Tre racconti
Julio
Ramón Ribeiro
Gli
avvoltoi senza piume Alle
sei del mattino la città si alza in punta dei piedi e comincia a muovere
i primi passi. Una nebbia sottile dissolve il contorno degli oggetti e crea come
un'atmosfera incantata. Le persone che attraversano la città a quest'ora
sembrano esser fatte di un'altra sostanza e appartenere a un ordine biologico
spettrale. Le beghine si trascinano faticosamente fino ai portali delle chiese
che le inghiottono. I nottambuli, macerati dalla notte, tornano a casa avvolti
nelle sciarpe e nella loro malinconia. Gli spazzini cominciano lungo la avenida
Pardo la loro lugubre passeggiata, armati di scope e di carretti. A quest'ora
si vedono anche operai dirigersi al tram, poliziotti che sbadigliano contro gli
alberi, strilloni illividiti dal freddo, cameriere che mettono fuori i bidoni
della spazzatura. A quest'ora, infine, come per un misterioso accordo, compaiono
gli avvoltoi senza piume.
A quest'ora il vecchio don Santos si mette la gamba
di legno, seduto sul pagliericcio, e comincia a sbraitare:
- Alzatevi! Efrain,
Enrique! È ora.
I due ragazzi corrono al rigagnolo del cortile stropicciandosi
gli occhi cisposi. Con la tranquillità della notte l'acqua ristagna e sul
fondo trasparente si vedono crescere erbe e sguisciare agili infusori. Dopo una
sciacquata di faccia afferra ognuno la sua latta e s'avventano in strada. Don
Santos, nel frattempo, si avvicina al porcile e col lungo bastone saggia il dorso
del porco che si rivoltola nel brago.
- Ti ci vuole ancora un po', maiale!
Ma aspetta che arriverà il tuo turno.
Efrain ed Enrique si soffermano
lungo il percorso ad arrampicarsi sui gelsi per strappar more e raccogliere pietre
di quelle affilate che fendono l'aria e feriscono di dorso. È ancora l'ora
celeste quando arrivano nel loro dominio, una lunga strada costeggiata di ville
eleganti che sbocca sul lungomare.
Non sono gli unici. In altri cortili, in
altri sobborghi qualcuno ha dato la sveglia e si sono alzati in molti. Chi porta
delle latte, chi degli scatoloni di cartone, a volte basta un giornale vecchio.
Senza conoscersi formano una specie di organizzazione clandestina che si è
suddivisa l'intera città. Alcuni perlustrano gli edifici pubblici, altri
hanno scelto i parchi o gli scarichi d'immondizie. Perfino i cani hanno assunto
le loro abitudini, i loro itinerari, addestrati dalla perspicace miseria.
Efrain
ed Enrique, dopo un breve riposo, iniziano il lavoro. Ognuno sceglie un marciapiedi
della strada. I bidoni della spazzatura sono allineati davanti alle porte. Bisogna
vuotarli completamente e poi cominciare la ricerca. Un bidone è sempre
uno scrigno di sorprese. Si trovano scatolette di sardine, scarpe vecchie, pezzi
di pane, pappagalli morti, immondi batuffoli di ovatta. A loro interessano solo
gli avanzi. Nel porcile, Pascual, accetta qualsiasi cosa e predilige la verdura
un po' guasta. La piccola latta che ognuno di loro porta si va riempiendo di pomodori
marci, di ritagli di grasso, di strane salse che nessun libro di cucina contempla.
Non è raro, comunque, fare una scoperta preziosa. Un giorno Efrain trovò
delle bretelle con le quali si fabbricò una fionda. Un'altra volta una
pera quasi intatta che divorò all'istante. Enrique, invece, ha fortuna
con le scatolette di medicine, con le boccette di vetro, con gli spazzolini da
denti usati e altri oggetti simili che colleziona avidamente.
Dopo una selezione
rigorosa rimettono la spazzatura nel bidone e si lanciano sul seguente. Conviene
fare alla svelta perché il nemico è in agguato. A volte sono sorpresi
dalle cameriere e devono scappare lasciando in terra sparso il bottino. Ma piú
spesso è l'automezzo della Nettezza Urbana ad apparire e allora la giornata
è persa.
Quando il sole spunta dalle colline, l'ora celeste svanisce.
La nebbia si è dissolta, le beghine sono in piena estasi, i nottambuli
dormono, gli strilloni hanno distribuito i giornali, gli operai si arrampicano
sulle impalcature. La luce dilegua il mondo magico dell'alba. Gli avvoltoi senza
piume sono tornati al nido.
Don
Santos li aspettava col caffè pronto.
- Vediamo cosa mi avete portato.
Annusava
le latte e se il bottino era buono faceva sempre lo stesso commento:
- Pascual
oggi banchetta.
Ma il piú delle volte esplodeva:
- Imbecilli! Cosa
avete fatto oggi? Ci scommetto che vi siete messi a giocare. Pascual morirà
di fame!
Scappavano verso il pergolato con le orecchie in fiamme per le strizzate,
mentre il vecchio si trascinava fino al porcile. Dal fondo del fossato il maiale
cominciava a grugnire. Don Santos gli buttava il mangiare.
- Povero Pascual!
Oggi farai la fame per colpa di questi farabutti. Loro non ti coccolano come me.
Ma gliele darò, così imparano.
All'inizio
dell'inverno il maiale era diventato una specie di mostro insaziabile. Tutto gli
sembrava poco e don Santos si vendicava coi nipoti per la fame della bestia. Li
obbligava ad alzarsi prima, a sconfinare in zone altrui alla ricerca di piú
grossi bottini. Alla fine li costrinse ad andare allo scarico d'immondizie che
stava in riva al mare.
- Li troverete piú roba. E poi sarà piú
facile perché sta tutto insieme.
Una domenica, Efrain ed Enrique arrivarono
alla scarpata. Gli automezzi della Nettezza Urbana, seguendo una pista di terra
battuta, scaricavano la spazzatura lungo un dirupo di pietre. Visto dal lungomare,
lo scarico formava una specie di gola oscura e fumante dove gli avvoltoi e i cani
si muovevano come formiche. Da lontano i ragazzi tirarono pietre per spaventare
i nemici. Un cane si allontanò abbaiando. Quando furono vicini sentirono
un odore nauseabondo penetrargli i polmoni. I piedi sprofondavano in uno strato
di piume, di escrementi, di materie putride o bruciate. Affondando le mani, cominciarono
a setacciare. A volte sotto un giornale giallastro scoprivano una carogna semidivorata.
Dalle scarpate vicine gli avvoltoi spiavano impazienti e alcuni si avvicinavano
saltellando di pietra in pietra come se volessero accerchiarli. Efrain gridava
per spaventarli e le sue grida riecheggiavano nell'anfratto facendo staccare sassi
che rotolavano fino al mare. Dopo un'ora di lavoro ritornarono a casa coi secchi
pieni.
- Bravi! - esclamò don Santos. - Dovrete tornarci due o tre volte
la settimana.
Da allora il mercoledí e la domenica Efrain ed Enrique
trotterellavano fino allo scarico e gli avvoltoi, abituati alla loro presenza,
gli lavoravano accanto, gracchiando, svolazzando, scavando coi becchi gialli,
come se volessero aiutarli a scoprire la vena della preziosa immondizia.
Fu
al ritorno da una di queste scorribande che Efrain senti un dolore sotto la pianta
del piede. Un vetro gli aveva fatto una piccola ferita. Il giorno dopo aveva il
piede gonfio, ma continuò a lavorare. Quando tornarono non poteva quasi
camminare, ma don Santos non se ne accorse perché aveva visite. In compagnia
di un grassone con le mani macchiate di sangue, era intento a osservare il porcile.
-
Verrò tra venti trenta giorni, - diceva l'uomo. - Per quella data credo
che sarà a buon punto.
Quando se ne andò don Santos sprizzava
fuoco dagli occhi.
- Al lavoro! Al lavoro! D'ora in poi la razione di Pascual
va aumentata. L'affare promette bene.
Il mattino dopo, però, quando
don Santos svegliò i nipoti, Efrain non ce la fece ad alzarsi.
- Ha
una ferita al piede, - spiegò Enrique. - Ieri si è tagliato con
un vetro.
Don Santos esaminò il piede del nipote. L'infezione era cominciata.
-
Sono tutte storie. Lavati il piede nel rigagnolo e fascialo con uno straccio.
-
Ma gli fa male, - intervenne Enrique, - non riesce a camminare.
Don Santos
meditò un momento. Dal porcile arrivavano i grugniti di Pascual.
- E
a me? - chiese battendosi la mano sulla gamba di legno. - Non mi fa male la gamba?
Ho settant'anni e lavoro!... Niente capricci!
Efrain raggiunse la strada aggrappato
alla spalla del fratello. Mezz'ora dopo tornarono coi secchi quasi vuoti.
-
Non ce la faceva piú, - disse Enrique al nonno, - Efrain si è azzoppato.
Don
Santos osservò i nipoti come se meditasse una sentenza.
- Va bene, va
bene, - disse, grattandosi la barba rada e afferrato Efrain per il collo lo trascinò
nella stanza. - I malati a letto a crepare sul materasso! E tu farai il lavoro
di tuo fratello. Vai subito allo scarico!
Verso
mezzogiorno Enrique tornò coi secchi colmi. Lo seguiva uno strano visitatore:
un cane scheletrico pezzato di scabbia.
- L'ho trovato allo scarico, - spiegò
Enrique e mi ha seguito.
Don Santos afferrò il bastone.
- Una bocca
in piú in casa!
Enrique si strinse al petto il cane e fuggi verso la
porta.
- Non fargli male, nonno. Gli darò un po' della mia razione.
Don
Santos si avvicinò, affondando la gamba nel fango.
- Non voglio cani!
Ci siete già voi!
Enrique apri la porta di casa.
- Se se ne va lui,
me ne vado anch'io.
Il nonno si fermò. Enrique ne approfittò
per insistere.
- Non mangia quasi niente,... guarda com'è magro. E poi
ora che Efrain è ammalato, mi aiuterà. Conosce bene lo scarico e
ha buon fiuto per la spazzatura.
Don Santos rifletté, guardando il cielo
dove s'andava addensando la garúa1. Senza aprir bocca lasciò
andare il bastone, afferrò i secchi e si diresse barcollando verso il porcile.
-
Pascual, Pascual... Pascualito! - canticchiava il nonno.
- Ti chiamerai Pedro,
- disse Enrique accarezzando la testa del cane ed entrò da Efrain.
La
sua allegria sfumò: Efrain in un bagno di sudore si contorceva dal dolore
sul pagliericcio. Aveva il piede gonfio come fosse di gomma e pieno d'aria. Le
dita non avevano quasi piú forma.
- Ti ho portato questo regalo, guarda,
- disse indicando il cane. - Si chiama Pedro, è per te, ti farà
compagnia... Quando devo andare allo scarico te lo lascio così potete giocare
insieme tutto il giorno. Puoi insegnargli a portarti le pietre con la bocca.
-
E il nonno? - chiese Efrain allungando la mano verso l'animale.
- Il nonno
non dice niente, - sospirò Enrique. Guardarono tutti e due verso la porta.
Era cominciata a cadere la garúa. Arrivava la voce del nonno: - Pascual,
Pascual... Pascualito!
Quella notte ci fu luna piena. I due nipoti erano inquieti,
perché in quel periodo il nonno diventava intrattabile. Dal crepuscolo
lo videro aggirarsi nel cortile, parlando da solo, colpendo col bastone il pergolato.
Ogni tanto si avvicinava alla stanza, vi gettava un'occhiata e vedendo i nipoti
silenziosi lanciava uno sputo carico di rancore. Pedro ne aveva paura e restava
immobile come una pietra.
- Uno schifo! Un vero schifo! - ripeté tutta
la notte il nonno, guardando la luna.
Il mattino seguente Enrique si svegliò
col raffreddore. Il vecchio che lo senti starnutire all'alba, non disse niente.
Eppure in cuor suo presentiva una catastrofe. Se Enrique si ammalava, chi provvedeva
a Pascual? La voracità del maiale cresceva con la sua mole. Grugniva tutto
il pomeriggio affondando il naso nel fango. Dal cortile di Nemesio che viveva
a un isolato di distanza, erano venuti a protestare.
Il secondo giorno accadde
l'inevitabile: Enrique non poté mettersi in piedi. Aveva tossito tutta
la notte e l'alba lo sorprese tremante, che scottava di febbre.
- Anche tu?
- chiese il nonno.
Enrique indicò il petto, gli usciva a sibili il respiro.
Il nonno usci furibondo dalla stanza. Cinque minuti dopo tornò dentro.
-
È una vergogna prendermi in giro così! - piagnucolava. - Ve ne approfittate
perché non posso camminare. Perché sapete che sono vecchio e zoppo!
Altrimenti vi manderei al diavolo e ci penserei io a Pascual!
Efrain si svegliò
lamentandosi ed Enrique cominciò a tossire.
- Non importa, ci penso
io. Siete merda, merda schietta! Dei poveri avvoltoi senza piume. Vi farò
vedere io come ce la faccio meglio di voi: è ancora forte il nonno! Ma
una cosa è certa, oggi restate digiuni. Non vi darò da mangiare
finché non vi alzerete per andare al lavoro!
Dalla soglia lo videro
afferrare rabbiosamente le latte e precipitarsi in strada. Mezz'ora dopo tornò
a casa distrutto. Non avendo la sveltezza dei nipoti, l'automezzo della Nettezza
Urbana l'aveva raggiunto. E poi i cani avevano tentato di morderlo.
- Pezzi
di merda! Ve l'ho detto, non vi darò da mangiare finché non lavorerete.
Il
giorno seguente ritentò l'operazione, ma dovette rinunciarvi. La gamba
di legno non era piú abituata alle strade asfaltate e ogni passo era una
coltellata all'inguine. All'alba del terzo giorno si abbatté sfinito sul
pagliericcio, senz'altro fiato che per gli insulti.
- Se morirà di fame,
- gridava, - sarà colpa vostra!
Cominciarono
allora delle interminabili giornate. I tre trascorrevano tutto il giorno rinchiusi
nella stanza, senza parlare, in una specie di reclusione forzata. Efrain non faceva
che contorcersi, Enrique tossiva, Pedro si alzava e dopo un giretto nello spiazzo,
tornava dentro con una pietra in bocca che depositava nelle mani dei padroni.
Don Santos, semisdraiato, giocherellava con la gamba di legno, lanciandogli occhiate
feroci. A mezzogiorno si trascinava fino all'angolo del terreno dove crescevano
le verdure e si preparava il pranzo che divorava di nascosto. A volte lanciava
sul letto dei nipoti delle lattughe o una carota cruda, col proposito di aizzarne
l'appetito, credendo così di rendere piú raffinato il suo castigo.
Efrain
ormai non aveva forza nemmeno per lamentarsi. Solo Enrique si sentiva crescere
in petto una strana pena guardando gli occhi del nonno senza riconoscerli, come
se avessero perso l'espressione umana. Di notte, quando spuntava la luna, si alzava,
afferrava Pedro tra le braccia, stringendolo teneramente fino a farlo gemere.
A quell'ora il maiale cominciava a grugnire e il nonno si lamentava come se lo
stessero strangolando. A volte si metteva la gamba di legno e usciva nel cortile.
Al chiarore della luna Enrique lo vedeva andare dieci volte dal porcile all'orto,
coi pugni in alto, colpendo tutto ciò che incontrava lungo il cammino.
Alla fine rientrava nella stanza e restava fisso a guardarli, come se volesse
incolparli della fame di Pascual.
L'ultima
notte di luna nessuno poté dormire. Pascual lanciava veri e propri ruggiti.
Enrique aveva sentito dire che i maiali, quando avevano fame, impazzivano come
gli uomini. Il nonno restò sveglio senza nemmeno spegnere il lumino. Stavolta
non usci nel cortile, né imprecò tra i denti. Coricato sul pagliericcio
guardava fisso la porta. Sembrava accumulare dentro una collera molto vecchia
e giocherellarvi preparandosi a farla esplodere. Quando il cielo cominciò
a stingersi sulle colline, spalancò la bocca, girando verso i nipoti quella
nera cavità, emise un ruggito:
- In piedi, in piedi, ho detto! - cominciarono
a piovere le bastonate. - Alzatevi sfaticati! Fino a quando resterete così?
Fatela finita! In piedi! ...
Efrain si mise a piangere. Enrique si alzò,
appiattendosi contro la parete. Gli occhi del nonno sembravano affascinarlo fino
al punto da non fargli sentire le percosse. Vedeva il bastone sollevarsi e abbattersi
sulla sua testa, come se fosse di cartone. Finalmente poté reagire.
-
A Efrain no, non è colpa sua! Lascia andare solo me, ci vado io, andrò
allo scarico.
Il nonno si fermò ansante. Ci mise molto a ricuperare
il fiato.
- Immediatamente... allo scarico... porta due secchi, quattro secchi...
Enrique
si ritrasse, afferrò i secchi e si allontanò di corsa. Lo spossamento
della fame e della convalescenza lo facevano vacillare. Quando apri la porta del
recinto, Pedro volle seguirlo.
- Tu no. Resta qui a fare la guardia a Efrain.
E
si lanciò in strada respirando a pieni polmoni l'aria del mattino. Durante
il tragitto mangiò erbe e per poco non masticò la terra. Vedeva
tutto attraverso una nebbia fantastica. La debolezza lo rendeva leggero, etereo:
volava quasi come un uccello. Nello scarico si senti un avvoltoio tra gli avvoltoi.
Quando i secchi furono stracolmi s'avviò verso casa. Le beghine, i nottambuli,
gli strilloni scalzi, tutte le secrezioni dell'alba cominciavano a invadere la
città. Enrique, ritornato nel suo mondo, camminava felice tra loro, nel
suo mondo di cani e fantasmi, toccato dall'ora celeste.
Entrando nel cortile
senti un'atmosfera opprimente, repulsiva che lo costrinse a fermarsi. Era come
se li sull'uscio finisse un mondo e ne cominciasse un altro fatto di melma, di
ruggiti, di assurdi castighi. La cosa sorprendente era però che nel cortile
regnasse una calma densa di cattivi presagi, come se tutta la violenza fosse sospesa
in equilibrio, sul punto di abbattersi. Il nonno, fermo sul bordo del porcile,
guardava nel fossato. Sembrava un albero spuntato dalla gamba di legno. Enrique
fece rumore, ma il nonno nor si mosse.
- Ecco i secchi!
Don Santos gli voltò
le spalle e restò immobile. Enrique lasciò i secchi e corse incuriosito
nella stanza. Efrain, appena lo vide cominciò a lamentarsi: - Pedro...
Pedro...
- Che succede?
- Pedro ha morso il nonno... il nonno ha preso bastone...
e poi l'ho sentito abbaiare.
Enrique usci dalla stanza.
- Pedro, vieni qua.
Dove sei, Pedro?
Nessuno gli rispose. Il nonno era rimasto immobile, girato
di spalle. Enrique ebbe un cattivo presentimento. Con un balzo si avvicinò
al vecchio.
- Dov'è Pedro?
Il suo sguardo si abbassò sul porcile.
Pascual divorava qualcosa nella melma. Restavano ancora le zampe e la coda del
cane.
- No! - gridò Enrique coprendosi gli occhi. - No, no! - e attraverso
le lacrime cercò lo sguardo del nonno. Il vecchio distolse gli occhi girandosi
maldestro sulla gamba di legno. Enrique cominciò a ballargli intorno, afferrandogli
la camicia, gridando, scalciando, cercando di guardarlo negli occhi, di avere
una risposta. Il nonno non rispondeva. Alla fine, spazientito, diede uno spintone
al nipote facendolo rotolare in terra. Dal suolo Enrique osservò il vecchio
che, ritto come un gigante, guardava ostinatamente il festino di Pascual. Allungando
la mano trovò il bastone che aveva la punta macchiata di sangue. Afferratolo,
si alzò piano piano avvicinandosi al vecchio.
- Voltati, - gridò.
- Voltati!
Quando don Santos si voltò, vide il bastone fendere l'aria
e colpirgli lo zigomo.
- Prendi, - strillò Enrique rialzando la mano.
Ma subito si fermò, impaurito da ciò che stava facendo e buttò
via il bastone, guardando il nonno quasi pentito. Il vecchio, tenendosi la faccia,
indietreggiò di un passo, la gamba di legno toccò la terra melmosa,
scivolò e con un grido cadde di spalle nel porcile.
Enrique si allontanò
silenziosamente come si era avvicinato. Forse il nonno riuscí a scorgerlo
perché, mentre correva verso la stanza, gli sembrò che lo chiamasse
per nome, con un tono affettuoso che non gli aveva mai sentito.
- Enrique,
vieni dal nonno...
- Presto, - esclamò Enrique precipitandosi verso
il fratello. - Presto, Efrain. Il vecchio è caduto nel porcile. Dobbiamo
andarcene via.
- Dove? - chiese Efrain.
- In un posto qualsiasi, allo scarico,
dove si può mangiare qualcosa, dove stanno gli avvoltoi.
- Non ce la
faccio ad alzarmi!
Enrique afferrò il fratello con tutte e due le mani
e se lo strinse contro il petto. Abbracciati stretti che sembravano una sola persona,
attraversarono lentamente il cortile. Quando aprirono il portoncino si accorsero
che l'ora celeste era finita e che la città, sveglia e viva, apriva davanti
a loro la sua gigantesca mandibola.
Dal porcile arrivava lo strepito di una
battaglia.
Nota
1: garúa - Copiosa rugiada che in sostituzione della pioggia cade d'inverno
a Lima.
I
moribondi
Due
giorni dopo l'inizio della guerra cominciarono ad arrivare a Paita i primi camion
di morti. Mio fratello Javier mi portò a vederli all'ingresso dell'ospedale.
I camion sostavano qualche momento davanti al portone e gli infermieri uscivano
a dargli un'occhiata. A volte trovavano un moribondo nel mucchio di cadaveri,
l'adagiavano su una barella e lo trasportavano dentro in fretta mentre il camion
proseguiva per il cimitero.
- Quelli che hanno i gambali sono gli equatoriani,
- diceva Javier, - quelli con gli stivali sono i peruviani.
Ma io non facevo
caso a questi dettagli, perché l'unica cosa che m'interessava era vedere
come i morti nel morire cercavano di aprire la bocca e di mostrare i denti, anche
quand'erano denti rotti, attraverso la fessura delle labbra. Mi colpiva il riso
dei morti, un riso che trovavo non so perché un po' provocatorio, come
quello di chi ride controvoglia, solo per infastidirci. Non suscitavano in me
nessun'altra sensazione, forse perché ce n'erano troppi e quell'abbondanza
distruggeva l'effetto patetico che produce il morto singolo. Sembravano scarafaggi
o pesci.
- E perché li portano fin qui? - chiesi a Javier. - Perché
non li lasciano a Tumbes o non li sotterrano alla frontiera?
- Non so, - mi
rispose, - credo che li trasportino vivi, ma che muoiano lungo il tragitto.
Quando
tornammo a casa m'indicò due negozi con le porte chiuse. Su tutte e due
c'era scritta col gesso la parola SCIMMIA.
- Gli equatoriani li chiamano scimmie,
- mi spiegò. - Questi negozi sono di scimmie che non li aprono perché
hanno paura o se ne sono andati. A Paita e a Tumbes ci sono parecchie scimmie.
A noi in Equatore ci chiamano galline perché abbiamo perso tutte le guerre,
quella col Cile, quella con la Colombia e non so quali altre... ma questa non
la perderemo.
A casa mia sorella Eulalia stava piangendo perché il fidanzato
Marcos, che è tenente, era stato destinato alla frontiera. Quella mattina
aveva ricevuto una sua lettera da Tumbes in cui le raccontava la battaglia di
Zarumilla e la presa di Puerto Bolívar. La mamma le dava la valeriana per
calmarle i nervi e accendeva candele a tutti i santi. Papà, invece, non
faceva che imprecare dalla mattina alla sera. Le lezioni al Collegio nazionale,
dov'era professore, erano state sospese a causa della guerra e per questo motivo
si aggirava ciondoloni per casa senza sapere cosa fare con quell'enorme mattinata
vuota davanti.
- Cosa m'importa della guerra! - esclamava. - Se tutti sapessero
leggere e conoscessero le tabelline non avrebbero motivo di starsi ammazzando.
E io che pensavo di interrogare Pérez in botanica!
Presto non ci fu
piú posto per i morti al cimitero, né per i feriti all'ospedale.
I morti cominciarono a sotterrarli vicino al fiume e i feriti vennero alloggiati
nel municipio e nel Collegio nazionale. Papà usci come una furia quando
lo seppe per vedere che ne era della sua aula. Ci aspettavamo tutti che tornasse
arrabbiato, ma arrivò tutto tronfio con un bracciale rosso sulla manica
della camicia.
- Faccio parte del corpo di requisizione stanze vuote, - disse.
- Devo tornare nel pomeriggio a scuola a vedere dove sistemare i feriti. Oggi
sono arrivate sette ambulanze.
Quella sera arrivò Marcos dal fronte.
Lo avevano mandato a Paita in missione speciale. La prima cosa che fece fu venire
a casa e vi rimase a chiacchierare fino a sera. Mia sorella lo palpava dappertutto,
per assicurarsi che non fosse ferito, sorpresa che tornasse dalla guerra senza
che gli mancasse un braccio o per lo meno un dito.
- Lasciami che mi fai il
solletico, - protestava Marcos e continuava il suo racconto della battaglia di
Zarumilla e della presa di Puerto Bolívar. C'erano dei vicini ad ascoltarlo.
-
È vero che abbiamo lanciato dei paracadutisti? - gli chiesero.
- Ne
abbiamo lanciati sei. Uno di loro è caduto in mare ed è stato catturato
da una lancia equatoriana. Ma gli altri cinque hanno occupato il porto.
- Ma
questa guerra la vinciamo o no?
- È già vinta.
- Viva il Perú,
- gridò uno dei vicini. Nessuno gli fece caso.
Il giorno dopo mio padre
arrivò a casa tutto allegro.
- Oggi ho sistemato sette feriti nella
parrocchia e quattro a casa di Timoteo Velázquez che ha l'orto. E la smettano
di scocciarmi e di guardarmi in cagnesco per strada perché gli metto in
casa i feriti.
Ma venne il nostro turno. Fu la sera stessa che Marcos tornava
al fronte e che mia sorella si aggirava per casa piangendo. Erano riusciti a calmarla
e si era ristabilita la calma, quando bussarono alla porta. Qualcuno in strada
diceva:
- Requisizione stanze vuote.
Poi sentii i miei genitori dirigersi
all'ingresso.
- Ma hai detto che abbiamo stanze vuote? - chiedeva la mamma.
-
Ho detto che avevamo un magazzino sgombro. Questi feriti deve avermeli mandati
Timoteo Velázquez per vendetta.
- Bisognerà accettarli. Sono
peruviani o equatoriani?
Mio fratello Javier si alzò e dischiuse la
porta per spiare. Lo imitai e tutti e due vedemmo gli infermieri attraversare
la stanza con due barelle. Papà in pigiama li guidava lungo il corridoio
che conduce alla cucina.
- Tra un po' vado a vedere chi sono i feriti, - disse
Javier, mettendosi le pantofole. - Tu non muoverti di qui.
Quando sentimmo
andar via gli infermieri e papà e mamma rimettersi a letto, Javier usci
dalla stanza con la pila. Tornò dopo cinque minuti.
- Sono peruviani
o equatoriani? - gli chiesi. - Non lo so, - mi rispose confuso. - Non hanno gambali
né stivali. Sono scalzi.
Il giorno dopo mi svegliai prestissimo. La
presenza di quei soldati mi dava un senso di oppressione, come se la guerra avesse
finito per mettere le grinfie in casa nostra.
Non appena mia madre usci per
andare alla messa delle sei, mi alzai e mi diressi di corsa nel magazzino. Senza
riguardi spalancai la porta e rimasi piantato là di fronte ai feriti. Li
avevano buttati su dei pagliericci e malgrado l'ora avevano tutti e due gli occhi
aperti e guardavano fissi le travi del tetto. Uno di loro era color cenere e sudava,
l'altro aveva un braccio bendato fuori dal letto e le guance incavate. Tranne
questo, non notai in loro niente di speciale. Sembravano due pastorelli di Cajamarca
o due di quei mulattieri che avevo visto inerpicarsi instancabili su per i picchi
delle montagne di Ancash.
"Sono peruviani, - pensai. - Gli equatoriani
devono essere piú pelosi".
Stavo per andarmene, un po' deluso,
quando uno di loro disse qualcosa. Voltandomi vidi quello pallido muovere le labbra:
-
Acqua...
- Nel dirlo, tirò fuori dal lenzuolo una gamba e mi mostrò
il ginocchio: vi era aperta una ferita rotonda e violacea, come un'ortensia fiorita.
Corsi
in cucina, sentendo una specie di vertigine e li m'imbattei in mia sorella che
stava mettendo il bollitoio sul fornello.
- Che ti succede? - mi chiese. -
Sei bianco come un lenzuolo!
- Uno dei feriti vuole acqua, - le risposi. -
Ha un tumore orribile al ginocchio.
- Non dargliela! - strillò Eulalia.
- Devono morire di sete, crepare, quei maledetti. Sono equatoriani e sparano su
Marcos. Perché li hanno portati qua? Se non se ne vanno da questa casa
mi butto a mare.
Si era già messa a piangere e io non sapevo cosa fare.
-
Chi ti ha detto che sono equatoriani? - le chiesi.
- Non so. Stanotte ho sentito
qualcosa mentre andavo a letto. Ah, madonna mia, nella nostra casa gli assassini
di Marcos!
Io riempii un bicchiere d'acqua e non sapevo se darglielo a Eulalia
per calmarla o se portarlo al ferito. Alla fine me lo bevvi. In quel momento apparve
mio padre.
- Che fai senza scarpe? - gridò e si portò via mia
sorella con una scusa. Dopo poco tornò. Io stavo immobile col bicchiere
vuoto in mano.
- Ci scommetto che sei andato a vedere i feriti, - mi disse,
- non ne è morto nessuno stanotte?
- Quello zoppo vuole acqua.
-
Andiamo a portargliela, - mi rispose.
Quando entrammo nel magazzino i feriti
sembravano assopiti.
- Questo è il peruviano, - disse indicando quello
che aveva chiesto l'acqua. - Ehi, tu, apri gli occhi, non vuoi rinfrescarti un
po'?
Quando il soldato apri gli occhi, mio padre che allungava il braccio lo
trattenne.
- Credo di essermi sbagliato, questo è l'equatoriano. Cavolo,
ieri me l'hanno detto ognuno di dov'era, ma me lo sono scordato. Di dove sei?
Il
soldato non rispose: si limitava a guardare il bicchiere che mio padre reggeva
in mano.
- Prendi, - disse, - poi mi dirai di dove sei. Il soldato bevve e
riadagiandosi sul cuscino si girò contro la parete e si mise a dormire.
-
Chiedilo all'altro, - dissi.
L'altro aveva aperto gli occhi e ci fissava o
cercava di fissarci come se fossimo ombre o incubi. Aveva le guance incavate sotto
i pomuli e il mento gli cascava come accennando a un sorriso.
- Tu sei peruviano?
- chiese mio padre.
Il soldato apri di piú la bocca, sembrava che stesse
per ridere, come i moribondi del camion, ma disse soltanto una parola che non
capimmo.
- Che diavolo dice? - chiese mio padre. - Sembra che abbia un nodo
alla lingua. Aspettiamo che arrivino gli infermieri per riconoscerli. Loro sanno
di dove sono.
Gli infermieri vennero solo nel pomeriggio. Avevano un gran da
fare e dissero che le medicine stavano finendo. Quando li portammo nel magazzino
trasformato in infermeria, esaminarono i feriti. Misero a tutti e due un termometro
nell'ano e gli misurarono la pressione.
- Questo qui forse può guarire,
- disse uno degli infermieri indicando quello con la gamba ferita. - Ma l'altro
credo che se ne andrà.
Nel dirlo lo scopri per farcelo vedere; aveva
un tampone di ovatta rossa sotto l'ascella e il lenzuolo era tutto macchiato di
sangue.
- Questo è il peruviano? - chiese a mio padre. Gli infermieri
si guardarono, consultarono i cartellini e fissarono mio padre sconcertati.
-
Lei non lo sa? In questo trambusto si sono persi i documenti di identità.
Lo controlleremo all'ospedale.
Il giorno dopo la radio disse che gli equatoriani
avevano capitolato: era stata una guerra lampo. Ci fu una parata nella città
e obbligarono noi scolari a sfilare con una bandierina peruviana in mano. La sera
ebbe luogo una cerimonia nel municipio e mio padre parlò in nome della
difesa civile. Nel frattempo i feriti, dimenticati, continuavano ad agonizzare
in casa nostra.
Per un disguido della burocrazia militare questi feriti non
figuravano in nessuna lista e le autorità cercavano di disfarsene. Nel
tripudio dell'armistizio, i moribondi erano come i parenti poveri, come i difetti
fisici, cose da nascondere e da dimenticare perché nessuno possa mettere
in dubbio la bellezza della vita. Mio padre era andato varie volte all'ospedale
perché venisse un medico, ma mandarono solo ogni tanto un infermiere che
entrava in casa a fargli un'iniezione e se la squagliava subito, come dopo aver
commesso una canagliata. Dopo una settimana i feriti facevano parte dello scenario
di casa. Mio fratello aveva perso interesse per loro e preferiva andare a cacciare
colombacci lungo le spiagge e mia madre, rassegnata, considerava la presenza dei
soldati, tra una giaculatoria e un'altra, come una pena in piú da scontare.
Una
mattina ebbi un'enorme sorpresa: entrando nel magazzino trovai uno dei soldati
alzato. Quello con la ferita alla gamba era in piedi, appoggiato contro la parete.
Vedendomi entrare indicò il compagno.
- Sta morendo, signorino. Tutta
notte ha pianto. Dice che non ce la fa piú.
Quello col braccio ferito
sembrava dormire.
- Me ne vorrei andare, ora, signorino, - prosegui, - io sono
dell'Equatore, della sierra di Riobamba. Quest'aria mi fa male. Già posso
camminare. Piano piano me ne andrò camminando.
Mentre parlava fece qualche
passo zoppicando nel magazzino.
- Datemi un pantalone. Già mi è
passata la febbre. Lasciatemi andare, signorino.
Siccome avanzava verso di
me mi spaventai e uscii di corsa. I miei erano andati al porto a comprare pesce
fresco perché quella sera c'era una cena in onore di Marcos. Il soldato
usci nel corridoio e di lí continuava a chiamarmi. Per fortuna mio fratello
Javier rientrava in quel momento.
- Ora so quale è l'equatoriano, -
gli dissi, indicando il corridoio. - Dice che vuole andarsene!
Vedendo il soldato
Javier cercò la fionda nella tasca.
- Tu sei nostro prigioniero, - gridò.
- Non sai che abbiamo vinto la guerra. Torna in camera!
Il soldato esitò
un attimo e rientrò nel magazzino appoggiandosi alla parete. Javier avanzò
nel corridoio e mise il paletto alla porta. Poi mi guardò.
- Monterò
la guardia, - disse. - Di qui non scapperà nessuno.
Molti personaggi
in vista della città furono invitati alla cena di quella sera, tra loro
il comandante della zona e un equatoriano che era padrone del "Chimborazo",
il piú grande caffè di Paita. Marcos, che frequentava molto il locale,
aveva voluto che lo invitassero perché disse che era una cena di "fratellanza".
Nel bel mezzo della cena si sentirono delle grida nel magazzino.
Dopo un attimo
d'interruzione gli invitati ripresero le loro chiacchiere. Ma siccome le grida
si ripeterono, mio padre si alzò.
- Abbiamo dei feriti, - disse scusandosi.
- Vado a vedere che succede. Uno è paesano suo come ho saputo stamattina.
L'equatoriano
fece finta di niente e riempi il bicchiere al comandante mentre la conversazione
si riannodava. Io mi alzai per andar dietro a mio padre.
Entrando nel magazzino
accendemmo la luce: il peruviano aveva buttato all'aria le lenzuola ed era steso
di traverso sul pagliericcio muovendo in aria le gambe come se facesse ginnastica.
Ma bastava guardargli la faccia per capire che quei movimenti erano indipendenti
da lui, come se avesse un altro uomo nel tronco.
Papà si abbassò
per tenergli le gambe e il ferito lo afferrò, con la mano sana, per la
cravatta. I suoi occhi lo fissavano con terrore. Le sue labbra cominciarono a
muoversi e vi uscivano così alla rinfusa le parole come un canto senza
fine.
- Cosa vuoi? - gli chiedeva papà. - Vuoi acqua? Vuoi un po' di
aria? Ma parla in spagnolo se vuoi farti capire! Di Jauja, si, lo so che sei di
Jauja, però che posso farci?
Il ferito continua a parlare in quechua.
Papà usci di corsa e si diresse in sala da pranzo.
- Qualcuno di voi
sa il quechua? - sentii che chiedeva.
Marcos rispose qualcosa e gli invitati
si misero a ridere. Mio padre riapparve. Il moribondo aveva smesso di muovere
le gambe e le sue parole erano sempre piú lente.
L'equatoriano che se
n'era stato tutto il tempo sotto il lenzuolo, tirò fuori la testa.
-
Vuole scrivere una lettera, - disse.
- Come lo sai?
- Capisco, signore.
Papà
lo guardò sorpreso.
- Lui e io parliamo la stessa lingua.
Mio padre
mi mandò a prendere carta e matita. Quando fui tornato disse all'equatoriano:
-
Dettami, ma chiaro, in modo che possa scrivere parola per parola.
Papà
cominciò a scrivere. Aveva il naso rosso come quando beveva. L'altro soldato
gli dettava.
- Nel recinto ci sono tre cavalli, dice... il cavallo del tenente,
dice... piaga sull'anca del cavallo del tenente, dice... con la spazzola dice...
nella cucina dice...
Mio padre smise di scrivere per fissare l'equatoriano.
Costui si era alzato a sedere sul pagliericcio e fissava attento la bocca del
ferito.
- Colica gli è presa dice... diarrea al tenente, il pozzo vicino
al fiume... è caduto nel pozzo il cavallo del tenente dice... Tulio, Tulio,
dice...
- Chi è Tulio? - chiese mio padre.
- Viva i patrioti! - gridò
qualcuno nella sala da pranzo.
- Chiudi bene la porta, - mi ordinò papà.
-
Tulio è suo fratello, - disse il soldato. - Continui: non ce la faccio
piú dice... il cavallo del tenente nei campi, dice... nei campi veloce
cavallino dice... cavallino di tutti i colori, cavallino bello dice... ahi povera
mia pancia dice... ahi colica al tenente gli è presa, sciolta dice... al
galoppo sto correndo dice... Nei campi corre dice... non ce la faccio piú
dice... diarrea dice... diarrea gli è presa al tenente dice... diarrea
diarrea...
Il moribondo smise di parlare e ricominciò a muovere le gambe.
Mio padre gliele afferrò. Sentimmo un fetore. Vedemmo che il pagliericcio
cominciava a imbrattarsi. Il soldato se l'era fatta addosso. Quando papà
gli sollevò la testa per i capelli vedemmo che rideva. Era morto.
Restammo
tutti e tre zitti. Papà raddrizzò il soldato e lo copri con la coperta.
Poi fissò il foglio che aveva scritto e lo lesse e rilesse varie volte.
-
Bisognerà mandarlo, - disse, - ma a chi? A che scopo?
Piegò in
quattro il foglio e se lo mise in tasca. Nella sala da pranzo qualcuno lanciava
evviva a Marcos.
- Quando potrò andarmene? - chiese l'equatoriano. -
Quest'aria mi uccide, signore. Già posso camminare.
Mio padre non gli
rispose. Rientrammo nella sala da pranzo dove stavano servendo il dolce. Il padrone
del "Chimborazo" stappava una bottiglia di champagne che aveva portato
in regalo.
- Che è successo? - chiese mia madre sottovoce, vedendo che
mio padre se ne stava in piedi accanto alla tavola col naso piú paonazzo
che mai.
- Niente, - rispose e si sedette al suo posto, fissando la medaglia
fiammante che brillava sul petto del comandante.
L'armadio,
i vecchi, la morte
L'armadio
che c'era nella stanza di papà non era un mobile, ma una casa dentro la
casa. Ereditato dai suoi nonni, ci aveva perseguitato di trasloco in trasloco,
gigantesco, ingombrante, fino a trovare il suo posto definitivo nella stanza da
letto paterna.
Occupava quasi la metà della stanza e arrivava praticamente
al soffitto. Quando papà non c'era i miei fratelli e io vi entravamo dentro.
Era un vero palazzo barocco, pieno di conchiglie, fregi, cornici, medaglioni e
colonnine, tutto intagliato fin negli ultimi recessi da qualche ebanista folle
dell'Ottocento. Aveva tre scomparti, ognuno con una propria fisionomia. Quello
di sinistra aveva una porta pesante come quella di un atrio, con una serratura
a cui era appesa una chiave enorme che già di per sé era un giocattolo
proteiforme perché lo usavamo indifferentemente come pistola, scettro o
bastone. Li dentro papà conservava gli abiti e un cappotto inglese che
non si mise mai. Era il luogo obbligato d'ingresso in quell'universo che odorava
di cedro e di naftalina. Il corpo centrale che era quello che piú ci incantava
per la sua varietà, aveva nella parte inferiore quattro enormi cassetti.
Quando papà mori, ognuno di noi ereditò uno di quei cassetti stabilendo
su di essi una potestà altrettanto gelosa di quella che papà esercitava
sull'intero armadio. Al di sopra dei cassetti c'era una nicchia con una trentina
di libri scelti. Il corpo centrale finiva con una porta alta e quadrata, sempre
chiusa a chiave, che non sapemmo mai cosa contenesse, forse quelle carte e fotografie
che ci si trascina dietro dalla gioventú e che non si distruggono nel timore
di perdere parte di una vita che in realtà è già persa. Ultimo,
lo scomparto di destra, aveva un'altra porta rivestita di uno specchio scanalato
ai bordi. All'interno aveva, sotto, dei cassetti per le camicie e la biancheria
e sopra, uno spazio senza mensole dove entrava una persona in piedi.
Lo scomparto
di sinistra comunicava con quello di destra, mediante un passaggio in alto, situato
dietro la nicchia. Perciò uno dei nostri giochi preferiti era entrare nell'armadio
dalla porta di legno e riapparire dopo un po' dalla porta a specchio. Il passaggio
in alto era un rifugio ideale per giocare a nasconderella. Quando lo sceglievamo
nessun amico riusciva mai a trovarci. Sapevano che eravamo nell'armadio, ma non
immaginavano che ne avevamo scalato l'architettura e che eravamo distesi nel suo
scomparto centrale come in una bara.
Il letto di mio padre era situato proprio
di fronte allo scomparto di destra, di modo che, quando si raddrizzava sugli enormi
cuscini per leggere il giornale, si vedeva nello specchio. Allora diceva: "Lì
si specchiava don Juan Antonio Ribeyro y Estrada e si annodava la farfalla prima
di andare al Consiglio dei ministri" o " Lì si specchiava don
Ramón Ribeyro y Alvarez del Villar prima di andare a far lezione all'università
di San Marcos" o "Quante volte ho visto mio padre, don Julio Ribeyro
y Benites guardarsi lì quando si preparava per andare a fare un discorso
al Congresso". I suoi antenati erano imprigionati lì in fondoallo
specchio. E lui li vedeva e vedeva la propria immagine sovrapposta alla loro,
in quello spazio irreale, come se di nuovo, insieme, vivessero per un miracolo
lo stesso tempo. Mio padre entrava, attraverso lo specchio, nel mondo dei morti,
ma consentiva anche ai suoi avi di accedere, attraverso lui, al mondo dei vivi.
Eravamo
estasiati dai talenti di quell'estate, coi suoi giorni sempre chiari e accessibili
al piacere, tutta giochi e felicità. Mio padre che da quando si era sposato
aveva smesso di fumare, di bere e di frequentare gli amici, si mostrò piú
amabile e siccome gli alberi del piccolo orto avevano dato i loro frutti migliori,
splendidi a vedersi, e finalmente in casa si era riusciti ad avere un vasellame
decente, decise di ricevere ogni tanto qualcuno dei suoi vecchi amici.
Il primo
fu Alberto Rikets. Era la copia di mio padre, ma in formato ridotto. La natura
si era data la pena di editare quel calco, per precauzione. Avevano lo stesso
pallore, la stessa magrezza, gli stessi gesti, le stesse espressioni. Lo si doveva
al fatto che avevano studiato nella stessa scuola, letto gli stessi libri, passato
le stesse notti di baldoria e patito la stessa lunga e dolorosa malattia. In quei
dieci dodici anni che non si erano visti, Rikets aveva fatto fortuna lavorando
indefessamente in una farmacia che ormai era sua, a differenza di mio padre che
solo a prezzo di duri stenti era riuscito a comprare la casa di Miraflores.
In
quei dieci dodici anni Rikets aveva fatto qualcos'altro: un figlio, Albertito,
che portò con sé in occasione della visita. Siccome i figli degli
amici raramente riescono a stringere amicizia, accogliemmo Albertito con diffidenza.
Lo trovammo rachitico, tardo e in certi momenti francamente idiota. Mentre mio
padre passeggiava con Alberto in giardino mostrandogli l'arancio, il fico, i meli
e le viti, noi portammo Albertito a giocare in camera nostra. Siccome non aveva
fratelli, ignorava molti dei nostri giochi familiari e collettivi e si mostrò
maldestro nell'impersonare il ruolo dell'indiano e ancora di piú nel cadere
morto sotto i colpi dello sceriffo. Aveva un modo poco convincente di morire ed
era incapace di capire che una racchetta da tennis poteva essere anche una mitragliatrice.
Perciò rinunciammo a condividere con lui il nostro gioco preferito, quello
dell'armadio, e ci dedicammo a quei piccoli passatempi meccanici che abbandonavano
ognuno alla sua sorte, la corsa delle macchinine sul pavimento o la costruzione
di case con i cubi di legno.
Mentre giocavamo aspettando l'ora di pranzo, vedevamo
dalla finestra mio padre e il suo amico che ora erano nel giardino, perché
era arrivato il turno di ammirare la magnolia, i gerani, le dalie, i garofani
e le violaciocche. Da anni mio padre aveva scoperto le delizie del giardinaggio
e la verità che la forma di un girasole o lo sboccio di una rosa racchiudono.
Perciò i giorni liberi, invece di passarli come una volta in faticose letture
che lo facevano meditare sul senso dell'esistenza, li dedicava a lavori semplici
come innaffiare, potare, innestare, togliere le erbacce, cose che però
faceva con una vera passione intellettuale. Il suo amore per i libri si era spostato
sulle piante e i fiori. Tutto il giardino era opera sua e come un personaggio
volterriano era arrivato alla conclusione che la felicità consistesse nel
coltivarlo.
- Un giorno di questi mi comprerò a Tarma non un fazzoletto
come questo, ma un vero podere e allora vedrai, Alberto, allora sí, cosa
sono capace di fare, - sentimmo che diceva mio padre.
- Caro Perico, invece
che a Tarma, a Chaclacayo, - gli rispose l'amico, alludendo alla sontuosa villa
che si stava costruendo in quel posto, - il clima è quasi lo stesso e sta
solo a quaranta chilometri da Lima.
- Sì, ma mio nonno è vissuto
a Tarma, non a Chaclacayo.
Sempre i suoi antenati! E gli amici di gioventú
lo chiamavano Perico.
Albertito
fece andare la macchinina sotto il letto, si ficcò li sotto per cercarla
e allora lo sentimmo lanciare un grido di vittoria. Vi aveva scoperto un pallone
da football. Fino a quel momento, noi che facevamo fatica a intrattenerlo, non
sapevamo che avesse una mania segreta, un vizio da bambino decrepito e solitario
che consisteva nel dar calci a un pallone di cuoio.
L'aveva già tirato
fuori dalla rete e stava per colpirlo, ma lo fermammo. Giocare nella stanza era
una pazzia, farlo in giardino ci era espressamente proibito, quindi non c'era
altra soluzione che uscire in strada.
Quella strada era stata scenario di drammatiche
partite che anni prima avevamo giocato coi fratelli Gómez, partite che
duravano quattro cinque ore e che finivano col buio pesto, quando non vedevamo
piú le porte né gli avversari e si trasformavano, le partite, in
una lotta di fantasmi, in una battaglia feroce e cieca in cui si ricorreva a ogni
sorte di imbrogli, di abusi e di infrazioni. Mai nessuna squadra professionista
ha messo come noi in quelle partite di ragazzi, tanto odio, tanto accanimento
e tanta vanità. Perciò, quando i Gómez cambiarono casa, abbandonammo
per sempre il calcio, niente avrebbe potuto eguagliare quegli incontri e lasciammo
il pallone sotto il letto. Finché lo trovò Albertito. Se voleva
giocare a calcio, gliene avremmo fatto fare una scorpacciata.
Facemmo la porta
vicino al muro di casa cosi il pallone vi rimbalzava e mettemmo Albertito in porta.
I primi tiri li parò con bravura. Ma poi lo bombardammo con cannonate rasanti
per il piacere di vederlo a terra, stiracchiato, vinto.
Poi toccò a
lui tirare e io passai in porta. Per essere un rachitico aveva un calcio di mulo
e riuscii a parare il primo tiro, ma mi fecero male le mani. Il secondo tiro,
in angolo, fu un gol perfetto, ma il terzo fu un vero prodigio: il pallone mi
passò tra le braccia, superò il muro, passò tra i rami del
gelsomino rampicante, saltò una siepe di cipressi, rimbalzò sul
tronco dell'acacia e scomparve nei meandri della casa.
Per un po' aspettammo
seduti sul marciapiedi che il pallone ci fosse restituito dalla cameriera, come
di solito accadeva. Ma non compariva nessuno. Mentre stavamo muovendoci per andare
a cercarlo, si apri la porta di servizio e usci mio padre col pallone sotto il
braccio. Era piú pallido del solito, non disse niente, ma lo vedemmo dirigersi
deciso verso un operaio che avanzava fischiettando sul marciapiede di fronte.
Arrivatogli vicino, gli mise il pallone tra le mani e rientrò in casa senza
degnarci di uno sguardo. L'operaio ci mise un po' ad afferrare che il pallone
gli era stato regalato e quando l'ebbe capito, spiccò una tale corsa che
non ce la facemmo a raggiungerlo.
Dall'aria abbattuta di mia madre che ci aspettava
sulla soglia per chiamarci in tavola, supponemmo che era successo qualcosa di
molto grave. Con un gesto imperioso ci ordinò di entrare in casa.
-
Come avete potuto fare questo? - fu l'unica cosa che ci disse quando le passammo
vicino.
Ma notando che una delle finestre della stanza da letto di papà,
l'unica che non aveva l'inferriata, era socchiusa, sospettammo quello che era
successo. Albertito, con un calcio maestro, che mai piú né lui,
né altri avrebbero ripetuto, era riuscito a far descrivere al pallone una
traiettoria insensata che malgrado i muri, gli alberi e le inferriate, aveva raggiunto
lo specchio in pieno cuore.
Il
pranzo fu angoscioso. Mio padre incapace di sgridarci alla presenza del suo invitato,
macerava la collera in un silenzio che nessuno osava interrompere. Solo al momento
del dolce mostrò una certa condiscendenza e raccontò alcuni aneddoti
che risollevarono tutti. Alberto lo imitò e il pranzo fini tra le risate.
Ma questo non cancellò l'impressione generale che quel pranzo, quell'invito,
quelle buone intenzioni di mio padre di riannodare le vecchie amicizie - tentativo
che non si ripeté - erano stati un solenne fiasco.
I Rikets se ne andarono
presto, con nostro grande terrore, perché temevamo che mio padre ne approfittasse
per castigarci. Ma la visita lo aveva stancato e senza dir niente se ne andò
a fare la siesta.
Quando si svegliò ci fece chiamare in camera sua.
Era riposato, placido, riverso sui grandi cuscini. Aveva fatto spalancare le finestre
perché entrasse la luce del crepuscolo.
- Guardate, - disse, indicando
l'armadio.
Era davvero una pena. Perdendo lo specchio il mobile aveva perso
la sua vita. Dove prima c'era il cristallo ora restava solo un rettangolo di legno
scuro, uno spazio opaco che non rifletteva e non diceva nulla. Era come una laguna
splendente in cui l'acqua si fosse all'improvviso essiccata.
- Lo specchio
in cui si guardavano i miei antenati, - sospirò e ci fece subito cenno
di uscire.
Da allora mai piú lo sentimmo parlare dei suoi avi. La scomparsa
dello specchio li aveva automaticamente fatti scomparire. Il suo passato smise
di tormentarlo e cominciò stranamente a protendersi verso il futuro. Forse
perché sapeva che presto sarebbe morto e non gli serviva piú lo
specchio per ritrovare i suoi avi, non nell'altra vita, perché non credeva,
ma in questo mondo che ormai lo soggiogava come una volta i libri e i fiori: il
mondo del nulla.
(Racconti tratti
da Niente da fare, Monsieur Baruch, Einaudi editore, Torino, 1972.)