma ha in un certo senso inaugurato,
con pochi altri autori, il capitolo della letteratura della migrazione italofona.
Pubblicato da una casa editrice importante come la Garzanti, il romanzo ha avuto
larga eco e ha aperto un dibattito di cui la cultura dominante non è stata
all'altezza di valutare l'importanza, evolvendolo in categorie estranee e più
ampie di quelle legate al tema immigrazione, né di inquadrarlo secondo
parametri letterari. In poco tempo si è sciolta così l'alleanza
tra questa neonata letteratura italofona e le case editrici nazionali con i mezzi
per diffonderla. Pap Khouma ha continuato comunque la sua carriera di giornalista
e scrittore, dedicandosi più occasionalmente anche alla poesia, con testi
di impegno sociale e politico, fedele alla tradizione tipicamente africana. In
conflitto con la società italiana tanto provinciale e razzista, in cui
i diritti più basilari risultano così difficili da conquistare,
una società che, in luogo del rispetto e della considerazione dovuti, può
offrire al massimo una vaga e offensiva solidarietà verso gli esclusi,
che tali devono rimanere, mantenendo senza pretese la propria posizione di inferiorità;
o addirittura con l'intera crudele civiltà occidentale della Ballata assurda,
sporca e ingiusta, delle periferie urbane, dei centri sociali, delle stazioni,
dei viali della prostituzione, che tradisce il suo passato glorioso di culla della
cultura europea, e le aspettative di chi vi è giunto credendo di trovarvi
ancora qualche vestigia di umanesimo. Scrittore iracheno in esilio a Roma,
dov'è morto quarantenne, Thea Laitef nel nostro paese ha partecipato a
varie pubbliche letture e a manifestazioni di poesia, ha scritto di cultura araba
su "Linea d'Ombra" e "Il Manifesto", e tradotto Cesare Pavese
ma soprattutto Pier Paolo Pasolini, poeta molto amato di cui riconosceva una forte
eredità spirituale. Motivo conduttore delle sue poesie, così come
del romanzo Lontano da Baghdad, è quello del "viaggio iniziatico",
che si confonde fatalmente con quello dell'esilio, un percorso che si lascia alle
spalle gli ideali, ormai vagheggiati in una sorta di delirio lirico, dell'internazionalismo
e del socialismo: "Mi univano coi loro timori/ le dita della mia mano./...
/ si disperavano, si disperavano.../ non tratterranno l'acqua/tra le fessure".
Nella sua poesia colta Laitef, che qualcuno ha definito il "Kavafis iracheno",
fonde le raffinatezze stilistiche della tradizione orientale con le evoluzioni
più tarde della cultura europea, il verde islamico già cantato da
Lorca - altra voce di riferimento - con il rosso acceso di una Roma "lontana/
e più vicina al cuore", perché il "verde/ al rosso s'afflua". Profugo
politico paraguayano, in Italia da più di vent'anni, Egidio Molinas Leiva
si definisce "un raccontatore di storie da focolare, un narratore che raccoglie
tutta la tradizione della lingua orale guarany, fortemente onomatopeica, e cerca
di trasmetterla per iscritto" piegando concettualmente l'italiano, lingua
dell'industrializzazione, incontrata forzatamente a trentasette anni. Alla sua
narrativa fabulatoria e colorata di umanità, fa però da controcanto
una poesia segnata indelebilmente dall'esperienza della prigione e delle torture
subite nel proprio paese, dove il dolore è protagonista assoluto, voce
narrante e soggetto di narrazione, senza più indulgenza né possibilità
di redenzione: "Alle due del pomeriggio/ mi vennero a cercare./ Alle due
del pomeriggio./ Dopo// il resto// e quel che è rimasto". Julio
Monteiro Martins è nato a Niterói, in Brasile, nel 1955, ed è
giunto in Italia dopo un percorso esistenziale che lo ha portato a risiedere in
molte parti del mondo fra cui la Francia, gli Stati Uniti, il Giappone, il Portogallo.
Autore molto fertile, con numerose pubblicazioni al suo attivo in Brasile e in
Italia, a Lucca, dove vive, ha fondato "Sagarana", un'importante scuola
di scrittura creativa con una propria rivista letteraria elettronica. Il suo nome
è legato soprattutto alla narrativa ma la sua produzione poetica, anche
se quantitativamente inferiore, ha comunque un posto di primaria importanza nel
suo universo letterario. Fortemente impregnata della poesia nordamericana - Monteiro
Martins ha iniziato a insegnare scrittura creativa all'Università di Iowa
alla fine degli anni settanta - risente però delle molteplici influenze
che hanno segnato il suo percorso culturale migrante, come racconta lui stesso:
"Sono sempre stato un voracissimo lettore di poesia, prima di tutto di quella
in lingua inglese, declamata a voce alta da mia madre mentre studiava per le lezioni
che doveva impartire presso la cattedra di Letteratura nordamericana all'Università
di Rio. Poi, nella prima adolescenza, ci sono stati i grandi poeti brasiliani,
poi i portoghesi e, subito dopo, gli ispanoamericani. Erano gli anni più
severi della dittatura militare in Brasile, ma anche i più fertili, i più
'epici', quelli della musica popolare brasiliana, che con le cosiddette 'canzoni
di protesta' è diventata senz'altro parte della nostra formazione poetica.
Solo più tardi entrarono con più vigore i francesi, gli italiani,
i tedeschi, i russi, gli inglesi. La letteratura brasiliana è accomunata
all'italiana dal sentimento mediterraneo (diceva Blaise Cendras che il Mediterraneo
comincia in Turchia e finisce a Rio de Janeiro), dall'eredità greco-romana,
da un'attenzione privilegiata ai piaceri della carne, letto o fornello, e dalla
lingua latina, che sorprendentemente per tanti versi è rimasta più
intatta nel portoghese che nell'italiano, isolata in quella propaggine atlantica
dell'Europa per venti secoli". Ngock Ngana Yogo Ndjock proviene da una
famiglia contadina impegnata politicamente nella lotta per l'indipendenza del
Camerun. E nato nel 1952 a Ilanga, dove ha iniziato a scrivere le prime poesie
di denuncia, e ora vive a Roma. Il rapporto di questo poeta con l'Italia è
tutto espresso nei versi: "È autunno/ una stagione ignota!":
un senso di spaesamento e di esclusione che sul piano pratico l'ha spronato a
un impegno costante nel campo dell'integrazione e del sociale, e ha riconfermato
la sua poesia come uno strumento di intervento politico, come ben dimostra lo
sguardo di "Maghidà" , qui antologizzata. La produzione poetica
degli afro-italiani - e ci riferiamo in particolare a quella di autori provenienti
da Camerun, Nigeria, Somalia, Senegal, Etiopia e Eritrea, i paesi del continente
africano che più degli altri ci regalano poeti che scelgono di esprimersi
nella nostra lingua - è contraddistinta dalla scelta di tematiche precise,
espresse con un atteggiamento psicologico, e di conseguenza stilistico, pressoché
uniforme. Fondamentale è il peso della storia della colonizzazione nella
coscienza del popolo africano, e in particolare degli artisti, che si fanno interpreti
del disagio, del dolore delle sopraffazioni, delle mutilazioni, per ricordare
con forza ciò che è stato sottratto, negato, umiliato, e rivendicare
i propri diritti, nel passato e nel presente, la dignità di un popolo e
di una cultura. Il riscatto deve avvenire qui, adesso, non può essere più
rimandato, e la letteratura, la poesia, sono strumenti per ottenerlo. I risultati
poeticamente più efficaci, all'interno di questa radicata conflittualità
culturale, si ottengono dove i poeti ritrovano il loro equilibrio in quell'interscambio
paritario fra le due anime a confronto, che permette finalmente l'interiorizzazione
di una lingua fatta propria, con tutto ciò che comporta. Quando il fiume
di Ngock Ngana riesce davvero a fare scorrere "l'acqua nei due sensi" "La
poesia di Heleno è un mondo nello stesso tempo uno e molteplice. È
contemporaneamente un cammino e il diario di quel cammino" scriveva la poetessa
portoghese Sophia de Mello Breyner Andresen a proposito di Heleno Oliveira. Nato
nel 1942 nel nord-Est del Brasile, l'itinerario poetico-biografico di Oliveira
è segnato principalmente da due eventi: la sua entrata nel movimento dei
Focolari nel 1959, e il trasferimento nel 1983 a Firenze, città dove scrisse
per un decennio in italiano, e che lasciò per Lisbona, dove morì
nel 1995. Si tratta dunque di un poeta cattolico, ma nel senso tutto brasiliano
di un cattolicesimo militante fondato su una condizione caratterizzata dalla povertà,
dalla solitudine, dall'esilio, una posizione di resistenza al consumismo, al pensiero
unico imperante e omologante; e dunque la densità e la complessità
dei risultati espressivi, anche in senso formale e linguistico, della sua anima
migrante vengono a caricarsi di una forte valenza spirituale, chiara nelle parole
di Ugo di San Vittore che Oliveira amava citare: "L'uomo che trova dolce
la sua patria non è che un tenero principiante, colui per il quale ogni
terra è come la propria è già un uomo forte; ma solo è
perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un paese straniero". "Sarà
poeta? Dio non lo voglia...". Con la frase di un amico in attesa della nascita
del figlio, così si presenta Lidia Amalia Palazzolo, nata a Buenos Aires,
da quindici anni in Italia, e residente da tempo a Coredo, in Val di Non. "Poeta
per destino, antropologa per sopravvivere", girando il mondo ha pubblicato
in numerose riviste e antologie il suo universo multiforme di scrittrice transumante.
Scrivere è per lei un modo di dare nome alle cose: "Di qua/ a sinistra?/
un destino/ sfuggevole/ ramingo/ solcato di parole/ da inventare/ Di qua/ le ombre/
minacciose/ dell'idioma perduto/ Di qua/ un buio/ accecante e muto/ Di là
(a destra?)/ i cani che abbaiano/ in solitudine." Così come il poeta
è "uno smemorato che nomina ogni volta perché ogni volta dimentica.
E forse il destino finale dei poeti è proprio il silenzio". "I
ricordi più belli della mia infanzia sono legati più ai luoghi e
ai libri che alle persone. Vivevo in una fattoria nella zona delle prealpi, tra
il Danubio e le prime montagne veramente alte. C'è un fiume freddissimo
e pulito (ancora oggi) che viene dalle montagne, e ricordo una zattera e il tentativo
di navigare conclusosi con un naufragio quasi immediato" racconta l'austriaca
Barbara Pumhüsel, che a Bagno a Ripoli, dove vive, lavora a stretto contatto
con i ragazzi delle scuole. E prosegue, in un'autopresentazione criticamente consapevole:
"La mia storia legata alla poesia è soprattutto una storia di letture.
Ho sempre letto tantissime poesie, e contrariamente alla maggior parte dei miei
amici, imparavo a memoria con passione quelle che mi piacevano. Mi sembrava, in
questo modo, di appropriarmi dei versi, di salvarli. Amo l'eco, quello che in
poesia si manifesta a volte anche quando si legge soltanto con gli occhi. L'eco
che per un attimo crea nella mente quei giochi di oscillazioni dai colori dell'iride,
l'eco che ne richiama altri all'interno della stessa poesia e di altre lette in
passato, magari scritte in lingue, epoche e luoghi diversi. Amo passaggi sotterranei
e i collegamenti invisibili nell'aria tra la parola poetica e quella di altri
linguaggi come la musica o la matematica. Ammiro chi scrive un diario, senza esserci
mai riuscita. Quando ho provato, talvolta, ho sentito la necessità di tagliare,
subito dopo, e di tagliare ancora, fino a che non rimaneva che un attimo, un'immagine.
Così la mia poesia è diventata diario, documentazione, album di
momenti, vissuti e elaborati, di autoscatti mentali e di sguardi sul mondo. Mi
piace il surreale, il paradosso, l'elemento comico, lo sguardo obliquo e la risata,
quella che non attenua il dolore, ma lo evidenzia". È "figlia
d'arte" Candelaria Romero, nata a Buenos Aires nel 1973 da due genitori scrittori,
poi esuli politici con la famiglia in Svezia. E in un clima di riviste e dibattiti
letterari interculturali è cresciuta la sua passione per la letteratura,
il teatro in particolare, che tuttora, dopo il trasferimento a Bergamo nel 1992,
esercita come attrice e autrice in italiano. Nelle sue poesie si entra come nella
casa dell'infanzia, abitata quotidianamente da parole poeticamente famigliari:
"Tutto l'inferno sembra così piccolo qua./ Fiamme si consumano come
lingue amorose./ Teglie di burro, odori, mani calde./ Il cibo in mezzo a noi e
la parola si forma come una ricetta trasformata in mangime./ Qua cerchiamo solo
di passarla bene, mangiare bene e respirare vera e buona aria". E ritratti
di famiglia in un interno sono i quadri in cui si dispongono i sue versi, tra
faccende esistenzialmente domestiche, amplessi coniugali, bambini, e la voce tanto
amata, riferimento costante di vita e poesia, dei genitori. Barbara Serdakowski
è nata in Polonia e ha trascorso l'infanzia in Marocco. È emigrata
in Canada, e poi ha risieduto più o meno a lungo in più parti del
mondo. Da sette anni vive a Firenze con il marito, artista venezuelano. La sua
identità linguistica è frantumata nelle molte lingue delle sue tappe
biografico-culturali: il polacco, il francese, l'inglese, lo spagnolo, e infine,
dal 1999, l'italiano. Da qui la nascita di una poesia parallelamente multilingue
e plurifocata, che lei spiega così: "La mia poesia si deve alimentare
della lingua in cui vive. Fino al 1986 scrivevo in varie lingue e poi traducevo
tutto in una sola, generalmente il francese. A un certo punto ho deciso di smettere,
mi sono ribellata. Ora nascono poesie in due, tre, quattro, cinque lingue a seconda
dell'ispirazione, che contengono come inserti frasi che completavano la lingua
di arrivo, come una sorta di filo conduttore. Uno degli obiettivi è quello
di non disfarmi delle mie parole. Facendo penetrare la mia traduzione all'interno
della poesia, quest'ultima rimarrà sempre, anche se in forma decorativa.
La mia poesia è come la mia vita fino a oggi, mobile, e può essere
penetrata da qualsiasi altra lingua. La mia poesia rimane aperta alla contaminazione,
parola che include degli aspetti che non condivido, una parola d'amore e d'odio,
ma la contaminazione con tutte le altre lingue è proprio quello che cerco". Quello
di Bozidar Stanisic', nato nel 1956 a Visoko, in Bosnia, e trasferitosi in Friuli
nel '91, è un caso un po' particolare, a se stante, in questo universo
poetico. È l'unico autore infatti che nel suo iter di maturazione linguistica
di narratore e poeta si è fatto accompagnare negli anni da una traduttrice-editor,
la bravissima Alice Parmeggiani. La sua reticenza verso una forma acquisita, anche
se liberamente scelta, è una promessa di fedeltà a quello che definisce
il suo "yiddish: il serbo-croato in via di estinzione ufficiale", e
anche la misura della sua onestà intellettuale, della necessità
di testimoniare con limpidezza le tappe di un'evoluzione tuttora in corso. È
la stessa reticenza che gli fa definire le sue composizioni come "odi di
forma impura", o più in generale "non-poesie" - "un
non-poeta non può scrivere che non-poesie, niente di più di questo"
-, una modestia che ben si adatta all'assolutamente non modesto valore delle sue
creazioni narrative e poetiche. Decisamente nuova è infatti la forma di
poemetto elegiaco, spesso incentrato su una sola situazione, o personaggio, in
cui si presentano i suoi versi lunghissimi, intessuti di citazioni dotte e discorsività
colloquiali, con neologismi e impennate di straordinaria intensità poetica.
Costantemente sotto il controllo di uno sguardo mite e autoironico che riserva
al mondo una pietas caustica e addolorata. Spale Miro Stevanovic' è
soprattutto narratore, con tre romanzi al suo attivo. Nato in Bosnia nel 1965,
laureato in inglese e tedesco all'Università di Belgrado, ha studiato storia
del teatro a Berlino e ora vive e lavora a Venezia. La sua scrittura poetica è
il risultato di una profonda sintesi con la sua anima prosastica, e Stevanovic'
si rivolge a una narratività duttile, forte e insieme misurata, per esprimere
con originalità il tema dell'amore in un linguaggio scevro da ogni letterarietà,
senza reticenze né pudori: "A me andrebbe un caffè// con Peggy
Guggenheim./ Peggy.// Mi sono toccato fino a poco fa/ penetravo il letto./ Tu
non hai il coraggio di scopare/ con me./ Ti blocca qualcosa.// Ci vuole il cervello
per scopare.// Il mondo è fatto dai criminali rosa/ cantanti e sarti./
Nessuno pesa, nessuno è leggero.// Ma i santi, ma i rivoluzionari?". Mia
Lecomte
(Tratta
dall'antologia Ai confini del verso, Le Lettere editrice, Firenze, 2006.)
Mia Lecomte è nata Milano nel 1966 e vive a Roma. Laureata presso la Facoltà
di Lettere dell'Università di Firenze con indirizzo Letterature Comparate, svolge
attività critica nell'ambito della comparatistica, e in particolare della letteratura
della migrazione: dirige la collana Cittadini della poesia di Zone Editrice
(Roma), dedicata alla poesia della migrazione italofona, è curatrice dell'antologia
Ai confini dei verso. Poesia della migrazione in italiano (Firenze 2006)
e con Luigi Bonaffini di A New Map: The Poetry of Migrant Writers in Italy
(Los Angeles 2006), e ha tenuto conferenze sull'argomento in Università italiane
e straniere, come la State University of New York, e negli Istituti di cultura
italiana di New York e S.Paulo (settimana della lingua, ottobre 2004). È autrice
di numerosi lavori teatrali, e ha pubblicato: il saggio Animali parlanti. Le
parole degli animali nella letteratura del Cinquecento e del Seicento (Firenze
1995); i libri per bambini La fiaba infinita e La fiaba impossibile
(Torino 1987), Tiritiritère (Bergamo 2001); il volume fotografico Luoghi
poetici (Firenze 1996), realizzato con il fotografo Sebastian Cortés; e le
raccolte poetiche Poesie (Napoli 1991), Geometrie reversibili (Salerno
1996), Litania del perduto (Prato 2002, testo a fronte in inglese. Con
incisioni dell'artista canadese Erica Shuttleworth), Autobiografie non vissute
(Lecce 2004). Le sue poesie sono state pubblicate in raccolte antologiche e riviste
straniere e italiane, fra cui "Poesia", "Pagine", "Semicerchio", "Specchio", "L'Area
di Broca", "Le Voci della Luna". È redattrice del semestrale di poesia comparata
"Semicerchio", del quadrimestrale di poesia internazionale "Pagine", delle riviste
letterarie on-line "Kùmà", "El Ghibli" e "Sagarana". Collabora a "Le Monde Diplomatique",
inserto mensile del quotidiano "Il Manifesto".
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