La
peste del nazionalismo
Chris Hedges
La guerra è la salute dello Stato.
Randolph Bourne La giunta militare che governò l'Argentina
rendendosi responsabile, con la “guerra sporca”, dell'uccisione di 20.000
concittadini, nel 1982 invase le isole Falkland, Malvinas per gli argentini. Il
governo, travolto, nelle settimane precedenti la guerra, da scioperi generali
e violente manifestazioni di piazza e ormai sull'orlo del collasso, divenne immediatamente
il salvatore del paese. I leader sindacali e dell'opposizione, che in alcuni casi
portavano ancora i lividi delle percosse subite, furono tirati fuori dalle celle
e trascinati davanti alle telecamere per ripetere quello che era diventato
un mantra collettivo: “Las Malvinas son Argentinas”. L'invasione trasformò
il paese. La realtà fu rimpiazzata da una finzione folle e interessata,
una legittimazione dei peggiori pregiudizi delle masse e della paranoia del
mondo esterno. Questa finzione assunse il contorno di un universo di strani
complotti, di ebrei spuntati fuori di nuovo per farsi picchiare come un cavallo
vecchio, di vaste reti sotterranee che congiuravano per distruggere il popolo
argentino. Al contrario, tutto ciò che era bello e nobile si incarnava,
come una sorta di gene eccezionale, nel popolo argentino. Le trasmissioni radiofoniche
e televisive risuonavano dei racconti di gesta eroiche compiute dai militari argentini
– il cui unico merito recente era la repressione selvaggia del loro stesso popolo.
Alcuni miei amici, fino a pochi giorni prima ferocemente critici della dittatura,
presero a magnificare l'ardimento dei comandanti argentini. Un generale, durante
una controversia con il Cile, aveva varcato la frontiera con il suo elicottero
per pisciare sul suolo cileno. Questa storiella veniva ripetuta con grande orgoglio.
Le auto sfrecciavano sulle strade cittadine suonando il clacson e agitando la
bandiera argentina bianca e blu. Nelle manifestazioni sportive gli argentini prorompevano
nell'inno nazionale e in grida di entusiasmo. La vasta comunità anglo-argentina
mandò delegazioni in Gran Bretagna per difendere la causa della giunta.
Avevo passato notti intere con i miei amici argentini a parlare di una nuova
Argentina che avrebbe rispettato i diritti umani, riconosciuto le libertà
fondamentali e magari processato i generali responsabili della “guerra sporca”.
Ora questi discorsi erano tabù, un vero e proprio tradimento. Sulla strada
qualunque critica, soprattutto da parte di uno straniero, poteva significare violenza
fisica. La sola ipotesi che l'invasione potesse non essere giusta e gloriosa
era inaccettabile. Le isole non venivano mai chiamate con il nome inglese. Un
orgoglio smisurato e un senso di profonda solidarietà nazionale
attraversavano la città come una scarica elettrica. Avevo la sensazione
di essermi svegliato, come un personaggio di Kafka, per scoprirmi trasformato
in un enorme scarafaggio. Sarei arrivato a sentirmi così in ogni paese
in guerra, compresi gli Stati Uniti dopo gli attacchi dell'11 settembre. Fu
il mio primo impatto con il trionfalismo nazionalista in tempo di guerra. Non
c'era quasi nessuno con cui potessi parlare. Una popolazione che era scesa in
piazza invocando il cambiamento tradiva se stessa per idolatrare assassini in
uniforme. Tutti si inchinavano davanti allo Stato. Ne trassi una lezione essenziale
che mi avrebbe accompagnato in tutti gli altri conflitti. Sotto la superficie
di ogni società, compresa la nostra, si cela il desiderio appassionato
di una causa nazionalista che ci esalti, una causa come quelle che solo la
guerra è in grado di creare, riducendo e a volte cancellando l'ansia della
coscienza personale. Noi abbandoniamo la responsabilità individuale per
un'impresa condivisa, comune e incontestata, per quanto moralmente discutibile.
La logica, i fatti o la verità possono fare ben poco per cambiare
questa esperienza. E oltretutto, una volta che il paese ha abbracciato la crociata,
il mito condiziona il modo stesso di percepire la realtà. È solo dopo l'implosione
del mito, spesso improvvisa come la sua comparsa, che si possono rimettere in
discussione le motivazioni e le azioni dello Stato. Quando le luci si riaccendono,
l'esperienza della guerra lascia un'atmosfera da Sogno di una notte di mezza
estate, come se nessuno riuscisse a ricordare bene cosa è successo.
Il
nazionalista è per definizione un ignorante – ha scritto Danilo Kis,
lo scrittore jugoslavo –. Il nazionalismo è la linea di minore resistenza,
la soluzione più facile. Il nazionalista non ha problemi, sa o crede di
sapere quali sono i suoi valori, i suoi, vale a dire quelli nazionali, vale a
dire i valori della nazione cui appartiene, etici e politici; non ha interesse
per gli altri, non sono fatti suoi, maledizione – è altra gente (altri
paesi, un'altra tribù) –. Non hanno neppure bisogno di essere studiati.
Il nazionalista vede le altre persone a sua immagine – come nazionalisti. Ogni
società, gruppo etnico o religione alimenta alcuni miti, che spesso ruotano
intorno alla creazione del movimento o della nazione. Questi miti giacciono invisibili
sotto la superficie in attesa dell'occasione per affermarsi, per definire
ed esaltare i loro membri e seguaci nei momenti di crisi. I miti nazionali
sono in gran parte positivi in tempo di pace. Vengono celebrati dall'industria
dell'intrattenimento, nelle lezioni scolastiche, in racconti e ballate di
ispirazione storica, predicati nelle moschee o magnificati in assurdi drammi storici
che sono sempre follemente popolari durante la guerra. Non rappresentano
una grave sfida per la vera ricerca storica o per la studiata tolleranza
degli altri in tempo di pace. Ma in guerra i miti nazionali scatenano un'amnesia
collettiva. Attribuiscono alle generazioni passate una nobiltà e una grandezza
che non hanno mai posseduto. Quasi tutti i gruppi etnici, e in particolare
ogni nazione, detengono miti di questo genere. Sono gli sterpi utilizzati dai
nazionalisti per accendere un conflitto. Nell'ex Jugoslavia fu la propaganda
nazionalista spacciata dalla televisione, molto più degli antichi odi,
a fare la parte del leone nel provocare l'antagonismo e infine la guerra tra gruppi
etnici. I governi nazionalisti, invece di consentire la discussione di idee e
opinioni contrastanti, usarono il potere assoluto che esercitavano sulle emittenti
televisive per mandare in onda più e più volte immagini che provocavano
sdegno e rabbia. Raccontavano storie, spesso inventate di sana pianta, su
presunte atrocità perpetrate dal nemico. L'informazione imparziale
scomparve. La Tv divenne il pilastro emotivo usato per giustificare la violenza
e cementare i gruppi etnici intorno ai leader nazionalisti. Chi propugnava
la violenza si confermava, notte dopo notte, nella propria legittima rabbia.
Le maggiori istituzioni religiose – la Chiesa ortodossa serba e la Chiesa
cattolica in Croazia – furono complici compiacenti. Erano Chiese nazionali e si
prestarono a lavorare come propagandisti dello Stato. Il clero, da tutte e tre
le parti, ebbe un comportamento vergognoso. I mediatori delle Nazioni Unite a
Sarajevo ripetevano stancamente che era più facile portare al tavolo dei
negoziati i comandanti serbi e musulmani che il clero delle due parti. L'archeologia,
il folklore e la ricerca di (ciò che viene definito) autenticità
sono gli strumenti usati dai nazionalisti per attaccare gli altri ed esaltare
se stessi. Lo spacciano per storia, ma è mito. E intanto la vera indagine
storica viene corrotta, aggredita e spesso distrutta. I fatti diventano interscambiabili
come le opinioni. I fatti che non fanno comodo sono cancellati o negati. Le incoerenze
più evidenti sono ignorate da chi è intossicato da un nuovo senso
di orgoglio nazionale e dall'emozionante prospettiva di una guerra. Parlare
con molti israeliani della loro guerra di indipendenza. quando gli ebrei
europei senza patria fondarono uno Stato in una terra che dal VII secolo era stata
prevalentemente musulmana, è come gridare in un immenso buco nero. È
una barriera emotiva, il desiderio di non offuscare il mito della fondazione,
che rende difficile per molti ebrei israeliani, in alcuni casi anche i più
liberali e progressisti, riconoscere la profonda ingiustizia che la creazione
dello Stato di Israele ha significato per i palestinesi. Come americani anche
noi lottiamo con questi miti, e ammettiamo solo a denti stretti che molti nostri
padri fondatori erano schiavisti e che gran parte del nostro paese è stato
conquistato con il genocidio degli indiani. In tempo di pace questa amnesia
collettiva è sfidata da un pugno di impavidi studiosi. In effetti, alcune
delle migliori opere accademiche sulla guerra del 1948 e ciò che ha significato
per i palestinesi sono state realizzate da storici israeliani, ma nei momenti
di crisi le loro voci sono messe a tacere. Il nostro paese, l'America, non è
diverso. Abbracciamo idee grossolane e dichiaratamente razziste sull'Islam, idee
che dipingono tutti i musulmani come uomini inclini alla violenza, all'ira, all'antimodernismo
e alla chiusura mentale. Contestare la linea nazionalista o cercare di discutere
le ingiustizie storiche che abbiamo commesso contro i nostri nemici è giudicato
antipatriottico, un tradimento intellettuale, proprio come avveniva in Argentina
nel 1982. Intellettuali e dissidenti sono vulnerabili alla peste del nazionalismo,
proprio come le masse. Spesso vi trovano una risposta alla sensazione di essere
vittime dell'ostracismo generale. Nella causa nazionalista trovano l'opportunità
di essere esaltati da un paese che li aveva sempre ignorati. Anche a loro piace
questo sottile veleno. Non mancano mai gli intellettuali pronti, nei momenti
di crisi nazionale, ad accodarsi a quei leader che disprezzano — un gesto in evidente
contraddizione con la posizione morale che spesso assumono all'interno del
mondo accademico in tempo di pace. In guerra questi fervidi intellettuali
possono diventare pericolosi. Molti manifestano convinzioni messianiche e intransigenti
che non hanno mai cercato di mettere in pratica. Tutti i movimenti nazionalisti
hanno questi mentori perniciosi pronti a giustificare l'uso della forza in nome
di una visione utopica e irrealizzabile. Il serbo Dobrica Cosic, i cui romanzi
sentimentali sull'eroismo serbo durante la prima guerra mondiale avevano ampio
seguito ed erano apprezzati persino da Milosevic, riuscì a sostituire la
vera storia con il mito nazionalista, utilizzato per alimentare la guerra. Quelli
che sfidano realmente i progetti nazionalisti di solito vengono coperti di
insulti durante il conflitto e messi da parte subito dopo. Si tratta spesso, almeno
stando alle etichette affibbiate loro dalla gente, di persone piuttosto umili,
a volte semplici e non sempre molto istruite, ma i loro atti sono una sfida alla
psicosi collettiva. Una mia amica serba, Slavica, aveva un'ex compagna di
scuola musulmana che viveva a Mostar, una città bosniaca devastata
dalle truppe serbe e poi da quelle croate. L'amica mandò a Slavica i suoi
due figli perché vivessero con lei, il marito e la figlia in una città
nel Nord della Serbia. L'arrivo dei bambini musulmani scatenò un'ondata
di furore. La scuola non voleva che frequentassero le lezioni. Per strada i vicini
sputavano in faccia a Slavica e ai bambini. Le sue finestre furono prese
a sassate. Sui muri della casa dove viveva apparvero scritte oscene. Eppure
lei non si dette per vinta. Si occupava dei bambini come se fossero i suoi
figli. Dopo un anno riuscì a farli ammettere a scuola, anche se erano costretti
a subire offese e molestie. Dopo la guerra gli abitanti della cittadina
preferirono dimenticare. Nessuno le chiese scusa. Slavica era un membro della
comunità solo di nome. Mi disse che la gente si sentiva a disagio con lei.
Era un ricordo vivente della loro vigliaccheria collettiva e della loro indifferenza.
Faceva vergognare chi le stava intorno. “Non riuscirò più
a sentirmi parte del paese dove sono nata e cresciuta”, mi disse. Eppure Slavica
si considerava colpevole per la reazione della sua gente e se ne vergognava, anche
se lei aveva scelto una risposta diversa. Ripeteva che suo marito e lei avevano
fatto troppo poco, che dare rifugio a due bambini era una cosa insignificante
rispetto all'enormità dei crimini commessi in nome dei serbi. I bambini
musulmani, che Slavica restituì alla madre non appena la donna riuscì
a ottenere asilo politico in Canada, non si facevano sentire molto spesso. Probabilmente
non volevano ricordare il dolore e la sensazione di impotenza di quel periodo.
Slavica era profondamente sola. Capita spesso che chi sfida la psicosi collettiva
del paese alla fine della guerra rimanga una figura solitaria. Eppure questi atti
di compassione sono stati il migliore antidoto contro i miti spacciati dai
nazionalisti. Le persone che superavano contrasti e divisioni per assistere il
“nemico” si liberavano dalle astrazioni nazionaliste che disumanizzavano gli altri.
Erano vaccinate contro il culto della morte che domina le società
in tempo di guerra. Limitavano il loro universo morale alla cura di un altro essere
umano, e così riuscivano a respingere le pretese messianiche che accompagnano
l'agenda nazionalista. Accettando il fatto di poter aiutare solo poche vite
umane accettavano anche il loro piccolo posto nell'universo. Questa quotidiana
lezione di umiltà le proteggeva. Si salvavano non per ciò che
riuscivano a fare ma per la loro fede. Però queste persone sono molto rare.
“I sopravvissuti soffrono tutti della stessa certezza: sanno che, se le persecuzioni
ricominciassero domani, malgrado tutte le manifestazioni ufficiali di solidarietà
per le vittime e di condanna degli oppressori, i salvatori sarebbero altrettanto
rari", ha scritto Tzvetan Todorov in Di fronte all'estremo. Quale
etica per il secolo dei gulag e dei campi di sterminio? “I buoni vicini che ora
li salutano ogni mattina volterebbero loro di nuovo le spalle". Un
pomeriggio me ne stavo seduto con una coppia serbo-bosniaca, Rosa e Drago
Sorak, fuori dall'enclave musulmana di Gorazde dove un tempo erano vissuti.
Mi parlarono dei musulmani con il solito disprezzo, ma alla fine della loro tirata
si fermarono e mi dissero che non tutti i musulmani erano cattivi. Questo, aggiunsero,
avevano il dovere di ammetterlo. Durante i combattimenti nel guscio desolato,
raso al suolo dalle bombe, di quella che era stata la città di Gorazde,
dove i bambini erano diventati ragazzi di strada e centinaia di persone uccise
dalla guerra giacevano in fosse scavate alla bell'e meglio, un guizzo di umanità
arrivò fino ai coniugi Sorak con le sembianze della vacca di Fadil
Fejzic. La vacca creò un insolito legame fra Fejzic, musulmano, e i suoi
vicini serbi, i Sorak. Quando i serbi misero sotto assedio Gorazde, nel
1992, i Sorak vivevano nella città con il figlio maggiore, Zoran, e sua
moglie. Sebbene fossero serbi, erano indifferenti alla propaganda nazionalista
dei leader serbo-bosniaci come Radovan Karadzic. Quando le forze serbe cominciarono
a cannoneggiare la città e a tagliare l'elettricità, il gas e l'acqua,
la famiglia non volle trasferirsi. Unirono la loro sorte a quella del governo
bosniaco e furono bollati come traditori dai serbo-bosniaci che li cannoneggiavano
ogni giorno dalle montagne sovrastanti la città. La notte del 14 giugno
1992 la polizia bosniaca si presentò alla porta di Zoran, che prima della
guerra faceva parte della nazionale jugoslava di pallamano. “I poliziotti
musulmani dissero che si trattava di un interrogatorio”, mi raccontò Drago
Sorak, “ma Zoran non è più tornato. Prima di lasciare Gorazde andavamo
quasi tutti i giorni al commissariato di polizia per chiedere informazioni. Non
ci hanno mai detto niente. Supponiamo che sia morto”. Poco dopo il loro secondogenito,
che combatteva con i serbo-bosniaci, fu investito da una macchina e ucciso. I
Sorak rimasero senza figli. La coppia, molestata da gruppi di musulmani,
cominciò a prendere in esame la possibilità di fuggire, anche se
per realizzare questo piano ci sarebbero voluti dei mesi. Drago Sorak
era spesso costretto a scavare trincee e a spaccare legna da ardere per l'esercito
bosniaco. La coppia non aveva quasi da mangiare. “La situazione diventava
sempre più grave e le cose continuavano a peggiorare”, mi disse. “Alcuni
musulmani volevano ucciderci, altri ci difendevano. In città erano rimasti
solo 200 serbi. Certe notti i musulmani venivano nell'appartamento a cercarci.
Dovevamo nasconderci finché non se ne andavano. Eravamo terrorizzati”.
Le difficoltà, le molestie e la scomparsa di Zoran li resero ostili
al governo a guida musulmana che erano stati pronti ad accettare all'inizio della
guerra. “Preferirei trasferirmi in Albania piuttosto che tornare a vivere
con i musulmani di qui”, mi disse Rosa Sorak. “Come si può pensare di vivere
con chi ha ammazzato tuo figlio?” Cinque mesi dopo la scomparsa di Zoran,
sua moglie dette alla luce una bambina, ma non riuscì ad allattarla.
La città viveva sotto il fuoco continuo delle granate. Mancava il cibo.
I neonati, come i malati e gli anziani, morivano uno dopo l'altro. Per cinque
giorni la famiglia cercò di alimentare la bambina con del tè,
ma la piccola cominciò a deperire. “Stava morendo”, mi ha raccontato
Rosa Sorak. “Era straziante.” Nel frattempo Fejzic faceva pascolare la
sua vacca in un campo alla periferia est di Gorazde, mungendola di notte per evitare
di farsi sparare dai cecchini serbi. “Il quinto giorno, poco prima dell'alba,
sentimmo qualcuno alla porta”, racconta Rosa. “Era Fadil Fejzic con i suoi
stivaloni di gomma neri. Ci dette mezzo litro di latte. Venne anche la mattina
dopo, il mattino seguente e quello ancora dopo. Le altre famiglie sulla strada
cominciarono a insultarlo. Gli dicevano di dare il suo latte ai musulmani e di
lasciar morire i bambini ‘cetnici'. Lui non disse mai una parola. Rifiutava i
nostri soldi. Venne per 442 giorni, finché mia nuora e mia nipote lasciarono
Gorazde per la Serbia.” Alla fine i Sorak se ne andarono e si stabilirono
in una casa che era appartenuta a una famiglia musulmana in una città in
mano ai serbi, Kopaci, due miglia più a est. Non potevano più comunicare
con Fejzic. Drago e Rosa mi dissero che piangevano tutti i giorni per i loro
figli. Avevano nostalgia di casa. Mi dissero che non avrebbero mai potuto perdonare
chi li aveva privati di Zoran. Ma dissero anche che, malgrado l'ira e il dolore,
non potevano ascoltare gli altri serbi che parlavano dei musulmani, o che raccontavano
le proprie sofferenze, senza parlare di Fejzic e della sua vacca. Era la forza
dell'amore. Quello che aveva fatto questo contadino analfabeta avrebbe illuminato
la vita di un altro essere umano, che forse non lo incontrerà mai, molto
tempo dopo la sua morte. Nel suo gesto era racchiuso un oceano di speranza. “È
nostro dovere raccontare sempre questa storia”, mi ha detto Drago Sorak. “Il sale,
in quei giorni, costava 80 dollari al chilo. Il suo latte era prezioso, soprattutto
perché allora era difficile tenere degli animali. Lui ce ne dette 221 litri.
E ogni anno in questo periodo, quando è freddo e buio, appena chiudiamo
gli occhi ci sembra di sentire il boato delle granate e il rumore dei passi di
Fadil Fejzic sulle scale.” Fejzic ha passato dei brutti guai dopo la guerra.
Io l'ho trovato che vendeva, davanti alle rovine di un caseggiato, mucchietti
di mele bacate raccolte nei giardini abbandonati. Il palazzo in cui si trovava
il suo appartamento era stato distrutto dal fuoco dell'artiglieria, e lui era
costretto a dividere con vari altri uomini il pavimento di una stanza non riscaldata.
La sua grande vacca pezzata, quella di cui mi avevano parlato i Sorak, non era
sopravvissuta alla guerra. Era stata macellata più di un anno prima quando
le forze serbe avevano inasprito l'assedio. Aveva solo un cappotto logoro
e leggero per proteggersi dal freddo dell'inverno. Quando lo incontrai, se
ne stava accovacciato nell'angolo di una stanza umida, con le pareti di cemento,
che strofinava contro la manica la sua patetica collezione di minuscole mele,
molte con dei buchi neri. Quando gli dissi che avevo visto i Sorak, i suoi
occhi si illuminarono. “E la bambina?” mi chiese. “Come sta?” I piccoli
gesti di umanità di gente come Slavica, serba, e Fejzic, musulmano, in
tempo di guerra si irradiano verso l'esterno come cerchi concentrici. Questi gesti,
che sul momento passano inosservati, rendono impossibile condannare, legalmente
o moralmente, un intero popolo. Servono a ricordarci che tutti abbiamo una
nostra volontà, una volontà che è indipendente dallo Stato
o dalla causa nazionalista. E soprattutto, quando la guerra è finita,
queste persone rendono difficile giudicare colpevole un intero paese o un
intero popolo. “Non capisco”, ha scritto Primo Levi. “Non riesco a tollerare
il fatto che un uomo debba essere giudicato non per quello che è, ma per
il gruppo a cui si dà il caso che appartenga” (...)
(Tratto da Il fascino oscuro della guerra , Editori Laterza, Bari, 2004.
Traduzione di Maria Giuseppina Cavallo.)
Chris Hedges
è stato per quindici anni corrispondente di diverse testate,
tra cui il “New York Times” e il “Dallas Morning News”. Insegna Giornalismo presso
la New York University e ha ottenuto vari riconoscimenti. L'ultimo, nel 2002,
è stato l'“Amnesty International Global Award for Human Rights”.
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