Scrittore indipendente, l'ungherese Imre
Kertész (nato nel 1929) è stato prigioniero ad Auschwitz e Buchenwald.
L'esperienza del campo di concentramento fa da filo conduttore all'interno della
sua opera.
Come di certo saprà, oggi in Polonia si sta affrontando
il caso Jedwabne, l'espiazione della colpa (per la società difficile da
accettare) di antisemitismo e di partecipazione al crimine commesso contro il
popolo ebreo. Che aspetto assume, in Ungheria, questa problematica?
L'olocausto
non fa parte del retaggio spirituale ungherese. In Ungheria non esiste niente
di simile, ogni tentativo di tornare indietro di cinquant'anni viene bloccato.
Perché?
Per
diverse ragioni, in parte legate alla storia, in parte legate alla situazione
politica attuale.
Oggi in Ungheria si verificano manifestazioni di antisemitismo?
Sì,
certo. Anche nell'ambito della vita politica. Radio e televisione pubbliche utilizzano
il linguaggio dell'estrema destra, ci sono stazioni indipendenti che adottano
un linguaggio di stampo fascista. È diventato famoso il caso di un rappresentante
del parlamento, un pastore della Chiesa Riformata, che ha ideato e distribuito
vergognosi opuscoli antisemiti. Non è stato facile provare la sua colpevolezza,
e Chiesa e parlamento l'hanno espulso. In un'altra nazione europea un caso del
genere sarebbe stato inconcepibile, inimmaginabile. Ma non voglio insistere troppo
su questo argomento, soprattutto perché, in vista delle prossime elezioni,
sono molti coloro che vorrebbero trasformare quest'uomo in una vittima.
Sembra
che gli Ungheresi non abbiano tratto i dovuti insegnamenti dalla realtà
dell'Olocausto e dei campi di concentramento.
Gli ungheresi non provano
alcun senso di colpa e affermano la propria identità nazionale nei termini
più semplici, e cioè dichiarando di non essere ebrei. Purtroppo
sono inclini all'antisemitismo. In passato non era così, non si tratta
di un'antica tradizione che ci tramandiamo dall'epoca austro-ungarica. Si tratta
di un fenomeno che si è sviluppato nel ventesimo secolo, durante e dopo
la seconda guerra mondiale. Capita di frequente che ci si trovi ancora a che fare
con antisemiti della prima generazione.
Pensa che Buchenwald e Auschwitz
possano ripetersi, anche se, a quanto pare, con il nazismo e il comunismo abbiamo
chiuso?
Tutto il male che c'è oggi nel mondo è da imputare
al carattere assurdo proprio dell'epoca in cui viviamo. E questa è l'interpretazione
più comune. Ma se penso agli eventi accaduti di recente, come lo sterminio
compiuto nell'ex Iugoslavia o la strage dell'undici settembre del 2001 in America,
non posso fare a meno di credere che non ci sia niente di più attuale della
realtà di Auschwitz.
Krzysztof Maslon,
Zerowy punkt kultury. Wywiad z Imre Kerteszem (Il Punto Zero della Cultura,
Intervista a Imre Kertész, 2002.)
L'ultima
parola: Imre Kertéz
Una voce della coscienza
di
Stefan Theil
Dicembre 2002- Il romanziere Imre Kertész
è rimasto per anni uno sconosciuto, persino in Ungheria, suo paese natale.
Il romanzo semiautobiografico dal titolo Essere senza destino, che pubblicò
nel 1975, all'epoca passò inosservato. Ma due settimane fa Kertész
è entrato a far parte della storia letteraria: l'Accademia Svedese gli
ha conferito il Premio Nobel per la Letteratura proprio per quel suo libro commovente
in cui ricorda l'anno trascorso, come giovane ebreo, nei campi di concentramento
nazisti della seconda guerra mondiale. È il primo libro in lingua ungherese
e il primo che tratti dell'Olocausto a ricevere l'onore di questo premio. A consegna
avvenuta, Kertész ha rilasciato un'intervista a Stefan Theil, giornalista
di Newsweek. Eccone alcuni estratti:
D: Lei ha dichiarato di sentirsi
fortunato di essere stato ad Auschwitz. La prego di scusarmi, ma mi sembra un'affermazione
scioccante.
R: Nel campo di concentramento ho vissuto momenti di profonda
felicità. Non può immaginare che cosa si provi a ottenere il permesso
di restarsene distesi su uno dei letti dell'ospedale del campo, o ad avere anche
solo dieci minuti di tregua mentre si sta compiendo una fatica indescrivibile.
Anche guardare in faccia la morte è una sorta di felicità. La semplice
sopravvivenza diventa la libertà più grande.
D: Il tema
dominante della sua scrittura è rappresentato dall'Olocausto, che lei definisce
eredità dell'Europa intera.
R: Auschwitz è l'incarnazione
estrema di un evento del tutto nuovo nella storia dell'Europa: la dittatura totalitaria.
I regimi totalitari del ventesimo secolo (fascismo e comunismo) hanno prodotto
un nuovo tipo di essere umano. Hanno costretto le persone a operare una scelta
che mai prima di allora erano state costrette a operare: se rientrare tra le vittime
oppure tra i persecutori. Persino la sopravvivenza implicava un certo collaborazionismo,
una serie di compromessi da accettare per procurarsi un pezzo di pane più
grande da portarsi a casa. Una simile scelta ha reso deformi milioni di europei.
D:
Ma l'epoca dei regimi totalitari in Europa non è finita nel 1989?
R:
Dopo il 1989, nessuno ha più voluto ammettere di aver scelto di collaborare.
All'improvviso sono diventati tutti dissidenti. Una bugia ha sostituito l'altra,
e questo è un problema che tutti i paesi dell'est europeo si trovano ancora
a dover affrontare.
D: Dopo essere rimasta per decenni isolata dall'occidente
per la presenza della Cortina di Ferro, l'Ungheria, suo paese d'origine, nel 2004
entrerà a far parte dell'Unione Europea. Significa che la divisione a lungo
esistita in Europa adesso non c'è più?
R: È possibile
che si torni all'unità economica, ma sono molte le ferite psicologiche
di cui non abbiamo tenuto conto. Gli antichi nazionalismi che sono esplosi nelle
guerre dei Balcani, per esempio. E poi l'Europa dell'est non ha fiducia nell'Unione
Europea, che dal 1989 ha impiegato troppo tempo a espandersi. All'inizio eravamo
tutti entusiasti all'idea di un Europa finalmente riunita, ma poi che cosa è
successo? Non abbiamo fatto altro che assistere impotenti al compiersi di ulteriori
genocidi, senza che l'Europa muovesse un dito. Magari esisteranno pure dei legami
a livello economico o finanziario, ma quello che ancora non si è formato
è lo spirito europeo, un'identità comune che ci unisca e che vada
oltre i singoli nazionalismi.
D: In questi giorni si parla molto dell'identità
dell'Europa e di quanto i valori che incarna siano diversi rispetto a quelli americani.
R: In Europa c'è bisogno di delineare un'identità capace
di amare l'America, perché l'Europa è in debito con l'America. Non
dimenticherò mai il giorno in cui l'esercito statunitense mi liberò
da Buchenwald. Se durante la guerra fredda la Germania è riuscita a ritagliarsi
un posto tranquillo tra le nazioni occidentali e a sistemare finalmente le cose
con la Francia, è stato solo grazie alla protezione americana. E non dimentichiamo
che l'America si fonda proprio su quello che tra gli ideali dell'Europa è
il più bello.
D: Il nuovo secolo ci ha portato un nuovo genere
di orrore: il terrorismo.
R: In America e nell'Occidente, la democrazia
è riuscita a sopravvivere allo stalinismo e alla minaccia di una terza
guerra mondiale. Dobbiamo assicurarci che sopravviva anche al terrorismo. Il terrore
è come il totalitarismo, può prendere il controllo delle nostre
vite - e allora finiremmo davvero per vivere al buio. Sembrerà strano,
ma noi europei non riusciamo più a concepire l'idea di farci esplodere
su un autobus pieno di gente, eppure il terrorismo moderno è nato proprio
nell'Europa dell'Ottocento. Il vero grande pericolo non è il conflitto
tra le nazioni, bensì quello tra il nazionalismo e il fanatismo, tra le
culture che non riescono a comprendersi a vicenda. Una vera e propria giungla
di preoccupazioni e di interrogativi, piena di grosse radici pronte a farci inciampare
e di animali selvaggi che ci guardano dritto negli occhi.
D: Lei è
il primo ungherese ad aver vinto il premio Nobel per la letteratura. Che cosa
si prova a essere accolti da eroe?
R: È una sensazione molto strana
per me, perché io non mi sento per niente un eroe. Ho sempre visto la scrittura
come un fatto privato. Per anni e anni non ho avuto un pubblico e ho vissuto ai
margini della società.
D: Ha dichiarato che è più
facile scrivere letteratura in presenza di una dittatura piuttosto che in democrazia.
R:
È stata un'affermazione troppo generica, ma in essa si nasconde un fondo
di verità. Poiché non scrivevo quello che il governo comunista voleva
leggere, sono stato tagliato fuori e costretto a vivere da solo con il mio lavoro.
Non ho mai pensato che il mio libro un giorno avrebbe potuto essere pubblicato,
per cui mi sono preso la libertà di essere radicale quanto volevo in quello
che scrivevo, di scavare in profondità quanto mi pareva. In una democrazia
ti devi trovare una nicchia di mercato, devi assicurarti che il tuo romanzo sia
"interessante" e "spettacolare". E forse è questa la
censura più severa.