Auschwitz potrebbe ripetersi

di Krysztof Maslon, da "Rzeczpospolita".



Imre Kertész


Scrittore indipendente, l'ungherese Imre Kertész (nato nel 1929) è stato prigioniero ad Auschwitz e Buchenwald. L'esperienza del campo di concentramento fa da filo conduttore all'interno della sua opera.

Come di certo saprà, oggi in Polonia si sta affrontando il caso Jedwabne, l'espiazione della colpa (per la società difficile da accettare) di antisemitismo e di partecipazione al crimine commesso contro il popolo ebreo. Che aspetto assume, in Ungheria, questa problematica?
L'olocausto non fa parte del retaggio spirituale ungherese. In Ungheria non esiste niente di simile, ogni tentativo di tornare indietro di cinquant'anni viene bloccato.
Perché?
Per diverse ragioni, in parte legate alla storia, in parte legate alla situazione politica attuale.
Oggi in Ungheria si verificano manifestazioni di antisemitismo?
Sì, certo. Anche nell'ambito della vita politica. Radio e televisione pubbliche utilizzano il linguaggio dell'estrema destra, ci sono stazioni indipendenti che adottano un linguaggio di stampo fascista. È diventato famoso il caso di un rappresentante del parlamento, un pastore della Chiesa Riformata, che ha ideato e distribuito vergognosi opuscoli antisemiti. Non è stato facile provare la sua colpevolezza, e Chiesa e parlamento l'hanno espulso. In un'altra nazione europea un caso del genere sarebbe stato inconcepibile, inimmaginabile. Ma non voglio insistere troppo su questo argomento, soprattutto perché, in vista delle prossime elezioni, sono molti coloro che vorrebbero trasformare quest'uomo in una vittima.
Sembra che gli Ungheresi non abbiano tratto i dovuti insegnamenti dalla realtà dell'Olocausto e dei campi di concentramento.
Gli ungheresi non provano alcun senso di colpa e affermano la propria identità nazionale nei termini più semplici, e cioè dichiarando di non essere ebrei. Purtroppo sono inclini all'antisemitismo. In passato non era così, non si tratta di un'antica tradizione che ci tramandiamo dall'epoca austro-ungarica. Si tratta di un fenomeno che si è sviluppato nel ventesimo secolo, durante e dopo la seconda guerra mondiale. Capita di frequente che ci si trovi ancora a che fare con antisemiti della prima generazione.
Pensa che Buchenwald e Auschwitz possano ripetersi, anche se, a quanto pare, con il nazismo e il comunismo abbiamo chiuso?
Tutto il male che c'è oggi nel mondo è da imputare al carattere assurdo proprio dell'epoca in cui viviamo. E questa è l'interpretazione più comune. Ma se penso agli eventi accaduti di recente, come lo sterminio compiuto nell'ex Iugoslavia o la strage dell'undici settembre del 2001 in America, non posso fare a meno di credere che non ci sia niente di più attuale della realtà di Auschwitz.

Krzysztof Maslon, Zerowy punkt kultury. Wywiad z Imre Kerteszem (Il Punto Zero della Cultura, Intervista a Imre Kertész, 2002.)




L'ultima parola: Imre Kertéz
Una voce della coscienza

di Stefan Theil

Dicembre 2002- Il romanziere Imre Kertész è rimasto per anni uno sconosciuto, persino in Ungheria, suo paese natale. Il romanzo semiautobiografico dal titolo Essere senza destino, che pubblicò nel 1975, all'epoca passò inosservato. Ma due settimane fa Kertész è entrato a far parte della storia letteraria: l'Accademia Svedese gli ha conferito il Premio Nobel per la Letteratura proprio per quel suo libro commovente in cui ricorda l'anno trascorso, come giovane ebreo, nei campi di concentramento nazisti della seconda guerra mondiale. È il primo libro in lingua ungherese e il primo che tratti dell'Olocausto a ricevere l'onore di questo premio. A consegna avvenuta, Kertész ha rilasciato un'intervista a Stefan Theil, giornalista di Newsweek. Eccone alcuni estratti:


D: Lei ha dichiarato di sentirsi fortunato di essere stato ad Auschwitz. La prego di scusarmi, ma mi sembra un'affermazione scioccante.
R: Nel campo di concentramento ho vissuto momenti di profonda felicità. Non può immaginare che cosa si provi a ottenere il permesso di restarsene distesi su uno dei letti dell'ospedale del campo, o ad avere anche solo dieci minuti di tregua mentre si sta compiendo una fatica indescrivibile. Anche guardare in faccia la morte è una sorta di felicità. La semplice sopravvivenza diventa la libertà più grande.

D: Il tema dominante della sua scrittura è rappresentato dall'Olocausto, che lei definisce eredità dell'Europa intera.
R: Auschwitz è l'incarnazione estrema di un evento del tutto nuovo nella storia dell'Europa: la dittatura totalitaria. I regimi totalitari del ventesimo secolo (fascismo e comunismo) hanno prodotto un nuovo tipo di essere umano. Hanno costretto le persone a operare una scelta che mai prima di allora erano state costrette a operare: se rientrare tra le vittime oppure tra i persecutori. Persino la sopravvivenza implicava un certo collaborazionismo, una serie di compromessi da accettare per procurarsi un pezzo di pane più grande da portarsi a casa. Una simile scelta ha reso deformi milioni di europei.

D: Ma l'epoca dei regimi totalitari in Europa non è finita nel 1989?
R: Dopo il 1989, nessuno ha più voluto ammettere di aver scelto di collaborare. All'improvviso sono diventati tutti dissidenti. Una bugia ha sostituito l'altra, e questo è un problema che tutti i paesi dell'est europeo si trovano ancora a dover affrontare.

D: Dopo essere rimasta per decenni isolata dall'occidente per la presenza della Cortina di Ferro, l'Ungheria, suo paese d'origine, nel 2004 entrerà a far parte dell'Unione Europea. Significa che la divisione a lungo esistita in Europa adesso non c'è più?
R: È possibile che si torni all'unità economica, ma sono molte le ferite psicologiche di cui non abbiamo tenuto conto. Gli antichi nazionalismi che sono esplosi nelle guerre dei Balcani, per esempio. E poi l'Europa dell'est non ha fiducia nell'Unione Europea, che dal 1989 ha impiegato troppo tempo a espandersi. All'inizio eravamo tutti entusiasti all'idea di un Europa finalmente riunita, ma poi che cosa è successo? Non abbiamo fatto altro che assistere impotenti al compiersi di ulteriori genocidi, senza che l'Europa muovesse un dito. Magari esisteranno pure dei legami a livello economico o finanziario, ma quello che ancora non si è formato è lo spirito europeo, un'identità comune che ci unisca e che vada oltre i singoli nazionalismi.

D: In questi giorni si parla molto dell'identità dell'Europa e di quanto i valori che incarna siano diversi rispetto a quelli americani.
R: In Europa c'è bisogno di delineare un'identità capace di amare l'America, perché l'Europa è in debito con l'America. Non dimenticherò mai il giorno in cui l'esercito statunitense mi liberò da Buchenwald. Se durante la guerra fredda la Germania è riuscita a ritagliarsi un posto tranquillo tra le nazioni occidentali e a sistemare finalmente le cose con la Francia, è stato solo grazie alla protezione americana. E non dimentichiamo che l'America si fonda proprio su quello che tra gli ideali dell'Europa è il più bello.

D: Il nuovo secolo ci ha portato un nuovo genere di orrore: il terrorismo.
R: In America e nell'Occidente, la democrazia è riuscita a sopravvivere allo stalinismo e alla minaccia di una terza guerra mondiale. Dobbiamo assicurarci che sopravviva anche al terrorismo. Il terrore è come il totalitarismo, può prendere il controllo delle nostre vite - e allora finiremmo davvero per vivere al buio. Sembrerà strano, ma noi europei non riusciamo più a concepire l'idea di farci esplodere su un autobus pieno di gente, eppure il terrorismo moderno è nato proprio nell'Europa dell'Ottocento. Il vero grande pericolo non è il conflitto tra le nazioni, bensì quello tra il nazionalismo e il fanatismo, tra le culture che non riescono a comprendersi a vicenda. Una vera e propria giungla di preoccupazioni e di interrogativi, piena di grosse radici pronte a farci inciampare e di animali selvaggi che ci guardano dritto negli occhi.

D: Lei è il primo ungherese ad aver vinto il premio Nobel per la letteratura. Che cosa si prova a essere accolti da eroe?
R: È una sensazione molto strana per me, perché io non mi sento per niente un eroe. Ho sempre visto la scrittura come un fatto privato. Per anni e anni non ho avuto un pubblico e ho vissuto ai margini della società.

D: Ha dichiarato che è più facile scrivere letteratura in presenza di una dittatura piuttosto che in democrazia.
R: È stata un'affermazione troppo generica, ma in essa si nasconde un fondo di verità. Poiché non scrivevo quello che il governo comunista voleva leggere, sono stato tagliato fuori e costretto a vivere da solo con il mio lavoro. Non ho mai pensato che il mio libro un giorno avrebbe potuto essere pubblicato, per cui mi sono preso la libertà di essere radicale quanto volevo in quello che scrivevo, di scavare in profondità quanto mi pareva. In una democrazia ti devi trovare una nicchia di mercato, devi assicurarti che il tuo romanzo sia "interessante" e "spettacolare". E forse è questa la censura più severa.




(Traduzioni di Federica Merani)



Imre Kertész è Premio Nobel per la Letteratura 2002.


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