Calcio, religione laica


Darwin Pastorin


Il calcio in Brasile è una religione laica, una consolazione, una speranza, un'anestesia, e un modo di essere, di credere, persino di lottare. Il cantautore e poeta Vinicius de Moraes così celebrò Mané Garrincha, l'angelo dalle gambe storte, l'analfabeta che sapeva interpretare il canto dei passerotti: "La rivoluzione sociale in marcia si ferma meravigliata a vedere il signor Mané palleggiare e poi prosegue il cammino". E lo scrittore Edilberto Coutinho, nel suo Maracanã addio, modulò: "Perché il calcio, come la letteratura, se ben praticato, è forza di popolo. I dittatori passano. Passeranno sempre. Ma un gol di Garrincha è un momento eterno. Non lo dimentica nessuno". Non solo: il presidente Lula, l'ex operaio pernambucano tifoso del Cotinthians di San Paolo, citò Mané nel suo discorso di insediamento.
Ho cominciato questo mio viaggio nel futebol da Garrincha per un semplice motivo: è stato, l'ex asso del Botafogo e della Seleção, a mio avviso, il più grande calciatore brasiliano di tutti i tempi. Ancor più di Pelé e del mitico Leônidas, dell'elegante Didi e del folgorante Romário. Nato povero e poliomielitico, morto solo abbandonato ubriaco in un ospedale neurologico di Rio, Mané fu capace, con una finta sola, portata dalla gamba sghemba, di scrivere pagine di autentica poesia. Poesia pura, poesia disperata, poesia lacerante. Ogni suo dribbling era una danza, un urlo, un canto. I poveri si riconoscevano in lui. Eroe tragico, eroe epico. Il poeta Carlos Drummond de Andrade sottolineò: "Fu un povero e semplice mortale che aiutò un paese intero a sublimare le sue tristezze. La cosa peggiore è che le tristezze ritornano e non c'è un altro Garrincha disponibile. Ne occorre un altro che continui ad alimentarci il sogno".
Garrincha, persino, nel mio destino. Io nasco a San Paolo, orgoglioso figlio di emigranti veronesi, il 18 settembre 1955, in quello stesso giorno mese e anno Mané debutta, a Rio de Janeiro, in nazionale, contro il Cile per il trofeo O'Higgins. Il calcio entrò subito nella mia infanzia, in quella Rua Nossa Senhora da Lourdes che per me è come la Rua dos Douradores di Fernando Pessoa-Bernardo Soares ("Penso a volte che non uscirò mai da questa Rua dos Douradores. E se lo scrivo, mi sembra l'eternità"). Quella palla, fatta di stracci e di polvere e di felicità, rappresentava la lingua in comune con gli altri miei coetanei, figli di mulatti ebrei giapponesi polacchi coreani. Quella palla rappresentava il nostro modo di comunicare, di stare insieme, di trascorrere le giornate, in attesa del richiamo delle nostre madri e del ritorno dei nostri padri. Cominciai a tifare per il Palmeiras, che un tempo si chiamava Palestra Italia: il nome venne cambiato nel 1942, con il Brasile alleato degli americani e contro l'Italia fascista. II Palmeiras, già, la formazione di un centravanti soprannominato "Mazola", con una zeta sola, per la sua straordinaria somiglianza con capitan Valentino, la guida tecnica e spirituale del Grande Torino. Mazola, ovvero, José Altafini, diventato poi un bomber celebrato da noi, con le maglie di Milan, Napoli e Juventus. Io, oggi, sono il Console unico onorario del Palmeiras in Europa, il presidente è un mio amico antico, Alfonso Dalla Monica.
Brasile, cinque volte campione del mondo: 1958, 1962, 1970, 1994, 2002. Due volte contro gli azzurri: 4-1 in Messico nel 1970, successo ai rigori (fatale l'errore del nostro giocatore più brasiliano, Roberto Baggio) negli Stati Uniti nel 1994. Ma la storia delle Seleção è fatta anche di due pagine amare: Rio 1950 e Barcellona, stadio Sarriá, 1982.
Il Brasile organizza la Coppa Rimet, così si chiamava il mondiale, nel 1950. E per l'occasione fa costruire il più grande stadio, il Maracanã, 220 mila spettatori. I brasiliani sono imbattibili, vincono contro tutti, a colpi di goleada. È pronta, per l'atto finale, 16 luglio, una festa memorabile. Un carnevale mai visto. La gente va allo stadio con la maglietta con sopra scritto: "Campioni". L'avversario non viene nemmeno tenuto in considerazione: l'Uruguay. È la vittima designata, il capro espiatorio. Chi può fermare la marcia dei verdeoro? Persino i dirigenti uruguagi non ci credono e ai giocatori, prima della partita, dicono: "Cercate di prendere il minor numero di gol possibile". Ma il destino cambia, repentinamente, rotta. I brasiliani passano in vantaggio con Friaça. Il capitano della Celeste, il nobile e ferrigno Obdulio Varela, rallenta la ripresa del gioco. Per fare innervosire i padroni di casa. Ed è Varela a guidare la riscossa, a far trionfare l'utopia. Pareggia Schiaffino, la rete della sorprendente, incredibile vittoria porta la firma di Ghiggia. Un cross diventa imparabile per Moacyr Barbosa, primo portiere nero della Seleção. E per quello svarione, Barbosa verrà trattato, sino alla morte, come un reietto, un traditore, uno da dimenticare. Ci furono suicidi, dopo quella sconfitta. Ci furono lacrime. Ha scritto lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano: "Quando arrivò il gol di Ghiggia, il silenzio esplose sul Maracanã, il più straordinario silenzio della storia del calcio, e Ary Barroso, il musicista autore di Aquarela do Brasil, che stava trasmettendo la partita a tutto il paese, decise di abbandonare per sempre la carriera di cronista di calcio. Dopo il fischio finale, i radiocronisti definirono la sconfitta come "la peggiore tragedia della storia del Brasile". Jules Rimet passeggiava per il campo, perduto, abbracciato alla coppa che portava il suo nome. "Mi trovai solo, con la coppa tra le braccia, senza sapere che cosa fare. Alla fine trovai il capitano uruguagio Obdulio Varela e gliela consegnai quasi di nascosto. Gli strinsi la mano senza dire una parola". In una tasca, Rimet teneva il discorso che aveva preparato in omaggio al "Brasile campione".

Barcellona, stadio Sarriá, 5 luglio 1982. Il Brasile di Telê Santana, il Brasile favorito, il Brasile che a ogni match dà spettacolo, affronta l'Italia di Enzo Bearzot (il "Vecio" narrato da Giovanni Arpino nel romanzo Azzurro tenebra). Alla Seleção basta un pari per andare in semifinale. I nostri calciatori, in silenzio stampa, dopo le polemiche con i giornalisti e le brutte figure del girone eliminatorio a Vigo, hanno superato l'Argentina di Maradona 2-1. Ma com'è possibile fermare la gioiosa macchina da calcio guidata da Zico, l'erede di Pelé? I brasiliani, anche questa volta, devono soltanto tenere conto dei gol fatti... Invece, riecco il sortilegio del 1950. Paolo Rossi si sveglia e segna tre gol. I verdeoro si fermano a due (Socrates e Paulo Roberto Falcão). Fine del sogno. "Questa passerà alla storia come la generazione sconfitta", urlano i cronisti brasiliani.
Fuori di scena Zico, numero 10 per antonomasia, classe pura, per due stagioni all'Udinese dopo la gloria con il Flamengo di Rio, Leo Junior, suonatore di pandeiro, difensore-centrocampista moderno, per stagioni vanto di Torino e Pescara, Toninho Cerezo, figlio di un clown, danzatore magico, idolo di Roma e Sampdoria, Paulo Roberto Falcão, il principe del futebol, l'orgoglio della Roma, e, soprattutto, Socrates, l'intellettuale, il totem del Corinthians, per un anno, deludente, alla Fiorentina, dove si dedicò, più che agli allenamenti, a parlare di Karl Marx, di Che Guevara e di lotta al potere nei circoli comunisti di Firenze e dintorni. Negli anni '70, a San Paolo, diede vita alla "democrazia corintiana", il primo tentativo di autogestione di una squadra. Il socialismo applicato al pallone. La "rivoluzione" fu breve, ma significativa.
Per il resto, Brasile significa vittoria. La favola del lustrascarpe mineiro Pelé, più di mille gol nella sua carriera, icona del Santos, tre volte campione del mondo. E ancora: Nilton Santos, terzino sinistro, soprannominato "Enciclopedia del calcio", Ademir da Guia, artefice dell'Accademia del Palmeiras, Roberto Rivelino, dal sinistro fulminante, Gilmar, portiere dall'innato senso della posizione. La Seleção di oggi porta i nomi di Ronaldo (il centravanti del Real Madrid, ex Inter, che colpì l'immaginazione di Manuel Vázquez Montalbán), del portiere Dida e del fantasista Kaká del Milan, del centrocampista euclideo Emerson della Juventus. Ma il numero uno è, indubbiamente, Ronaldinho del Barcellona, uno che al pallone dà del tu anche quando dorme. Angelo Benedicto Sormani, ex compagno di Pelé nel Santos ed ex Milan, Fiorentina, Roma, Vicenza, e José Altafini non hanno dubbi: "Ronaldinho diventerà più grande di Pelé e Maradona".
Pier Paolo Pasolini parlò di "calcio poetico" riferendosi ai brasiliani. E Adriano Sofri, di recente, ha detto: "Avrei voluto da un certo punto in poi della mia vita che tutti i campionati del mondo di calcio fossero vinti dalla stessa squadra e che questa squadra fosse il Brasile. Che non ci fosse più nessun cambiamento. Che si potesse lottare per il secondo posto, per il terzo, che si facesse posto alle squadre africane, naturalmente, che non toccasse sempre all'Inghilterra, alla Germania, all'Italia, all'Olanda e a qualche furia rossa e così via, ben vengano la Nigeria e il Senegal, arrivino tutte le Coree possibili e cosi via... Che però il primo posto fosse riservato al Brasile. Cioé, che siano esistiti dei campionati di calcio non più vinti dal Brasile equivale alla morte di dio, per così dire, alla fine dell'Olimpo, alla detronizzazione degli dei".



(Articolo tratto dall'antologia Favelas e grattacieli, Nuova Iniziativa editoriale SpA. e L'Unità, Roma, 2005, a cura di Maurizio Chierici con la collaborazione di Giancarlo Summa. Traduzione di Roberta Barni.)



Darwin Pastorin è nato a San Paolo il 18 settembre 1955. In quello stesso giorno, mese e anno debuttava nella seleção la poetica ala destra Mané Garrincha. Pastorin è un cronista sportivo, allievo di Giovanni Arpino, con il vizio della letteratura. L'ultima parata di Moacyr Barbosa (Mondadori), il suo ultimo romanzo, è dedicato al portiere del Brasile degli anni '50, un eroe tragico. È vice direttore di La7, e Console unico onorario del Palmeiras in Europa.


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