Tangeri
Edmondo De Amicis
(...) Io mi vergogno
quando mi passa accanto un bel moro vestito in gala. Paragono il mio cappellaccio
al suo turbante di mussolina, la mia misera giacchetta al suo lungo caffettano
color di gelsomino o di rosa, l'angustia, insomma, del mio vestiario grigio e
nero, all'ampiezza, al candore, alla dignità semplice e gentile del suo, e mi
par di fare la figura d'uno scarabeo accanto a una farfalla. Sto qualche volta
lungo tempo a contemplare, alla finestra della mia camera, un palmo di calzoncini
color di sangue e una babbuccia color giallo oro, che spuntano di dietro ad un
pilastro, giù nella piazzetta, e ci provo un piacere, che non ne posso staccare
lo sguardo. E più d'ogni cosa m'innamora e mi mette invidia il caìc: quel lungo
pezzo di lana o di seta bianchissima, a strisce trasparenti, che si avvolge intorno
al turbante, casca sulla schiena, gira intorno alla vita, si ripiega sulle spalle
e ridiscende fino ai piedi, e velando vagamente i colori pomposi dei panni, ad
ogni alito di vento tremola, ondeggia, si gonfia, par che s'accenda ai raggi del
sole, e dà a tutta la persona l'apparenza vaporosa d'una visione. In questo
bellissimo velo avvolge e stringe sé e la sposa il musulmano innamorato nella
notte nuziale.
Chi non abbia visto, non può immaginare fino a che
punto giunga, presso gli Arabi, l'arte di sdraiarsi. In angoli dove noi ci troveremmo
imbarazzati a mettere un sacco di cenci o un fastello di paglia, essi trovano
il modo di adagiarsi come sopra un letto di piume. Si arrotondano intorno a tutte
le sporgenze, riempiono tutte le cavità, si appiccicano ai muri come bassorilievi,
si allungano e si schiacciano sul terreno in maniera da non parere più che cappe
bianche distese ad asciugare, si attorcigliano, pigliano la forma di palle, di
cubi, di mostri senza braccia, senza gambe, senza testa; così che le strade e
le piazze della città paiono seminate di cadaveri e di tronchi umani, come dopo
una strage.
Più considero questa gente, e più ne ammiro la nobiltà
dei loro movimenti. Fra noi non v'è quasi alcuno che o per l'impedimento degli
abiti, o per la strettezza delle calzature o per vezzo, non abbia un'andatura
contraffatta. Costoro si muovono con la libera eleganza di superbi animali selvaggi.
Cerco e non trovo in mezzo a loro nemmeno uno di quei mille atteggiamenti da rodomonte,
da ballerino e da innamorato svenevole, ai quali abbiamo l'occhio abituato nei
nostri paesi. Tutti hanno nel loro modo di camminare qualcosa di una compostezza
di un sacerdote, della maestà d'un re e della disinvoltura di un soldato. Ed è
strano che quella stessa gente che sta tante ore del giorno accovacciata, immobile,
quasi intorpidita, spieghi, non appena è scossa dalla passione, un vigore di gesto
e di voce che tocca la frenesia. Ma anche nel prorompere delle passioni più violente,
serbano una sorta di dignità tragica, che potrebbe servir d'esempio a molti attori.
Ricorderò per molto tempo l'arabo di stamane, un vecchio alto e consunto, il quale,
avendo ricevuto, per quello che si disse, una mentita da un tale con cui fino
allora era andato disputando pacatamente, impallidì, dette indietro, e poi si
slanciò giù per la strada coprendosi il viso colle mani convulse e gettando un
urlo di rabbia e di dolore. Io non ho mai visto una figura più terribile e più
bella. Ho finalmente veduto due
santi, che vuoi dire idioti o pazzi, poiché qui, come in tutta l'Africa settentrionale,
è venerato come santo colui al quale Dio, in segno di predilezione, ha tolto la
ragione per ritenerla prigioniera nel cielo. Il primo era davanti ad una bottega,
sulla strada principale. Lo vidi da lontano e mi fermai. Sapevo che ai santi tutto
è lecito, e non volevo espormi a ricevere una legnata tra capo e collo come il
signor Sourdeau, console di Francia, o uno sputo nel viso come il signor Drummond
Hay. Ma l'interprete che m'accompagnava mi spinse innanzi dicendomi: - Vada franco:
i santi di Tangeri han messo testa a partito dopo che le Legazioni fecero dare
degli esempi sonori, e in ogni caso gli arabi stessi le servirebbero da scudo,
per impedire al santo di compromettersi. - Allora passai davanti a quello
spauracchio, osservandolo attentamente. Era un vecchio, tutto faccia e tutto pancia,
coi capelli bianchi lunghissimi, una barbaccia che gli scendeva fin sul petto,
un mantello rosso sbrindellato sulle spalle e in una mano una piccola lancia colla
punta dorata. Stava seduto in terra, colle gambe incrociate e le spalle al muro,
guardando con aria annoiata la gente che passava. Mi soffermai, mi guardò. Ci
siamo - pensai - ora lavora la lancia. - Ma la lancia ebbe giudizio, e fui anzi
meravigliato dell'espressione tranquilla e intelligente di quegli occhi e d'un
risolino astuto che vi brillava dentro, come se volesse dire: - Tu aspetti ch'io
ti dia addosso, eh? A esser minchioni! Era certamente uno di quegli impostori
che, sani di mente, si fingono pazzi per godere i privilegi della santità. Gli
gettai una moneta ch'egli raccolse con sbadataggine affettata, e tornai verso
la piazzetta dove, appena arrivato, ne incontrai un altro. Questo era santo davvero.
Era un mulatto, quasi tutto nudo, appena umano nel viso, tutt'una crosta immonda
dalla testa ai piedi, e secco a segno che lasciava veder lo scheletro osso per
osso, e pareva un prodigio che vivesse. Girava lentamente per la piazza sorreggendo
a fatica una gran bandiera bianca, che i ragazzi correvano a baciare, e un altro
pezzente, accompagnato da due rabbiosi suonatori di piffero e di tamburo, chiedevano
la limosina per lui di bottega in bottega. Gli passai accanto, mi mostrò il bianco
dell'occhio; lo fissai, si fermò; mi parve che apparecchiasse qualcosa in bocca,
mi scansai lesto lesto e non mi volsi più indietro. - Ha fatto bene, mi disse
l'interprete, a scansarsi, perché, se avesse sputato, lei non avrebbe avuto dagli
altri arabi altra consolazione che di sentirsi dire: Non asciugare, fortunato
Cristiano! Non cancellare il segno della benevolenza di Dio! Te benedetto, che
il santo t'ha sputato sul viso!.
Salimmo alla Casba, dov'era la casa
del ministro. Una schiera di soldati faceva ala davanti alla porta. Si attraversò
un giardino, e s'entrò in una sala spaziosa, dove vennero incontro all'Incaricato
d'affari il ministro degli esteri e il governatore di Tangeri. In fondo alla sala
v'era un'alcova con un sofà e alcune seggiole; in un angolo un letto modestissimo;
sotto il letto, un servizio da caffè: le pareti bianche e nude: il pavimento coperto
di stuoie. Sedemmo nell'alcova. I due personaggi che ci stavano davanti formavano
tra loro un contrasto ammirabile. L'uno, Sidi-Bargas, il ministro, era un bel
vecchio, colla barba bianca, la carnagione chiara, due occhi d'una vivacità indescrivibile
e una gran bocca, sempre sorridente, che lasciava vedere due grosse file di denti
bianchi come l'avorio: un viso che rivelava a primo aspetto l'astuzia finissima
e l'indole meravigliosamente pieghevole richiesta dalla natura del suo ministro.
Gli occhiali, la tabacchiera, certi movimenti cerimoniosi del capo e della mano,
gli davan quasi l'aria di un diplomatico europeo. Si vedeva l'uomo avvezzo a trattare
con cristiani, superiore, forse, a molte superstizioni e a molti pregiudizi del
suo popolo, un musulmano di manica larga, un moro inverniciato di civiltà. L'altro,
il Caid Misfiui, pareva l'incarnazione del Marocco. Era un omo di una cinquantina
d'anni, di color bronzino, di barba nera, membruto, cupo, taciturno; una faccia
che pareva non avesse mai sorriso. Teneva il capo basso, gli occhi a terra, le
sopracciglia corrugate: si sarebbe detto che gl'ispiravano un profondo senso di
ripugnanza. Io lo guardavo di sott'occhio, con diffidenza. Mi pareva che quell'uomo
non dovesse mai aprir bocca altro che per far rotolare una testa ai suoi piedi.
Tutti e due avevano in capo un gran turbante di mussolina ed erano ravvolti dalla
testa ai piedi in un caic trasparente. L'Incaricato d'affari presentò a questi
due personaggi, per mezzo dell'interprete, il Comandante di fregata e il capitano.
Eran due ufficiali: la presentazione non richiedeva commenti. Presentando me,
invece, bisognava spiegare presso a poco che mestiere facessi. L'Incaricato d'affari
lo spiegò in termini iperbolici. Sidi-Bargas stette un po' pensando e poi disse
alcune parole all'interprete il quale tradusse: - Sua Eccellenza domanda
perché avendo codesta abilità nella mano, Vostra Signoria la porta coperta. Vostra
Signoria dovrebbe levarsi il guanto perché si potesse vedere la mano. Il complimento
era così nuovo per me che non trovai subito una risposta. - Non è necessario,
- osservò l'Incaricato d'affari, - perché la facoltà risiede nella mente e non
nella mano. Pareva che fosse tutto detto. Ma quando un moro s'attacca a una
metafora non la lascia così facilmente. - È vero, fece rispondere sua Eccellenza,
- ma la mano essendo lo strumento è anche il simbolo della facoltà della mente.
La discussione si prolungò per qualche altro minuto. - È un dono d'Allah
- conchiuse finalmente Sidi-Bargas. - Avaro Allah! Dissi in cuor mio. La conversazione
durò un pezzo e s'aggirò quasi sempre intorno al viaggio. Fu una lunga citazione
di nomi di governatori, di provincie, di fiumi, di valli, di monti, di pianure,
che avremmo trovato sul nostro cammino: nomi che mi suonavano all'orecchio come
altrettante promesse di avvenimenti meravigliosi, e mettevano in gran moto la
mia immaginazione. Che cos'era la Montagna rossa? Che avremmo veduto sulle sponde
del Fiume delle Perle? Che uomo doveva essere un governatore chiamato Figlio della
cavalla? Il nostro Incaricato fece varie domande riguardo alle distanze, all'acqua,
all'ombra. Sidi-Bargas aveva tutto sulla punta delle dita, e da questo lato bisogna
riconoscere ch'era molto al di sopra di Visconti Venosta, il quale non sarebbe
certo in grado di dire a un ambasciatore straniero quante sorgenti d'acqua pura
e quanti gruppi d'alberi si trovano sulla strada da Napoli a Roma. Augurò infine
buon viaggio colla formola: - La pace sia sulla vostra strada. - e accompagnò
l'Incaricato fin sull'uscio, stringendo la mano a tutti coll'apparenza d'una grande
cordialità. Il Caid Misfiuì, sempre muto, ci porse la punta delle dita, senza
guardarci nel viso. - La mano, veh! - dissi tra me stendendoli la mia. - Non la
testa.
1878
( Tratto da Marocco,
Scriba / Ars Medica edizioni, Gallarate, 2005 )
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