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Seduto davanti al letto
d'ospedale osservo il tuo profilo simile a quello della montagna di Celano, la
Serra, che protegge il paese dal gelo invernale. La stessa severità, la
stessa marcata superbia.
"Mi riconosci?", ti domando.
Non mi rispondi.
"Sono
tuo figlio Renzo, ho qualche anno anch'io, annuso la mia vecchiaia. La mia ricchezza,
quella che ho guadagnato, è di natura spirituale".
La voce mi muore
in gola. Nella stanza non c'è nessuno. Ti accarezzo, strofino la fronte
sulla tua spalla. Sei fredda. Mi assicuro che il cuore batta.
"Se non
avesse un cuore forte sarebbe già deceduta" mi ha detto il giovane
medico che ti ha visitata da ultimo.
"Che vita insensata che ho fatto,
madre", ti dico.
Il primo ictus ti colpì eri sola in casa.
Aggiustavi la tenda della porta, quella che non doveva permettere alle mosche
di entrare. Ti ammucchiasti in un angolo. Non avevi la forza per rialzarti in
piedi.
Passasti un paio d'ore in quella posizione. Poi zia Nazzarena bussò
per invitarti ad andare in piazza, che era giorno di mercato.
Il silenzio la
spaventò. Spinse la porta che si aprì.
"Elisa, cosa ti è
successo?". Ti prese per le braccia e ti risollevò dal pavimento.
"Non
è niente, su, non è niente", le dicesti.
Quando al telefono
volli sapere i particolari dell'accaduto, mi accorsi che facevi fatica a trovare
le parole.
"Ma tu chi sei? Perché vuoi sapere queste cose?",
mi dicesti con una voce roca.
Mi era rimasto impresso uno scrittore
irlandese che aveva avuto una madre molto religiosa. In punto di morte lei gli
chiese d'inginocchiarsi. Rifiutò.
Che avrei fatto io se mi avessi proposto
la stessa cosa? Mi sarei inginocchiato, chiedendoti perdono per quando mi ero
strappato la catenina dal collo o sarei rimasto immobile, pieno di sensi di colpa
come capitò allo scrittore irlandese che poi iniziò il suo capolavoro
proprio con quell'episodio?
Mi ritenni fortunato.
Tu non parlavi più.
Ti scendeva una lacrima sulla guancia sinistra.
Se avessi avuto un crocifisso
tra le mani lo avrei baciato e subito dopo l'avrei posato sul tuo petto.
Era
il crocifisso la cosa che avevi amato di più nella tua vita. Avrei voluto
essere io quel cadaverino appeso alla croce, tanto avevo desiderato il tuo amore.
Ma
come fartelo capire adesso che riconsegnavi l'anima a Dio?
Mentre tu pregavi
per me durante le manifestazioni violente in strada, io pregavo di essere ferito,
di pagare con il mio corpo la ribellione nei tuoi confronti.
Ah, quanto strabismo
tra noi due!
Non appartengo a nessuna religione, madre.
L'unica fede
che ho provato nella mia vita è una forma di superstizione per le parole,
come una protesi, una stampella. Sono dunque per questo un'anima nera? Se non
ho invocato Dio, non ho nemmeno adorato il suo contrario. La mia cultura, crescendo,
ha reciso la radice stessa della fede. E se ho tremato dinanzi alla tua sicurezza
sull'esistenza dell'inferno, l'ho fatto per una mia viltà.
Ricordo il
mio professore di filosofia che al Liceo Mamiani ci spiegò che bastava
guardare un formaggio guasto per vedere apparire un vermetto bianco. È
così che spiegava la nascita della vita. Ci abituò a vedere la società
divisa tra ricchi e poveri in forma di classi sociali che si combattevano tra
loro. La religione per lui era l'oppio dei popoli. Quell'oppio mi spingeva a bestemmiare
per avere subito dopo la ricompensa del castigo.
Per la tua Chiesa vivo in
peccato mortale, sono fuori dal recinto. Mi sono sposato due volte ed entrambe
fuori dei dettami religiosi. Sono un recidivo, madre. Ho ucciso, tradito, fornicato,
mi sono suicidato diverse volte, almeno in sogno.
Mi sono riconosciuto un essere
umano, difettoso, disperato.
L'unica eternità a cui ho creduto è
quella dell'arte.
Oggi non credo più nemmeno a quella.
Sono per questo
pronto ad essere arrostito dalle fiamme eterne?
Sei rimasta la mia spina nel
cuore.
Sì, madre, il mondo dei morti è con noi vivi, attorno
a noi. Basta porgere l'orecchio. Viviamo dentro un mondo invisibile, frastornati
dallo sbrilluccichio della realtà.
La tua religione mi ha fatto appassionare
a pratiche magiche antichissime. Andando avanti negli anni neppure più
a quelle. Sono diventato superstizioso, un uomo ridicolo, grottesco.
Ho paura
di tutto.
Vivo nell'incubo di qualcosa di tremendo che ci può cancellare
dalla faccia della Terra.
Come difendersi?
Scarico l'energia negativa ingenuamente
con l'indice e l'anulare diritti, con il culto del numero tre.
Se mi segno,
lo devo fare tre volte. L'utopia si è consumata da un pezzo. Se penso alle
disgrazie che potrebbero accadere alla mia famiglia, mi rivolgo a una statuina
di gesso che ho nel mio studio. È un santo del Sud, san Nicolò.
Lo bacio, lo tratto come un amuleto.
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Mi ero
appena coricato sul letto di un albergo abruzzese. Ero stato invitato da un gruppo
di signore a presentare il mio ultimo libro.
Avevo risposto alle loro domande,
quieto. Mi ero intrattenuto con loro fino alle dieci di sera. Avevo cenato ed
ero rientrato in camera.
Sul comodino avevo un libro di Sergio Quinzio che
avevo comperato proprio quella mattina.
Iniziai a leggere il capitolo finale:
"Il Signore, come un ladro di notte".
La frase di Paolo nella prima
lettera ai Tessalonicesi mi stupì: "Come un ladro di notte, così
verrà il giorno del Signore. E quando si dirà: "Pace e sicurezza",
allora all'improvviso li colpirà la rovina, come le doglie d'una donna
incinta; e nessuno scamperà".
Nella camera accanto, che sapevo
vuota, sentii un gran botto.
Era come se un corpo strofinasse alla parete e
bussasse più volte con le nocche.
Rabbrividii. Poi pensai a una coppia
in amore, che si picchiasse per abbracciarsi di nuovo.
La mattina dopo seppi
che tu eri morta proprio in quei minuti in cui avevo udito il botto di quella
camera vuota.
Era sopraggiunta la morte, come una ladra di notte a frantumare
la mia famiglia d'origine, a cancellare il corpo di mia madre.
No, non era
l'avvento del Signore che tu avevi atteso per tutta la vita, era il tuo trapasso.
Con
te moriva gran parte di me.
Anche i tuoi funerali, come quelli di mio
padre, furono veloci.
I pochi parenti che erano scesi dalla Marsica per darti
l'ultimo saluto erano dentro la stanzetta della casa di cura di Primavalle. I
ragazzotti delle onoranze funebri sigillarono in un amen la bara di zinco e la
infilarono nel retro di una macchina nera.
Mia moglie non smetteva di piangere.
Mio fratello Vittorio e mia cognata la guardavano freddi.
Filando sul
raccordo anulare verso il cimitero di Prima Porta, il nostro piccolo convoglio
funebre fu sorpassato da un altro convoglio.
Dentro una cappellina, un prete
di colore storpiava le parole italiane del provocandoci un leggero sorriso.
In
attesa di entrare per sempre nella tua nicchia, ti sistemarono in un grande magazzino
zeppo di bare in transito.
I fiori accatastati in un angolo erano diventati
una montagna.
"Ragazzi, è pronto, mangiamo", dice mia
moglie invitandoci a consumare il pranzo, proprio come facevi tu nella grande
cucina marsicana.
Frutto del ventre tuo. Ho sognato un volto dormiente, bianco,
nascosto in parte da una coperta nera.
Sembravi viaggiare all'interno di un'astronave,
nel cielo nero, senza una direzione precisa.
Sono trascorsi sette anni
dalla tua morte, madre, e ogni anno a primavera prendo la macchina e mi avvio
verso il tuo cimitero.
Prima di ritrovare la strada giusta, mi perdo per vie
sconosciute.
Poi finalmente imbocco il tunnel e all'uscita, sulla destra, ecco
l'ingresso di Prima Porta.
Nella tua collinetta ci sono nicchie ancora fresche
di calce.
Mi ricordo della nicchia di mio padre. Parcheggio ed entro in un
palazzetto buio, dove i morti mi guardano stupiti tra i fiori di plastica.
Mio
padre è situato al piano terra. Allungo la mano e bacio la sua foto. Cambio
i fiori e dico un Pater spezzato. Poi mi allontano. Sento i miei passi rimbombare.
Rientro in macchina e sono da te, madre.
Per allungare la mano e strofinare
con i polpastrelli la tua foto sono obbligato a salire una scala molto alta che
arriva fino alla prima fila.
Cambio i fiori nel vaso. Avvicino infine le labbra
al lunotto, lo sfioro e mi sento chiudere la gola.
La foto è quella
degli ultimi anni, prima dell'ictus.
Hai un'aria vispa, come se t'interessasse
l'obiettivo.
Riscendo dalla scala pensieroso.
Davanti alla tua nicchia c'è
una distesa di campi incolti. Sei situata alla periferia del grande cimitero.
Godi di un bel panorama, non c'è che dire.
Rientro in macchina e guido
perdendomi tra le vie che portano al centro della città eterna.
Mi sembra
di girare a vuoto dentro una città dei sogni.
Ora, lo sento,
ti allontani per sempre, madre.
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Elisa non
viene più a trovarmi. La casa dove abita con la nonna è chiusa.
Le sue amichette Chiara e Alessia mi hanno detto che sono andate a vivere in un
altro paese, che loro però non conoscono.
La casa, essendo di proprietà
del Comune, sarà occupata da una nuova famiglia.
Ancora la vedo, la
mia Elisa, ballare al ritmo di Un italiano ad Algeri di Rossini che proveniva
dalla radio accesa.
Perché non mi ha avvertito? Il barista mi ha detto
di aver sentito che i suoi genitori l'avevano rivoluta con loro. Al Comune non
ne sanno nulla. La vecchia aveva sempre regolarmente pagato l'affitto.
Ho pensato
a un rapimento, a una vendetta, a qualcosa di atroce che non mi fa dormire sonni
tranquilli.
Poi ho pensato a lei come a una mazzamurella che aveva allietato
la mia estate solitaria e ho ricominciato a sudare.
Il postino mi ha detto
di aver consegnato alla vecchia un telegramma proprio il giorno prima della scomparsa.
Ho
sognato Elisa con una gonna blu tutta strappata. "Aiutami", mi ha detto,
"sono alla fonte, sepolta in un pozzo".
Mi sono alzato e nel buio
ho raggiunto la fonte del paese. Ho scavato con le mani in un mucchietto di terra
fresca finché non ho visto una zampa di cane. L'ho ricoperta e me ne sono
tornato tra le lenzuola.
L'ultima volta che l'ho vista mi ha chiesto
se i suoi seni erano cresciuti.
"Be', un po' sì", ho risposto.
"Non
sono più una bambina, vero?"
"No, non lo sei più".
"Ma
perché non mi tocchi?", mi fa all'improvviso.
"Sono tuo nonno,
come potrei...", dico sorridendole.
"Il nonno di Alessia la tocca".
"Che
cosa?".
"La tocca, la tocca".
Le prendo le mani, la fisso
negli occhi e le dico: "Stupidina, tu sei mia madre, non posso".
"Ma
va'!", esclama.
"Sei mia madre da ragazzina".
"Basta",
dice. "Se non mi tocchi non ti vengo più a trovare".
Vedo
una siepe di rose canine. Mia madre dice di non coglierle, sono pazze.
Poi scorgo uno scifo di legno con due filari di pane appena sfornati.
Mia madre
porta con eleganza lo scifo sulla sua spasa. Cammina in un equilibrio perfetto.
Sono
sul pianerottolo di casa.
Adesso mia madre, dopo aver poggiato lo scifo in
cucina, si siede su una sedia di paglia con me vicino.
Mi dice di mettermi
in piedi tra le sue gambe aperte. Ha in mano un forbicione come quello che serve
per tosare le pecore. Afferra un ciuffo di capelli e me lo taglia. Poi ancora
un altro ciuffo, fino a radermi i capelli alla maschietta.
Ogni tanto m'innervosisco
ma lei mi stringe con le sue poderose ginocchia.
Torno calmo.
Mi
metto davanti allo specchio del bagno e mi faccio il segno della croce. Ripeto
tre volte il gesto, guardando fisso nei miei occhi.
Recito un'Ave pensando
a te, poi un Pater, rivolto a mio padre.
"Ma dove siete finiti?",
dico ad alta voce.
Parlo da solo. Ho l'impressione di essere morto anch'io.
Mi pizzico le guance.
"Sei stupido e superstizioso" mi dico. "Ma
chi vuoi incantare? Sei rimasto con un pugno di mosche. Né Dio né
il Diavolo, rassegnati a morire".
Esco dal bagno e corro verso il letto.
Mi ci butto a faccia sotto.
Non pensavo che con il passare degli anni anche
la foto tua si scolorisse.
Ho pochissime foto di te, e tutte ritagliate di
quando a quarant'anni non ti piacevi e subito sforbiciavi quelle parti che non
volevi che si vedessero.
Sembrano ritratti cubisti. Il Nulla arriva quando
anche il ricordo scompare.
Se guardo il ritratto tuo di quando, diciannovenne
e con i capelli alla maschietta, convolasti a nozze con mio padre, quel viso stupito
mi commuove.
Sei diventata un'immagine anche tu, incorniciata accanto a quella
di mio padre vestito da militare.
Così la mia casa si popola
di gente, una vera folla, vestita con strane lenzuola grigie. Alcuni sono parenti
lontani morti da tanto, come zia Genoveffa che incontrandomi mi saluta con un
sorriso ironico.
Ma guarda chi si vede, la bambina con cui scoprii per la prima
volta il sesso femminile, Aduccia, vestita con un lenzuolino rosa, poi mio zio
Antonio ucciso dai tedeschi con il petto ancora sanguinante. Dalla cucina si muove
un vecchio con la testa appiccata al petto.
Non riesco a guardargli gli occhi.
È
mio nonno paterno.
"Com'è stato che sei morto?", gli dico.
Non risponde e continua a camminare.
Cerco mio padre ma non lo vedo. Due bambini
mi vengono incontro: assomigliano alle foto di Fernando e Fernanda che sono nel
cimitero di Celano.
E poi sfilano tutte le sorelle di mia madre, compresa zia
Nazzarena che mi dà un buffetto sulle guance.
"Quanti ne siete
morti", esclamo. "Quasi non ho più parenti!".
All'improvviso
compare Elisa con un lenzuolino azzurro e mi si gela il sangue.
"Ma allora
sei morta anche tu?", grido.
Muta, si affretta a raggiungere le altre
ombre.
Ha fretta di prendere la via della grande finestra come gli altri e
spiccare il volo verso il Gran Sasso.
Sull'autostrada per Roma mi sono fermato
in diverse piazzole di sosta.
Ogni volta mi sono arrotolato una sigaretta e
mi sono messo a fumare, voltando la schiena alle macchine veloci. I miei occhi
si sono persi dietro il verde delle vallate. Ma non sono rimasto solo. La piccola
folla delle ombre dei miei morti mi ha protetto, guardando anche loro tranquille
il panorama. Poi, all'improvviso, le ombre sono scomparse e sono tornati i chiassosi
mazzamurelli a sconvolgermi i capelli come folate di vento.
Mi sono sentito
appesantito da qualcuno di loro che mi è saltato sulla schiena. Mi hanno
svitato prima un braccio, poi l'altro, come fossi un manichino. Poi è stata
la volta delle gambe, infine della testa. Si sono ripresi le loro membra. "Non
sono più io", mi sono detto, riavvitandomi le membra tozze e pelose.
Sfigurato,
sono risalito in macchina.
Sul raccordo ho faticato per ritrovare l'uscita.