Hiroshima,
6 agosto 1945
John Hersey
Quel mattino prima delle sei era già così chiaro e così caldo
che si preannunciava una giornata di forte canicola. Qualche istante dopo, risuonò
una sirena: la suoneria di un minuto annunciava la presenza di aerei nemici, ma
indicava anche agli abitanti di Hiroshima, con la sua brevità, che si trattava
di un pericolo di scarsa entità. Perché quella sirena suonava ogni
giorno, sempre alla stessa ora, quando l'aereo meteorologico americano si avvicinava
alla città. Hiroshima aveva una forma a ventaglio: la città era
costruita su sei isole, separate dai sette rami dell'estuario che si allargavano
verso l'esterno a partire dal fiume Ota. I suoi quartieri abitativi e commerciali
si estendevano su oltre sei chilometri quadrati al centro del perimetro urbano.
Là risiedevano i tre quarti degli abitanti. Numerosi programmi di evacuazione
avevano già ridotto notevolmente la popolazione, che era passata da 380.000
anime prima della guerra a circa 245.000. Le fabbriche e i quartieri residenziali,
come pure i sobborghi popolari, si trovavano al di là dei limiti della
città. A sud erano stati costruiti l'aeroporto, le banchine e il porto
sul mare Interno, punteggiato da una manciata di isole (1). Una cortina di montagne
racchiude l'orizzonte sugli altri tre lati del delta del fiume. La mattina
era di nuovo calma, tranquilla. Non si sentiva alcun rumore di aerei. Allora,
ad un tratto, il cielo fu squarciato da un lampo luminoso, giallo e brillante
come diecimila soli. Nessuno ricorda di aver inteso il minimo rumore a Hiroshima,
quando è scoppiata la bomba. Ma un pescatore che remava sulla sua barca,
nei pressi di Tsuzu, nel mare Interno, vide il bagliore e udì un'esplosione
terrificante. Si trovava a trentadue chilometri di distanza da Hiroshima e, secondo
lui, il rumore fu molto più assordante di quando i B29 avevano bombardato
Twakuni, una città distante solo otto chilometri. Una nube di polvere
cominciò a innalzarsi al di sopra della città, oscurando il cielo
come un crepuscolo. Alcuni soldati uscirono da una trincea, in un fiume di sangue,
che scorreva dalla loro testa, dal petto, sulla schiena. Erano muti, storditi.
Una visione da incubo. I volti completamente bruciati, le orbite vuote, il liquido
degli occhi fusi che colava sulle guance. Certamente stavano guardando verso il
cielo, al momento dell'esplosione. La bocca non era più che una ferita
rigonfia e coperta di pus... Alcune case erano in fiamme. Dal cielo cominciarono
a piovere gocce d'acqua grandi come biglie. Erano gocce d'umidità condensata
che cadevano dal gigantesco fungo di fumo, di polvere e di frammenti di fissione
nucleare che si innalzava già per diversi chilometri al di sopra di Hiroshima.
Le gocce erano troppo grosse per essere normali gocce di pioggia. Qualcuno si
mise a gridare: "Gli americani ci bombardano di benzina. Vogliono bruciarci
vivi!" Ma naturalmente erano gocce d'acqua, e mentre cadevano il vento prese
a soffiare sempre più forte, forse alimentato dal formidabile risucchio
d'aria provocato dalla città in fiamme. Alcuni alberi enormi furono abbattuti;
altri, meno grandi, sradicati e proiettati nell'aria, in cui volteggiavano, in
una sorta di imbuto di uragano folle, le macerie della città: tegole di
tetti, porte e finestre di case, indumenti, tappeti...Dei
245.000 abitanti di Hiroshima, quasi 100.000 erano morti o erano stati mortalmente
feriti all'istante dell'esplosione. Altri 100.000 erano feriti. Almeno diecimila
di quei feriti, che erano ancora capaci di muoversi, si incamminarono verso l'ospedale
principale della città. Ma l'ospedale non era in grado di accogliere un'invasione
simile. Dei centocinquanta medici di Hiroshima, sessantacinque erano morti sul
colpo, tutti gli altri erano feriti. Delle 1.780 infermiere, 1.654 avevano incontrato
la morte o erano troppo gravemente ferite per poter lavorare. I pazienti arrivavano
trascinandosi in qualche modo e si sistemavano un po' ovunque - rannicchiati o
distesi a terra nelle sale d'attesa, i corridoi, i laboratori, le corsie, le scale,
il porticato d'ingresso e sotto il portone, e anche nel cortile, e poi ancora
fuori, a perdita d'occhio, fra le strade ridotte a macerie... I feriti meno gravi
si prendevano cura dei mutilati. Intere famiglie di persone dal volto sfigurato
si aiutavano a vicenda. Alcuni feriti piangevano, molti vomitavano. Alcuni avevano
le sopracciglia bruciate e la pelle penzolava a brandelli dal volto e dalle mani.
Altri, per il dolore, avevano le braccia sollevate, come se sostenessero un peso
fra le mani. Se si prendeva un ferito per mano, la pelle si staccava a brandelli,
come si sfila un guanto... Molti erano nudi o coperti di stracci. Le ferite,
gialle, diventavano rosse, gonfie, la pelle si scollava. Poi cominciavano a suppurare,
esalando un odore nauseabondo. Su alcuni corpi nudi, le ferite avevano disegnato
il contorno degli indumenti scomparsi. Sulla pelle di alcune donne - poiché
il bianco rifletteva il calore della bomba, mentre il nero lo assorbiva e lo veicolava
verso la pelle - si vedeva il disegno a fiori del kimono. Quasi tutti i feriti
avanzavano come sonnambuli, la testa dritta, in silenzio, lo sguardo vacuo. Tutte
le vittime che avevano subito ustioni e gli effetti dell'impatto della bomba avevano
assorbito radiazioni mortali. I raggi radioattivi distruggevano le cellule, provocavano
la degenerazione del nucleo e spezzavano le membrane cellulari. Chi non era morto
sul colpo, e non era stato neppure ferito, si ammalò dopo pochissimo tempo
- accusando nausea, violente emicranie, diarrea, febbre. Sintomi che duravano
parecchi giorni. La seconda fase cominciò dieci o quindici giorni dopo
la bomba. Prima cominciarono a cadere i capelli, poi venivano la diarrea e una
febbre altissima, fino a 41 gradi. Dai venticinque a trenta giorni dopo l'esplosione,
comparirono le prime malattie del sangue: sanguinamento delle gengive, crollo
drammatico dei globuli bianchi, scoppio dei vasi sanguigni della pelle e delle
mucose. La diminuzione dei globuli bianchi riduceva la resistenza alle infezioni;
la minima ferita impiegava lunghe settimane prima di guarire; si sviluppavano
infezioni della gola e della bocca. Alla fine della seconda fase - se i pazienti
erano ancora vivi - insorgeva l'anemia (il calo dei globuli rossi). In questa
fase, molti malati morivano di infezioni polmonari. Tutti coloro che si erano
imposti un certo periodo di riposo dopo l'esplosione avevano meno probabilità
di ammalarsi rispetto a chi si era mostrato più attivo. I capelli grigi
cadevano di rado. Ma il sistema riproduttivo fu colpito per sempre: gli uomini
diventarono sterili, tutte le donne incinte abortirono, tutte le donne in età
fertile si accorsero che si era bloccato il loro ciclo mestruale... I primi
scienziati giapponesi che giunsero qualche settimana dopo l'esplosione notarono
che il lampo della bomba aveva mangiato il colore del cemento. In certi punti,
la bomba aveva lasciato segni corrispondenti alle ombre degli oggetti illuminati
dal suo bagliore. Per esempio, gli esperti avevano trovato un'ombra permanente
proiettata dalla torre della Camera di commercio sul tetto del palazzo. Si trovarono
anche i contorni di corpi umani sui muri, come i negativi di rullini fotografici.
Al centro dell'esplosione, sul ponte che si trova vicino al Museo delle scienze,
un uomo e il suo carretto erano stati immortalati in un'ombra così precisa
da indicare che nel momento in cui l'esplosione aveva letteralmente disintegrato
entrambi, l'uomo stava per frustare il cavallo...
Nota:
(1) Hiroshima si trova a sud-est dell'isola di Hongshu, la
pił grande dell'arcipelago nipponico, sulla costa del mare Interno formato dalle
tre isole di Hongshu, Shikoku e Kyushu
John Richard
Hersey (1914-1993), giornalista del Time Magazine e del New Yorker.
Autore, fra l'altro di A Bell for Adano (Una campana per Adano) (Premio
Pulitzer, 1945) e di Hiroshima (New York, 1946), da cui sono tratti i
brani qui pubblicati. Ha dedicato tutta la sua vita alla lotta contro il nucleare.
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