Un viaggio
Nadine Gordimer
Di
ritorno da un viaggio in Europa, sull'aereo ho visto una donna assai bella con
un lattante e un ragazzino di circa tredici anni. Sedevano nella mia stessa fila,
al di là del corridoio. Il bambino non poteva avere più di una decina
di giorni. Aveva tantissimi capelli neri e fini, gli stavano dritti in testa come
quando sott'acqua si sollevano dal cuoio capelluto; come se, galleggiando, fossero
stati pettinati dalle acque dell'utero. Le commoventi gambette piegate non erano
mai state usate. Le palpebre erano pesanti e si sollevavano a fatica, un impulso
muscolare ancora in fase di rodaggio, rivelando uno sguardo adulto e curioso:
gli occhi erano molto scuri, ma di nessun colore che si potesse definire nero
o blu. Forse il colore ha a che fare con la messa a fuoco e quegli occhi mettevano
a fuoco solo di tanto in tanto - e questa era la curiosità - il volto della
madre. O meglio lo sguardo della madre. Lei lo guardava in viso, e gli occhi del
piccolo si schiudevano come gemme. Alla singolare concentrazione tra loro si univa,
di frequente, quella del ragazzino. Quest'ultimo era bello quanto la madre.
A parole la bellezza può essere suggerita solo dal suo segnale più
immediato. Il loro era di chiarezza. Le loro sopracciglia, identiche e arcuate,
erano orizzonti chiari, le narici e i lobi delle orecchie sembravano traslucidi,
la pelle, le labbra e gli occhi avevano i colori dei ritratti sulle vetrate. Il
bambino era dissimile da entrambi. Era la presenza di una persona assente; eppure
era così intensamente loro. A un certo punto la donna si è slacciata
il vestito (indossava abiti discretamente costosi, alla moda) e benché
non riuscissi a vederle il seno, dalla posizione della testa del bambino nell'incavo
del braccio della madre e dal lieve sussultare del capo mi sono resa conto che
stava succhiando. Il ragazzino e la madre erano chini su di lui - su quel processo
- con reverenza. Una volta l'ho vista mettere la mano sciupata ma bella sulla
nuca del ragazzo e trattenervela un istante. Una trinità. Ogni tanto
il ragazzo diventava all'improvviso il bambino che era e faceva uno di quei cruciverba,
o qualche gioco simile, che di solito vengono distribuiti agli adolescenti insieme
agli auricolari e alle pantofole. In quel momento, si distraeva; ma subito veniva
attratto nuovamente da quella contemplazione di cui era il servitore. Letteralmente:
durante la notte è stato un viavai continuo, per portare alla toilette
i pannolini sporchi, per andare a prendere un bicchiere d'acqua che le sue labbra
e quelle della madre toccavano indiscriminatamente. Infine il bambino si è
addormentato nel suo baby-pullman per terra e i due, senza il bracciolo a dividerli,
hanno dormito come un tutt'uno sotto le coperte della compagnia aerea. Avevano
persino coperto l'identità separata dei loro volti - senza dubbio per via
della luce nella cabina. Sono scesi allo scalo fatto dall'aereo nel cuore dell'Africa.
Di recente in quel paese vi era stato un tentativo di colpo di stato e l'aeroporto
era rimasto chiuso per qualche tempo; distorti dal vetro convesso del finestrino
riuscivo a scorgere veicoli militari bruciati; dal nome del presidente del paese,
che troneggiava sulla facciata del terminal come nome dell'aeroporto, mancavano
due lettere, mentre i cani rovistavano ai margini della pista. La donna teneva
il bambino tra le braccia. Il ragazzino, con il voluminoso bagaglio a mano, aveva
indugiato protettivo presso il portellone mentre lei si avviava giù per
la scaletta che nel frattempo era stata avvicinata. Il mio finestrino aveva un
raggio più limitato dell'occhio umano, perciò non ho potuto seguirli
fino al terminal: non so se hanno affrettato il passo, eccitati, all'idea di quel
che li attendeva; non so dove erano stati, perché ci erano andati, o per
quale ragione tornavano. So solo che il bambino era così piccolo che doveva
essere nato da un'altra parte; lo portavano in quel posto per la prima volta,
quello era il suo primo viaggio. Io ho continuato il mio; loro erano scomparsi.
Esistono solo nelle vite alterne che invento, l'ignoto di quanto è accaduto
loro prima del viaggio, e l'ignoto di quanto sarebbe accaduto alla fine. Ho
tredici anni. Li avevo appena compiuti quando sono partito per l'Europa con la
mamma per avere il bambino. Non ci sono buoni ospedali nel paese assegnato a mio
padre - è addetto economico all'ambasciata - così ce ne siamo tornati
là da dove vengono i miei genitori, nel paese che lui rappresenta nei vari
posti dove abitiamo. Io lo conosco solo dalle vacanze con la nonna perché
sono nato quando mio padre aveva un incarico da un'altra parte. Per tanto tempo
i miei genitori hanno avuto solo me - ero figlio unico. Avrei tanto voluto avere
un fratellino o una sorellina ma niente da fare. E poi, me ne sono accorto quando
avevo circa dodici anni, qualcosa ha cominciato ad andare storto in casa nostra
- voglio dire la casa dove viviamo qui. Mia madre e mio padre erano quasi sempre
zitti a tavola. Il linguaggio privato che usavamo per parlare tra noi - il linguaggio
dei gatti - non lo usavamo più. Dovete sapere che mi permettono di tenere
dei gatti ma non dei cani, perché i gatti sono capaci di arrangiarsi da
soli quando mio padre viene assegnato a un'altra destinazione e dobbiamo abbandonarli;
abbiamo una voce diversa per ognuno dei tre gatti che ho qui, e così facevamo
finta che fossero loro a parlare, a fare dei commenti su di noi. Per esempio,
se mangiavo coi gomiti sul tavolo, mio padre usava la voce di un gatto per dirmi
che ero maleducato, e se mio padre si dimenticava di versare il vino alla mamma,
lei usava la sua voce speciale da gatto per lamentarsi. Ma all'improvviso i gatti
hanno smesso di parlare; sono diventati soltanto dei gatti. Non potevo mica essere
solo io a usare le loro voci. Un bambino non può usare nemmeno la voce
di un gatto per chiedere: cosa succede? Certe cose non puoi mica chiederle ai
grandi. Abbiamo smesso di andare in piscina tutti e tre insieme. Ci piace nuotare
e prima andavamo spesso in piscina dal console generale. Ma mio padre mi ha insegnato
a giocare a squash e ha cominciato a portarmi a fare pesca subacquea con altri
uomini. Il mare qui è molto agitato, è terribile quando le onde
del porto piene di pezzi di plastica e di frutta marcia sballottano la barca di
qua e di là, prima di arrivare al posto dove ci si può tuffare.
Queste erano cose che la mamma non faceva: non giocava a squash, non faceva pesca
subacquea. Le ho raccontato del mare, ma lei non ha detto niente a mio padre,
non si è schierata dalla mia parte. Era un po' come succedeva a me: non
riusciva a usare la voce dei gatti per parlare con lui. Lui - mio padre - mi
abbracciava, così, all'improvviso, senza un perché; non quando doveva
partire, anche solo quando usciva da una stanza, o se ci incontravamo in cima
alle scale. E la mamma mi incoraggiava a passare i weekend con i miei amici. A
dormire lontano da loro, da lei e da mio padre. Una volta ho pianto, da solo,
perché non mi voleva in casa, così almeno sembrava. Non era perché
avevano bisogno di stare insieme solo loro due, di parlare senza bambini attorno
come fanno certe volte i grandi anche se ti vogliono bene; si sedevano a tavola
e non avevano niente da dirsi, stavano zitti. I gatti si prendevano gli avanzi
senza dire una parola. Eppure è stato allora che è successo -
il bambino. Hanno fatto il bambino. La mamma un giorno mi ha detto: Aspetto un
bambino. Mi guardava con ansia. Per vedere se mi dispiaceva. Ma non mi dispiaceva
proprio. Sul sesso so tutto, chiaramente, so com'è rimasta incinta, quello
che mio padre aveva fatto con lei, anche se non si sorridevano, non si prendevano
più in giro e non ridevano più. Nove mesi sono lunghi. Ho compiuto
tredici anni. Mio padre stava lontano per tanto tempo, sempre in giro per il paese.
Una volta la mamma andava con lui, mi lasciava per un paio di giorni, ma adesso
non ci andava più per via del bambino, diceva. Così eravamo sempre
insieme noi due da soli. Guardavamo come cambiava, come il bambino la cambiava.
So che a certi ragazzini non è permesso vedere il seno della loro mamma
ma lei dal console nuotava sempre in topless come le altre signore, e così
ero abituato a vederglielo, sapevo quant'era bello, non come quello piccolo e
sodo che sporge in fuori alle ragazze che hanno qualche anno più di me,
ma nemmeno come quello che penzola e balla quando certe donne si alzano - morbido,
con le mammelle ben staccate perché la mamma ha le spalle larghe. Adesso
si erano riempite, quando mi abbracciava per darmi il bacio della buonanotte le
sentivo contro di me, sembravano sacchetti di plastica pieni d'acqua, e dalla
scollatura della camicia da notte avevo visto che erano cambiate, erano rosee
e chiazzate. Strano, mi ricordavano un camaleonte che adagio adagio cambia tinta
quando lo metti su un fiore. Ma era il bambino a farlo. Quando ha cominciato a
muoversi dentro di lei mi metteva la mano sul pancione per farmelo sentire. Più
sentire con le orecchie che con la mano: bussava piano piano. Così ci appoggiavo
contro l'orecchio. La mamma mi metteva una mano sulla testa e io ascoltavo e sentivo.
Un po' tipo l'alfabeto Morse, le ho detto: dava tre o quattro colpetti veloci
e poi smetteva, e poi ricominciava. Cosa diceva, cosa faceva, là dentro?
Noi ridevamo, e ci inventavamo delle storie, come facevamo con i gatti. Ma eravamo
solo noi due e il bambino; Lui non c'era. Certe volte, in quei mesi, sognando
sentivo contro di me il seno che stava cambiando per via del bambino e a quel
punto succedeva ciò che normalmente capita ai ragazzini (mia madre e mio
padre me lo avevano già spiegato prima di allora). Non c'è niente
di cui vergognarsi, uno dovrebbe essere contento quando succede; mi limitavo a
mettere il pigiama a lavare. Un'altra volta ho sognato che appoggiavo l'orecchio
dove c'è il bambino e all'improvviso il pancione duro com'era si trasformava
in una vaschetta di pesciolini rossi, e il bambino ci nuotava dentro di qua e
di là e intanto io lo stavo a guardare. Un bambino rosso, un pesciolino
rosso grande come quelli che Lui andava a cercare sotto il mare. Ma questo qua
era nostro - mio e della mamma - nella vaschetta della mamma, e nel sogno ero
io a prendermi cura di lui. Sono stato io il primo a vedere il bambino. L'ho
visto quando aveva esattamente 40 minuti di vita. Sono stato io il primo a vedere
la mamma col bambino. Ero nella sala d'attesa dell'ospedale insieme alla nonna
e quando l'infermiera è venuta a dire che potevamo entrare io mi sono messo
a correre e sono arrivato primo - le infermiere non contano, non è mica
loro. La mamma ha chiesto l'ora e quando le ho risposto, ha detto che il bambino
aveva esattamente 40 minuti di vita, mi aveva promesso di chiedere al dottore
l'ora precisa in cui il bambino era nato, e aveva mantenuto la promessa. L'abbiamo
guardato insieme, il bambino: le orecchie, i piedi e le mani; era tutto a posto.
Gli occhi però non si aprivano. I capelli erano una sorpresa; aveva un
sacco di capelli neri che sembravano bagnati e gli stavano dritti in testa mentre
la mamma glieli asciugava attentamente con l'orlo della coperta. Noi abbiamo i
capelli castano chiari; la nonna dice che la mamma è nata pelata, e la
mamma dice che anch'io sono nato così. Il bambino non ci assomigliava per
niente. Nessuno di noi ha detto a chi assomigliava. Era solo quello che non ci
eravamo immaginati, quello che aveva lanciato messaggi e cambiato il corpo della
mamma per tutto quel tempo, e che improvvisamente era venuto fuori. Lo abbiamo
guardato per tutta la settimana mentre cambiava, mentre cominciava a vivere fuori
della mamma, a vivere con la mamma e con me. Era nato talmente sano che il
dottore ha detto che potevamo ripartire con lui quando aveva solo nove giorni
e sessantadue minuti (ho fatto il calcolo in attesa della chiamata del nostro
volo). Ci hanno dato i posti vicini a uno dei tramezzi che dividono l'aereo così
avevamo un sacco di spazio per la roba del bambino - il sedile dall'altra parte
del corridoio era libero, e in quello accanto al finestrino solo una signora coi
capelli grigi. Non abbiamo parlato con lei. Non c'era bisogno di parlare con nessuno,
eravamo solo noi e basta. Ho sistemato la nostra borsa di tela così la
mamma ha potuto metterci sopra i piedi. Poi ho accomodato il baby-pullman e c'era
ancora posto per le mie gambe, anche se diventano sempre più lunghe, la
mamma ha dovuto tirar giù l'orlo dei jeans. Il bambino è stato buonissimo.
Piangeva solo quando aveva fame, e poi piano, si sentiva appena sopra il rumore
dell'aria attraverso i motori e le voci della gente nelle file dietro. Più
che piangere, sembrava ci parlasse, a me e alla mamma. Ogni volta lo tiravo su
dal baby-pullman così la mamma non doveva chinarsi e mettere giù
i piedi. Succhiava bello deciso manco fossimo a terra e non a un'altezza di novemila
metri viaggiando a una velocità di 800 km all'ora. Ormai riusciva ad aprire
gli occhi. Sono grandi e scuri e scintillanti. Ci guardava, prima la mamma e poi
me, distintamente e intanto noi lo guardavamo mangiare - la mamma ha detto che
si stava chiedendo se ci avesse già visti da qualche parte e già
dimenticati. Così almeno le sembrava. Io ho pensato che era curioso. Gli
baciavamo spesso la testa. Che capelli buffi che ha. Lo steward mi ha dato
un gioco di enigmistica ma io sono abituato con i miei videogame e non l'ho trovato
molto interessante. Ci ho provato mentre la mamma aveva chiuso gli occhi, per
riposare (che fatica nutrire un bambino col proprio corpo), ma voleva dire perdermi
qualcosa che il piccolo stava facendo - sbadigliare, fare le smorfie - così
dopo un po' l'ho piantato lì. Mi piace il rock-'n'-roll di una volta, la
mamma si ricorda ancora che lo ballava, e ho trovato il numero corrispondente
sulla cuffia, ma me la toglievo ogni cinque minuti perché mi sembrava che
la mamma mi stesse parlando. Poteva aver bisogno di qualcosa; allattare un bambino
disidrata, dovevo andare a prendere quei bicchierini di plastica pieni d'acqua
al distributore automatico, e mettevo i pannolini sporchi in certi sacchetti di
plastica che ci eravamo portati dietro apposta e poi li portavo al gabinetto.
Li buttavo via dove c'è la scritta apposita. Avevamo preparato tutto per
il viaggio, non avevamo bisogno di chiedere niente a nessuno. Ci siamo messi comodi
e ci siamo addormentati, il bambino sicuro al cento per cento. Anche con gli occhi
chiusi e le coperte sopra la testa (la mamma è sensibile alla luce e la
mascherina che le avevano dato era troppo sottile) sapevamo che il bambino era
lì. All'improvviso la mamma mi ha detto: Ecco il fiume. Ho aperto gli
occhi ed era già chiaro, mi sono chinato su di lei e sul bambino e dal
finestrino giù in fondo ho visto tutto il fiume, dal posto dove stiamo
noi non si riesce a vedere l'altra sponda - è un fiume grandissimo. Eravamo
arrivati. Non ho pensato che Lui ci stesse aspettando. Avevo un sacco di cose
da fare: mettere via la roba del piccolo, prendere i soprabiti dal bagagliaio
sopra le nostre teste, la mamma mi aveva detto di assicurarmi che non stessimo
dimenticando niente. Ve lo ricordate, non eravamo mai arrivati prima col bambino,
era la primissima volta. Lui non conosceva quel posto dove aveva vissuto, cominciato
la sua vita quando le cose andavano storte, crescendo dentro la mamma in tutti
quei mesi quando Lui era quasi sempre via. Mi sentivo molto eccitato all'idea
di atterrare con qualcosa di nuovo, nuovissimo. Anch'io mi sentivo nuovo. Sono
sceso dall'aereo dietro la mamma, teneva in braccio il piccolo come l'avevo vista
tenere un grande mazzo di fiori. lo avevo tutto il resto - la borsa di tela, i
soprabiti, il baby-pullman. Siamo passati in fretta attraverso il controllo passaporti
perché tutti ti danno la precedenza quando vedono che hai un bambino piccolo.
Ma abbiamo dovuto aspettare i bagagli. Il nastro trasportatore non aveva ancora
cominciato a muoversi che il bambino si è messo a piangere, si era svegliato
e aveva di nuovo fame. Le valigie ci avrebbero messo ancora un bel po' di tempo
e il piccolo non la smetteva. La mamma si è seduta sulla borsa di tela
e io mi sono inginocchiato di fronte a lei in modo che nessuno potesse vederla
mentre si slacciava il vestito per allattarlo. Era proprio ingordo, di colpo,
e la stringeva e tirava - come una capretta, ha detto la mamma, e mentre gli sorridevamo
dicendoci: guarda, si soffoca, s'ingozza, senti come manda giù, ho alzato
gli occhi e l'ho visto, Lui era lì, gli avevano permesso di passare la
dogana. Gli permettono sempre di andare dove altri non possono andare, perché
Lui è addetto economico all'ambasciata. L'ho visto nel momento in cui ci
ha trovati, visti per la prima volta, guardato me e la mamma allattare il bambino,
forse riusciva addirittura a vedere il seno dal punto in cui si trovava, è
alto, Lui. Ha tirato su la testa e la bocca si è aperta, era contento,
era venuto a prenderci. Allora mi sono sentito pieno di gioia e di forza, era
come quando sono arrabbiato, ma molto meglio, molto molto meglio. Ho visto che
ci guardava e che sapeva che lo avevo visto, ma io l'ho ignorato.
Il
silenzio è finito. E questo che gli martella nella testa da quando i
bip elettronici della sveglia l'hanno destato alle cinque del mattino. Prima di
alzarsi ha telefonato all'aeroporto, e mentre ascoltava la musichetta del nastro
registrato con cui ti intrattengono mentre aspetti che l'ufficio informazioni
risponda, quella frase continuava a fare da contrappunto, era lui stesso che parlava
dentro di sé: "Il silenzio è finito". Perché quella
storia d'amore è finita. Il silenzio, prezioso ed emozionante, in cui l'aveva
nascosta, una cosa che lei non doveva permettersi di toccare nemmeno con una parola,
ora sembra un'agonia finalmente superata. Più di un anno di confidenze,
sentimenti inespressi, emozioni, aneddoti dolorosamente intrappolati che giacciono
strato su strato, compressi dentro di lui. Ma lei ha partorito; si chiede come
sarà rivederla, libera da quel fardello. Il suo corpo com'era prima, quando
vederlo era un'abitudine: l'aveva vista solo vestita nel periodo in cui il suo
corpo cresceva, si riempiva, aveva smesso di spogliarsi di fronte a lui perché
non potevano parlare. L'aereo è in orario. S'infila un paio di pantaloni
di lino e i sandali, il condizionatore d'aria continua a balbettare e a fremere
ma presto, grazie a Dio, non lo noterà più perché non sarà
più l'unico rumore di una casa vuota. Si fa la barba ma rimette giù
l'acqua di colonia perché - come un conato di nausea il mattino dopo una
serata fuori - quello era l'odore che aveva su di sé quando tornava a casa
dopo aver lasciato il letto e il profumo di un'altra donna; un travestimento inutile,
lo sa, perché era ovvio che si era fatto la doccia dopo aver fatto l'amore,
non si torna dagli uffici del consolato con i capelli umidi. Che pazzia! Come
nel corso di quell'anno non aveva potuto pensare a sua moglie, non vedendola nemmeno
quando ce l'aveva seduta di fronte a tavola, così adesso è troppo
preoccupato per riuscire a visualizzare la donna da cui non riusciva a restare
lontano neppure per un giorno. Percorrendo la strada dell'aeroporto cosparsa di
fiori gialli di cassia, la memoria è una mano ora scottata ora cosparsa
di unguenti: paura della terribile esperienza di quella meravigliosa storia d'amore
che appartiene a quel luogo - la destinazione prevista dal suo incarico - come
gli alberi, e gratitudine per la resistenza di quegli alberi, di quel posto in
cui sta per essere reintegrato. Non molto tempo prima c'erano carri armati lungo
quella strada, e ci sono macchie di asfalto fresco qua e là dove quello
vecchio era scoppiato. Ma i familiari alberi carichi di grappoli gialli sono ancora
qui. Come lui. Parcheggia la macchina innocentemente, ora, all'aperto; non
lo ha portato a nessuna destinazione clandestina dove arrivava già con
un'erezione. Entra a passi lenti nell'edificio perché quel passaggio tra
basse siepi di spini e di ibisco sorrette come rose tagliate ad alberello - nessuno
crederà mai cosa non sopravvive a un tentativo di colpo di stato mentre
la gente muore ammazzata - lo conduce a qualcosa di vecchio e di nuovo allo stesso
tempo - nessuno crederà mai a cosa possono sopravvivere un uomo e una donna,
tra loro. Quest'aeroporto fatiscente in cui molte volte è andato e venuto
con impazienza è il luogo in cui accadrà; che strano. Come sono
adeguatamente inappropriati, definitivi, i luoghi. E in anticipo, dapprima la
sala arrivi è vuota, i bidoni traboccanti di lattine di birra sembrano
esplosi contro le pareti, il logoro rivestimento di gomma rossa del pavimento
scintilla sotto gli spruzzi e il sudiciume si estende tutt'attorno, è solo
nella prospettiva di un quadro di De Chirico... Residui di generalizzazioni
filosofiche, frammenti di una cultura e di un'educazione che soffocano le emozioni,
forza propulsiva della vita, si allontanano da lui, poco importanti. Lei sta tornando
con un bambino pieno di vita. Quella carne, quel fatto è il risultato di
una notte dopo il suo ritorno da un weekend con quella donna; era così
furioso per la sconsolata disperazione della moglie, per quel suo bisogno di conforto
che lui non poteva darle, per qualcosa che non poteva dire, che aveva fatto l'amore
con lei. L'aveva scopata. Non era stata nemmeno una bella scopata perché
aveva appena fatto l'amore con l'altra, come in un raptus, teneramente, senza
quasi chiudere occhio per due notti. Fu un atto vergognoso per entrambi, per sua
moglie e per se stesso. Non fu un modo di parlare tra loro. Più un assassinio
che un concepimento. Non fosse stato per quella notte orribile non ci sarebbe
stato nessun bambino e - una morsa d'angoscia per il pericolo a cui era sfuggito
per un pelo - ora non sarebbe lì ad attendere, quella storia avrebbe potuto
aprire un solco nella sua vita recidendo ogni cosa sul suo cammino. I crocchi
di gente che ciondola tutto il giorno in quegli aeroporti anziché arrivare
o partire cominciano a rendere più umano e domestico il vuoto surreale
della sala. Gli uomini entrano parlando, sembra sempre che i neri debbano spiegare
qualcosa, discutere, inveire gli uni contro gli altri, giorno e notte. Non si
sentono di certo mai soli. Le donne coi loro turbanti non sono tanto singoli individui
quanto grappoli di persone, i bambini si stringono o si arrampicano sulle vesti
lunghe e ampie delle madri, su cui sono stampate immagini di pesci e di frutta,
o il volto del presidente circondato da un messaggio di auguri per il suo sessantesimo
compleanno, e che sono per loro come libri illustrati. I neri si portano i figli
dappertutto: al mercato dormono sotto le bancarelle delle madri, nelle birrerie
scuotono la testa avanti e indietro, legati sulla schiena - questa gente non si
stacca mai dai figli, almeno finché non sono adolescenti. Dopodiché,
in questo paese, i ragazzi possono essere rapiti dai ribelli oppure arruolati
imberbi nel corpo d'armata del presidente; spesso a casa non li rivedono più,
dopo tutta quella vicinanza da piccoli, tutto quel contatto fisico, quel calore
e l'odore della pelle che è - amore? Aveva cercato di tener fuori da quel
silenzio il figlio, di parlargli. Di mostrargli il suo amore. Cioè, di
fare delle cose insieme a lui. Ma il fatto è che il ragazzo non è
virile, non è avventuroso - è troppo bello. Troppo come lei, attorno
agli occhi la stessa pelle delicata, le stesse orecchie madreperlacee, le stesse
di lei quando si sveglia la mattina, labbra che non hanno bisogno di rossetto.
Una bella cosa in una donna - sì, bella come in un'amante, proprio quello
che vuole un uomo, desiderabile e accogliente (come aveva fatto a dimenticarsene,
anche se solo per un anno su quindici?). Ma non in un ragazzo. Il ragazzo nuota
come un pesce ma ha fatto il muso quando l'ha portato a fare pesca subacquea con
gli adulti, con suo padre; una spedizione nella quale qualunque altro ragazzo
sarebbe stato fiero di essere incluso. E poi quelle volte in cui amore di colpo,
per un istante, non voleva più dire l'altra donna, bensì un impeto
di contatto fisico, un desiderio struggente per l'odore della pelle del figlio,
dell'abbraccio del figlio - non capiva, vi si abbandonava. Come aveva fatto sua
madre, quella notte. Non si concede neppure di guardare l'orologio. Manca ancora
almeno un quarto d'ora. Quella notte - l'ha concepito proprio quella notte. Quando
il figlio era più piccolo avevano provato ad averne un altro. Non era successo
niente. Per tutto quel tempo durante il quale sarebbe stato concepito con gioia,
quando si desideravano ancora così tanto e così spesso! E naturalmente
quella era la ragione per cui il ragazzo era stato viziato - dal suo punto di
vista, non solo nel senso di averlo trattato con eccessiva indulgenza in quanto
figlio unico. Ed è anche colpa sua - parte di quella pazzia! A che serve
dire che gli rincresce ora (uno spasimo di angoscia) ma quando lei concepì
quel figlio, con la deliberata lussuria di rabbia e vergogna che lui provava al
cospetto della sua vittima, non volle vedere quanto le stava accadendo, non volle
vedere il suo ventre crescere sempre di più né lei voleva che lui
la vedesse. Era rimasta sola per giorni e notti con il ragazzo, poveretto. E persino
quand'era arrivato il momento, solo il mese prima, del parto, lui l'aveva fatta
andare in Europa con il ragazzo. L'aveva mandata via con un ragazzino immaturo
di tredici anni al seguito,quando con lei avrebbe dovuto esserci lui (dall'altoparlante
si sente un rauco ronzio metallico ma a stento capisce che si tratta dell'annuncio
della partenza di un altro aereo) con lei avrebbe dovuto esserci lui: le parole
ricominciano a fremere non appena la sua attenzione ritorna vigile dopo quell'attimo
di distrazione. Quell'ultimo anno lo assale con furia dai meandri in cui lo
ha ricacciato dentro di sé, allo stesso tempo negando la sua reale presenza
lì, nella sala dell'aeroporto, dove la gente mangia farinata fredda di
tapioca e beve coca-cola nel negozio di souvenir che funge anche da posto di ristoro
e che ha appena alzato la serranda, e rendendo importantissimo ogni dettaglio
di questo luogo, questa scena. Per il resto della sua vita, lo sa, sarà
in grado di sentire lo strappo nel sedile sotto di lui da cui, come da un ventre
aperto, fuoriesce l'imbottitura. Sarà in grado di mettere in fila, lungo
una linea graduata, gli elefanti di ebano - da quelli per i braccialetti portafortuna
a quelli fermaporta -, le perline di malachite, i cerchietti di rame, nonché
i mostri spaziali imprigionati in bolle di plastica sullo sfondo di un cartoncino
tra le blatte morte della vetrina del negozio, davanti al quale continua a passare
e ripassare. Sono questi i suoi testimoni. Il pacchiano, l'umile e il banale sono
la prova della verità; le splendide emozioni di una storia d'amore sono
i lussuosi arredi della menzogna. Una stella verde lampeggia sul tabellone
degli Arrivi e delle Partenze. Si alza dal sedile rotto. Non importa che l'annuncio
arrivi come un brontolio di stomaco, riesce a cogliere il numero del volo, la
stella verde continua a lampeggiare. La notte infelice in cui si costrinse a fare
l'amore con sua moglie e lei concepì quel bambino che lui ora aspetta -
è tutto finito. Lui è di nuovo suo marito, il suo amante. E tornato
da lei in un modo che lei capirà subito non appena metterà piede
giù dall'aereo e lui la abbraccerà. La fine del viaggio che ha fatto
lui, lontano da lei, e la fine del viaggio che ha fatto lei, ora, combaceranno
e loro saranno di nuovo una cosa sola. Con il bambino. Il bambino che lei porterà
giù dall'aereo e che lui riceverà è quel sentirsi una cosa
sola. La consueta procedura privilegiata si sta svolgendo: il funzionario della
dogana lo riconosce come un volto noto, qualcuno addetto a un consolato estero,
qualcuno che non deve attenersi alle regole della gente del posto carica di fagotti
e parenti. Prego, signore, passi pure, grazie mille. A quel modo ha passato un
posto di controllo centinaia di volte; ma questa volta non è uguale a nessun'
altra. Eccoli. Attraverso un vetro li vede accanto al nastro trasportatore.
Eccoli. Un po' in disparte rispetto agli altri passeggeri raccolti attorno al
nastro. Ma che ha il ragazzo? Perché non se ne sta lì pronto a prendere
i bagagli? Se ne stanno in disparte dagli altri, lei siede su quell'enorme
borsa da viaggio, lui vede l'angolo delle ginocchia, di lato, sotto le pieghe
di un'ampia gonna blu. E il ragazzo è inginocchiato di fronte a lei, letteralmente
inginocchiato. Tiene il capo chino e lei tiene chino il suo, guardano qualcosa.
Qualcuno. Che lei tiene in grembo, nell' incavo del braccio nudo. Il bambino.
Il bambino attaccato al suo seno. Il bambino è lì; quella realtà
irrompe in lui in vampe di sangue. Si ferma, per trattenere quell'istante. Non
sa come comportarsi. E in quell'istante il ragazzo gira il volto, il suo volto
troppo bello, e i loro sguardi s'incrociano. Ritto in piedi, getta indietro
il capo e annaspa o ride, e poi si ferma di nuovo prima di correre incontro a
loro, a sua moglie, al bambino, a rivendicarli. Il suo grido getta un laccio al
ragazzo. Prendilo! Prendilo! Ma il ragazzo lo fissa con la faccia di un uomo,
e si volta verso la donna come se fosse la sua, e il bambino figlio suo.
(Tratto dalla raccolta
Il salto, Feltrinelli editrice, Milano, 1991, traduzione di Franca Cavagnoli.)
Nadine Gordimer è Premio Nobel per la Letteratura 1991.
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