Lucília e il signor Portas

- Brano del romanzo L'ordine naturale delle cose -


António Lobo Antunes

 



(...) No, aspetti, si calmi, non cominci subito, sia sincero, mi guardi in faccia, amico scrittore, e mi dica se le è mai capitato di incontrare qualcuno con un turbante e un rubino sulla fronte a volare sopra i tetti di Lisbona. Ebbene, se non l'ha incontrato è perché ho passato tutta la settimana, senza sosta, dimentico dell'ipnotismo per corrispondenza, a investigare sul suo uomo, a domandare, a spiare, a gironzolare, a fare fotografie, salvo un paio di rapide sieste nella pensione di Praça da Alegria con una tizietta simpatica, grassottella come piace a me, che si è presa la briga di farmi dimenticare i dispiaceri con modiche carezze e un massaggio sulla schiena, e questo, pensi un po', con una mezza dozzina almeno di tortore sul davanzale della finestra, lì a cantare mentre mi vedevano strabuzzare, come un tonno fuor d'acqua, nella confusione delle lenzuola. Si chiama Lucília, l'occhio sinistro è un po' strabico, è una mulatta, è arrivata dall'Angola su una nave di disgraziati senza una lira in fuga dalla guerra civile, e c'è qualcosa in lei, non so cosa, forse l'odore, che mi rammenta i campi di cotone prima dell'alba, quando la nebbia che copre i villaggi negri pesa sugli alberi come sul bracciolo di una poltrona e i girasoli ergono gli steli cercando la luce. A proposito, l'ultima volta che sono stato insieme a lei sono rimasto in debito perché avevo finito i soldi, Mi scuserai, Lucília, ma lunedì ti pagherò senza meno, e la cicciottella, distesa sul letto a fumare, con la pupilla errata dimentica sulla parete e quella giusta, sorridente, su di me, Tranquillo, signor Portas (io mi chiamo Ernesto da Conceição Portas), non cascherà mica il mondo, ci mancherebbe, per cui, amico scrittore, se lei mi potesse anticipare un piccolo supplemento per quel tesoro di ragazza, poveretta, sfruttata da un pappone negro con gli auricolari che di tanto in tanto, per rinfrescarle la memoria, e questo posso anche capirlo, il problema è che quel cretino esagera con gli argomenti e le riduce la faccia a una pappa a suon di cazzotti, una povera disgraziata che ti compare con le guance spappolate, i cerotti sul mento e le sopracciglia ricucite, zoppicante, in mezzo alle sue colleghe, agli appuntamenti dell'Avenida. Sicché, a dirle la verità, l'ultima volta non avevo neanche voglia di fare l'amore, ché se già lo strabismo mi dà sui nervi si figuri il resto, i cerotti, i lividi, le macchie nere, una stecca in bocca, e così siamo rimasti a chiacchierare del più e del meno senza che neanche mi spogliassi, ognuno nel suo cantuccio di letto, con le tortore che non capivano cosa stava succedendo, schiacciate contro i vetri. Lucília mi ha spiegato che malgrado avesse ricevuto un'educazione da bianca e frequentato il primo anno di Liceo, lavorava in un bar di Carmona con un italiano finocchio al pianoforte, e io, in cambio, le ho fornito qualche delucidazione sul funzionamento della Polizia Politica, di come noi, per due lire, rischiamo la galera per difendere la sicurezza della patria, e delle ingiustizie che mi ha fatto la Rivoluzione lasciandomi disoccupato senza nessuna considerazione, senza rispetto per i miei sforzi, senza neanche una misera pensione, per non parlare poi, ché la gratitudine è un sentimento a cui francamente non credo più ammesso che ci abbia mai creduto, ormai si vedono solo indifferenza ed egoismo, per non parlare, dicevo, del comportamento della gente nei miei confronti, tutti ad aggredirmi per la strada, a insultarmi, a chiamarmi assassino e delinquente, a sputarmi addosso, e io scacciato da una parte all'altra, senza una lira, senza amici, costretto a impegnarmi i mobili, e Lucília, commossa, ché queste donnine sono in fondo delle sentimentali, basta toccarle sulla corda della sensibilità ed è fatta, mi ha detto con voce rotta dall'emozione Sembra proprio un film, e ha tirato fuori da sotto il letto una bottiglietta per commuoversi meglio, l'alcol aiuta le lacrime, mi ha offerto un goccetto di una cosa che bruciava e ho passato una mezz'ora a singhiozzare, spaventando le tortore sino a quando la finestra si è svuotata di tutti i becchi e sono comparsi i tetti e le gronde di Praça da Alegria, mi è parso addirittura di vedere un cugino mio, che s'interessa di levitazione, nuotare su Praça do Príncipe Real, mentre su una nuvoletta la mulatta, preoccupata, mi stampava manate sul sedere dicendo Suvvia signor Portas, che c'è, signor Portas, con un occhio su di me e l'altro sul soffitto in una strana indifferenza, voleva addirittura alzarsi per andare a chiamare le amiche, ma le ho fatto cenno che non c'era bisogno, Ferma lì, dove vuoi andare, e così ha continuato a percuotermi e a bere dalla bottiglietta per calmarsi, sicché dopo un'eternità, appena i singhiozzi si sono placati e sono riuscito a respirare normalmente, Lucília, a forza di ciucciare il collo della bottiglia, non solo non diceva niente che avesse un senso, ma si è messa pure a cantare una canzone francese, urlando talmente forte che il pappone negro, allarmato, ha forzato la porta seguito da quattro o cinque compari con zazzera, scarpe da ginnastica e camicia stampata, scintillanti di anelli e bracciali di latta, che avevano tutta l'aria, a giudicare dai pantaloni impolverati, di lavorare in un cantiere, sicché mi sono abbottonato il colletto della camicia, ho raddrizzato il nodo della cravatta, ho emesso un ultimo singulto che mi ha fatto riaffiorare sulla lingua il ricordo dell'alcol, e mi sono avviato all'uscita con la massima dignità, stando il più possibile alla larga dai capoverdiani che mi guardavano accostati alla parete senza aprire bocca, e quando ormai ero nel corridoio, libero dai pericoli, ho udito il primo sberlone pedagogico che deve aver preso in pieno le cromature della mulatta che di colpo si è azzittita, seguito da una scarica di calci educativi accompagnati da un rimprovero paternalistico in un portoghese rudimentale. Oggi, dopo pranzo, prima di incontrare lei, ho incrociato la mulatta nell'atrio della Pensione: non era ubriaca, ma aveva la capoccia fasciata, il naso coperto di cerotti, un collare imbottito intorno al collo, uno degli arti ingessato e procedeva con difficoltà per il gonfiore dei piedi, appoggiandosi a una stampella, e si piegava in due a ogni passo. Non mi ha guardato (mi è difficile capire quando uno strabico mi guarda, e di solito passo da un'orbita all'altra, esitante, a caccia della bisettrice delle pupille), e si è arrampicata su per le scale fino al terzo piano con lentezza da aragosta. L'ho vista scomparire trascinandosi una gamba senza un gemito né un lamento, accompagnata dal pappone negro che, le mani in tasca, sembrava la portasse al pascolo come una pecora zoppa. Potrebbe anche darsi, comunque, che una delle prossime settimane, quando le saranno un po' guarite le ferite, tornerò nella sua camera per fare due chiacchiere, disteso sul letto, su cosa ci ha fatto la vita, cacciando lei dal bar di Carmona, dalle palpate dei fazendeiros e dalla casa che divideva con l'italiano che inondava la mensola del bagno di boccette e pomate per tingere i capelli, e trasformando me, che ho sgobbato trent'anni mal pagato, sempre pronto a beccarmi una pallottola, per il benessere del Paese, in un insegnante di ipnotismo per corrispondenza con degli alunni che a stento si sollevano per aria, io che me ne sto qui seduto con lei in un bar a Campo de Santana, dove i cigni cominciano ad agitarsi con l'approssimarsi della sera. (...)


(Brano del capitolo 4 del Libro Primo del romanzo L'ordine naturale delle cose, Feltrinelli, Milano, 1992, traduzione dal Portoghese di Rita Desti.)


António Lobo Antunes


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