Si udí
un annuncio.
"Stiamo per entrare in una zona di turbolenze. I passeggeri
sono pregati di tornare ai loro posti e di mantenere le cinture allacciate".
Satsuki
era assorta nei suoi pensieri, quindi ci mise un po' a capire il significato di
quell'annuncio, fatto dallo steward thailandese in un giapponese molto zoppicante.
Satsuki
grondava di sudore. Faceva un caldo terribile. Le sembrava di essere cotta al
vapore. Aveva il corpo in fiamme, e le calze di nylon e il reggiseno le davano
un fastidio insopportabile. Avrebbe voluto potersi spogliare e liberare di tutto.
Allungò il collo per guardarsi intorno, ma stranamente sembrava essere
la sola a soffrire tanto il caldo. Gli altri passeggeri della business class evitavano
il getto freddo del condizionatore e dormivano raggomitolati, con una coperta
che li copriva fino alle spalle. Forse erano solo le sue abituali vampate. Satsuki
si morse le labbra. Per distrarsi, decise di concentrare la mente su qualche altra
cosa. Riapri il suo libro alla pagina dove si era fermata, e provò a riprendere
la lettura. Ma naturalmente dimenticare quel caldo era impossibile. Non era un
caldo normale. E poi ci voleva ancora molto tempo per arrivare a Bangkok. Chiese
dell'acqua alla hostess che si occupava di lei. Poi tirò fuori dalla borsa
un portapillole e mandò giú la dose di ormoni che aveva dimenticato
di prendere. Non poté fare a meno di pensare per l'ennesima volta che il
problema della menopausa era un ammonimento sarcastico (se non un dispetto) di
Dio agli esseri umani che avevano allungato la durata della vita piú del
dovuto. Fino a poco più di cento anni prima, l'aspettativa media di vita
non arrivava ai cinquant'anni, e le donne ancora in vita venti o trent'anni dopo
la fine delle mestruazioni erano casi rarissimi. I disagi di vivere con un corpo
nel quale le ovaie e la tiroide avessero smesso di produrre secrezioni, o la possibilità
di un rapporto tra il calo del livello di estrogeni e malattie come l'Alzheimer
non erano problemi tali da creare ansie e preoccupazioni. Per la maggioranza degli
individui, quella di procurarsi quotidianamente il cibo era una questione ben
piú pressante. A pensare questo, in effetti, veniva da chiedersi se il
progresso della medicina non avesse fatto altro che portare a galla, dissezionare
e complicare i problemi del genere umano.
Passò un po' di tempo e ci
fu un altro annuncio. Questa volta in inglese. "Se c'è un medico a
bordo, è pregato di contattare un membro dello staff".
Qualcuno
sull'aereo doveva essersi sentito male. Satsuki pensò di farsi avanti,
ma dopo aver riflettuto un momento ci rinunciò. In passato le era già
successo due volte, in simili circostanze, di offrire il suo aiuto, e in entrambi
i casi le era capitato di scontrarsi con medici che viaggiavano sullo stesso aereo.
Avevano la sicurezza degli ufficiali piú anziani che in prima linea assumono
il comando, e sembravano possedere l'occhio per riconoscere al primo sguardo il
medico specialista senza esperienza pratica come Satsuki. "È tutto
a posto. Me ne occuperò io da solo. Lei, dottoressa, si riposi tranquillamente",
le avevano detto con sorrisi freddi. Mormorata qualche stupida scusa, lei era
tornata al suo posto, e aveva ripreso a guardare il suo stupido film.
Però,
rifletté, può anche darsi che su questo aereo non ci sia nessun
medico oltre a me. O che la persona che sta male abbia un grave problema del sistema
immunitario che riguarda la tiroide. E se cosí fosse - ma non credo che
le probabilità siano molte -, anch'io potrei essere d'aiuto. Tirò
un sospiro e premette il bottone per chiamare gli assistenti di volo.
Il
convegno mondiale sulla tiroide si era tenuto a Bangkok, al Marriott Hotel, ed
era durato quattro giorni. In effetti, piú che di un convegno, si trattava
di una riunione di famiglia. I partecipanti erano specialisti della tiroide: tutti
conoscevano tutti, e se per caso non si conosceva qualcuno, c'era sempre chi provvedeva
alle presentazioni. Era un piccolo mondo. La giornata era dedicata agli interventi
e alle tavole rotonde, e la sera ci si riuniva in gruppi per dei piccoli party.
I vecchi amici si ritrovavano e rinnovavano la loro amicizia. Si beveva vino australiano,
si parlava di tiroide, si riferivano pettegolezzi sottovoce, si scambiavano informazioni
sulle rispettive carriere, si raccontavano barzellette oscene di argomento medico,
e si cantava Surfer Girl dei Beach Boys ai bar di karaoke.
Durante il soggiorno
a Bangkok, Satsuki aveva frequentato soprattutto alcuni amici dei tempi di Detroit.
Era con loro che si sentiva piú a suo agio. Per quasi dieci anni, aveva
lavorato all'ospedale universitario di Detroit, e in quel periodo aveva portato
avanti le sue ricerche sulle funzioni immunitarie della tiroide. Ma da un certo
punto in avanti i rapporti tra lei e il suo marito americano, un analista finanziario,
avevano cominciato a rovinarsi. La sua dipendenza dall'alcol era aumentata col
passare degli anni, e in piú c'era un'altra donna, una per giunta che Satsuki
conosceva bene. Si separarono, e per un anno ci fu una furiosa battaglia a colpi
di avvocati. "La causa di tutto è stata il fatto che tu non volevi
bambini", le aveva rinfacciato il marito.
Tre anni prima, finalmente si
era raggiunto un accordo per il divorzio, ma pochi mesi piú tardi aveva
trovato la sua Honda Accord, nel parcheggio dell'ospedale, con i finestrini e
i fari distrutti, e la scritta JAP CAR con vernice bianca sul cofano. Satsuki
aveva chiamato la polizia. L'agente nero grande e grosso che era arrivato, dopo
aver raccolto la sua denuncia, le aveva detto: "Dottoressa, qui siamo a Detroit.
La prossima volta cerchi di comprare una Ford Taurus".
Per queste ragioni
Satsuki cominciò a sentire un rifiuto per il fatto di continuare a vivere
in America e maturò la decisione di tornarsene in Giappone. Trovò
subito lavoro in un ospedale universitario di Tokyo. Un collega indiano che lavorava
con lei alla stessa ricerca tentò di trattenerla. "Come puoi farlo,
proprio ora che il nostro lavoro di anni e anni comincia a dare dei frutti? Se
tutto va bene, potremmo ricevere una candidatura al Nobel, e non sto parlando
di fantasie!" Ma Satsuki non tornò sulla sua decisione. Qualcosa dentro
di lei si era rotto.
Satsuki era rimasta nell'albergo di Bangkok da sola
anche dopo la fine del convegno. Come aveva spiegato agli altri, era riuscita
a organizzare le cose in modo da prendersi un po' di ferie, cosí aveva
pensato di andare in una località balneare, non lontano da lì, per
passarvi una settimana di assoluto riposo: leggere qualche libro, nuotare, bere
cocktail freddi sul bordo della piscina. Che bello, beata te, avevano commentato
gli amici. Ogni tanto una pausa è necessaria. Fa bene anche alla tiroide.
Li salutò con strette di mano, abbracci, e si lasciarono promettendo di
rivedersi presto.
Il giorno dopo, di buon mattino, la limousine che doveva
venire a prenderla arrivò davanti all'albergo come previsto. Era una Mercedes-Benz
blu, un modello vecchio, lustra come un gioiello, e senza la minima macchiolina.
Era magnifica, piú bella di qualsiasi automobile nuova. Sembrava essere
venuta fuori direttamente dall'immaginazione visionaria di qualcuno. L'uomo che
le avrebbe fatto da guida e autista era un thailandese dal fisico asciutto, che
sembrava aver superato la sessantina. Indossava una camicia bianca inamidata a
mezze maniche con una cravatta di seta nera e portava occhiali da sole scuri.
Era abbronzato e aveva un collo lungo e magro. Arrivato davanti a lei, invece
di stringerle la mano, la salutò congiungendo le sue e facendo un piccolo
inchino alla giapponese.
- Mi chiami Nimit. Avrò l'onore di accompagnarla
durante questa settimana, dottoressa.
Satsuki non capi se Nimit fosse il
nome o il cognome. In ogni caso l'avrebbe chiamato cosí. Nimit parlava
un inglese elegante e facile da capire. Il suo accento non aveva il tono trasandato
dell'inglese americano, né l'inflessione snob di quello britannico. O per
meglio dire, non si distingueva in lui nessun accento. Era un inglese che a Satsuki
sembrava di avere già sentito da qualche parte, ma non riusciva a ricordare
dove.
- Piacere, - disse Satsuki.
Attraversarono il centro di Bangkok, caldo,
caotico, rumoroso e dall'aria inquinata. C'era molto traffico, la gente si scambiava
insulti e i clacson fendevano l'aria come allarmi antiaerei. E per giunta c'erano
degli elefanti che camminavano in strada. E non soltanto uno o due. Che cosa ci
fanno degli elefanti in piena città?, chiese Satsuki a Nimit.
- È
la gente di campagna che porta gli elefanti in città, - spiegò Nimit.
- Sono elefanti che in origine venivano usati per lavori forestali. Ma siccome
in questo modo i loro proprietari non riuscivano a guadagnare abbastanza, hanno
avuto l'idea di portarli in città per farli esibire davanti ai turisti
stranieri e far su così un po' di soldi. Per questo motivo il numero di
elefanti è cresciuto troppo, con molti disagi per gli abitanti. A volte,
se qualcosa li spaventa, si mettono a correre per le strade, e di recente molte
auto sono andate distrutte. Naturalmente la polizia cerca di controllarli, ma
i poliziotti non possono sottrarre un elefante al suo proprietario. Una volta
sequestrati, non ci sarebbero posti dove tenerli in custodia, e il prezzo per
nutrirli non è uno scherzo. Ecco perché alla fine li lasciano così.
L'auto
finalmente superò la città, entrò nell'autostrada e si diresse
verso nord. Nimit tirò fuori dal vano portaoggetti una cassetta e la mise
nello stereo a basso volume. Era musica jazz. Satsuki riconobbe il brano con una
fitta di nostalgia.
- Potrebbe alzare un po' il volume? - chiese.
- Certo,
- rispose Nimit. Il pezzo era "I Can't Get Started". Nella stessa esecuzione
da lei sentita tante volte in passato.
- Howard McGhee alla tromba, Lester
Young al saxtenore, - sussurrò Satsuki, come parlando fra sé. -
Nella versione della JATP.
Nimit guardò il volto di lei nello specchietto
retrovisore.
- Vedo che è un'esperta, dottoressa. Le piace il jazz?
-
Era la passione di mio padre. Me lo faceva sentire spesso quando ero bambina.
Mi faceva ascoltare lo stesso brano piú volte, e voleva che imparassi il
nome degli esecutori. Se li sapevo dire senza sbagliare, mi dava un dolcetto.
Perciò me li ricordo bene anche adesso. Solo il vecchio jazz: gli artisti
di oggi non li conosco per niente. Lionel Hampton, Bud Powell, Earl Hines, Harry
Edison, Buck Clayton...
- Anch'io sento solo il jazz di una volta. Di cosa
si occupava suo padre?
- Era medico anche lui. Pediatra. Ma è morto
quando io ero appena all'inizio del liceo.
- Mi dispiace, - disse Nimit. -
Ascolta ancora il jazz, dottoressa?
Satsuki scosse la testa.
- Ormai è
tanto tempo che non lo ascolto quasi piú. Mio marito odiava il jazz. L'unico
tipo di musica che ascoltava era l'opera. A casa avevamo un bell'impianto stereo,
ma se mettevo dei dischi che non fossero di opera faceva una faccia ostentatamente
schifata. Mi sono fatta l'idea che gli appassionati di lirica siano le persone
piú intolleranti del mondo. Mi sono separata da mio marito, ma penso che
se anche non dovessi ascoltare mai piú un brano d'opera per il resto della
vita, non ne sentirei la mancanza.
Nimit fece solo un lieve cenno con la testa,
e non disse nulla. Guidava in silenzio, lo sguardo concentrato sulla strada. Era
bello il modo in cui teneva il volante, riportando ogni volta le mani nella stessa
posizione, alla stessa inclinazione. Cominciò un altro brano, per lei altrettanto
nostalgico,
orli. "Remember April" di Erroll Garner. "Concert by the Sea"
di Garner era il disco preferito del padre. Satsuki chiuse gli occhi e si immerse
in ricordi lontanissimi. Tutto intorno a lei era sempre andato bene fino a quando
suo padre non si era ammalato di cancro ed era morto. Niente di brutto era mai
accaduto prima di allora. Poi bruscamente sulla scena calò il buio. Da
un momento all'altro suo padre non c'era piú, e da allora tutto prese ad
andare per il verso sbagliato. Come se di colpo fosse cambiato anche il copione.
Non passò neanche un mese che la madre buttò la collezione di dischi
jazz del padre e il suo grande impianto stereo.
- Di che parte del Giappone
è, dottoressa?
- Di Kyoto, - rispose Satsuki. - Ma ci ho vissuto solo
fino a diciott'anni, e da allora non ci sono praticamente tornata mai piú.
-
Mi sbaglio, o Kyoto è molto vicina a Kobe?
- Non è lontana, ma
non si può dire che sia molto vicina. Grazie a questo, a Kyoto il terremoto
non ha causato grossi danni.
Nimit si spostò nella corsia di sorpasso
e superò uno dopo l'altro, con facilità, alcuni grossi camion carichi
di animali domestici.
- Questa è la cosa piú importante. Nel
terremoto del mese scorso a Kobe sono morte tante persone. Ho visto i telegiornali.
È molto triste. Tra i suoi conoscenti, non c'era nessuno che abitasse li?
-
No. A Kobe credo proprio di non conoscere nessuno, - rispose Satsuki. Ma non era
vero. A Kobe viveva lui.
Nimit rimase per un po' in silenzio. Poi, voltando
leggermente la testa verso di lei, disse: - Però è una cosa strana,
un terremoto, non trova? Noi siamo convinti che la terra che abbiamo sotto i piedi
sia qualcosa di duro e di immobile. C'è pure l'espressione "avere
i piedi per terra", no? E poi un giorno tutt'a un tratto uno si accorge che
non è affatto così. La terra e le rocce che dovrebbero essere solide
si squagliano come fossero liquide. E quello che ho sentito al telegiornale. Hanno
parlato di liquefazione, se non sbaglio. Per fortuna in Thailandia non ci sono
grossi terremoti.
Satsuki appoggiò la schiena al sedile e chiuse gli
occhi. Poi si concentrò in silenzio sull'esecuzione di Erroll Garner. Magari
lui fosse stato travolto da qualcosa di pesante e duro, e ne fosse rimasto schiacciato,
pensò. Oppure fosse stato risucchiato dalla terra liquefatta. E proprio
quello che gli ho augurato per tutto questo tempo.
L'auto giunse a destinazione
alle tre del pomeriggio. Verso mezzogiorno Nimit si era fermato in un'area di
servizio lungo l'autostrada per una breve pausa. Nel bar Satsuki aveva preso un
caffè mal filtrato e mangiato un mezzo donut. Il posto che aveva scelto
per la sua settimana di vacanza era un lussuoso complesso alberghiero in montagna.
Gli edifici si affacciavano su una vallata attraversata da un torrente. Il pendio
era disseminato di bellissimi fiori dai colori primari, e gli uccelli volavano
da un albero all'altro emettendo degli striduli gridi. Come stanza le era stato
assegnato un cottage indipendente. Il bagno era spazioso e pieno di luce, il letto
aveva un elegante baldacchino, e il servizio in camera funzionava ventiquattr'ore
su ventiquattro. Nella hall vi era una biblioteca da cui si potevano prendere
in prestito libri, CD e video. Tutto era immacolato, curato nei minimi dettagli,
e realizzato con grande dispendio di mezzi.
- Oggi abbiamo fatto un lungo viaggio
e penso si sentirà stanca. Si riposi tranquillamente, dottoressa. Verrò
a prenderla qui domattina alle dieci e l'accompagnerò alla piscina. Le
uniche cose che dovrà portare saranno l'asciugamano e il costume, - disse
Nimit.
- Piscina? Ma nell'albergo ce n'è una molto grande, no? Almeno
così mi era stato detto.
- La piscina dell'albergo è affollata.
Siccome il signor Rappaport mi ha detto che lei pratica il nuoto seriamente, ho
cercato una piscina in questa zona dove potrà fare tutte le vasche che
vuole. Si paga qualcosa per entrare, ma non è una grossa cifra. Sono sicuro
che la troverà di suo gradimento.
John Rappaport era l'amico americano
che aveva organizzato per lei questa vacanza in Thailandia. Girava per l'Asia
sudorientale come corrispondente per un giornale sin dai tempi in cui imperversavano
i khmer rossi, e anche in Thailandia aveva molte conoscenze. Era stato lui a raccomandarle
Nimit come guida e autista. "Non dovrai preoccuparti di nulla. Non dire niente
e lascia fare a lui, e vedrai che andrà tutto benissimo. E un tipo speciale",
le aveva detto Rappaport col suo tono scherzoso.
- D'accordo, mi affido a lei,
- rispose Satsuki a Nimit.
- Allora a domani, alle dieci.
Satsuki disfece
i bagagli, appese i vestiti e le gonne agli appendiabiti, spianando con la mano
le pieghe, quindi si infilò il costume e andò alla piscina dell'albergo.
Come aveva detto Nimit, non era una piscina in cui si potesse nuotare sul serio.
Era a forma di zucca, aveva al centro una bella cascata e nella zona dov'era meno
profonda c'erano dei bambini che si tiravano la palla. Satsuki rinunciò
a nuotare, si stese sotto un ombrellone, ordinò un Tio Pepe allungato con
una Perrier e riprese la lettura dell'ultimo romanzo di John Le Carré.
Quando fu stanca di leggere, si copri il viso conil cappello e dormi un po'. Sognò
un coniglio. Fu un sogno breve. Il coniglio era chiuso in una gabbia e tremava.
Era piena notte e sembrava avvertire che stava per arrivare qualcosa. All'inizio
osservava il coniglio dall'esterno, ma a un certo punto si accorse di essere diventata
lei il coniglio. Riusciva a distinguere vagamente nel buio quel qualcosa. Anche
dopo essersi svegliata, il sogno le aveva lasciato un retrogusto sgradevole.
Sapeva
che lui viveva a Kobe. Conosceva persino indirizzo e numero di telefono. Non aveva
mai perso le sue tracce. Subito dopo il terremoto, aveva provato a telefonare
a casa sua, ma naturalmente le linee erano interrotte. Magari la sua casa fosse
stata rasa al suolo, si era detta. Magari la sua famiglia vagasse per le strade
ridotta alla miseria. Se penso a quello che hai fatto alla mia vita, se penso
a quello che hai fatto ai miei figli che avrebbero dovuto nascere, non è
il minimo che ti meriteresti?
La piscina che Nimit aveva trovato era a circa
mezz'ora di macchina dall'albergo. Bisognava oltrepassare una montagna, dove quasi
sulla cima c'era una foresta popolata da numerose scimmie. Le scimmie, dal pelo
grigio, sedute in fila lungo la strada, guardavano attente le macchine che passavano,
come indovini che scrutano il futuro.
La piscina si trovava all'interno di
un terreno vasto e un po' misterioso, circondato da un alto recinto e chiuso da
un imponente cancello di ferro. Quando Nimit abbassò il finestrino dal
lato del guidatore e salutò, subito il custode senza una parola apri il
cancello. Procedendo sul viale ricoperto di ghiaia, c'era un vecchio edificio
di pietra a due piani, e alle sue spalle la piscina, lunga e stretta. Anche se
un po' rovinata, era una vera piscina a tre corsie, lunga venticinque metri. Era
circondata da prato, piante e alberi, l'acqua era bellissima e lei sembrava essere
l'unica cliente. Ai bordi della piscina erano allineate diverse vecchie sedie
a sdraio di legno. Era un luogo silenziosissimo, e non vi era alcun segno di presenza
umana.
- Come le sembra? - chiese Nimit.
- Splendido, - disse Satsuki. -
È un club sportivo?
- Una cosa del genere. Ma in seguito ad alcune circostanze,
attualmente non è quasi per niente utilizzato. Perciò nuoti pure
quanto le pare. Ho già sistemato tutto.
- Grazie. Lei è una persona
veramente in gamba.
- La ringrazio, - disse con un piccolo inchino, senza mutare
espressione, con quei suoi modi d'altri tempi.
- Quel piccolo bungalow funge
da spogliatoio, e ci sono anche il bagno e la doccia. Lo usi pure liberamente.
Io aspetterò vicino alla macchina, quindi se ha bisogno di qualcosa le
basterà chiamarmi.
A Satsuki piaceva nuotare sin da ragazza, e quando
aveva tempo andava sempre in piscina. Aveva imparato lo stile corretto da un istruttore.
Nuotando, riusciva a cacciare dalla mente tutti i suoi ricordi piú spiacevoli.
E quando nuotava a lungo, si sentiva libera, come un uccello che vola nel cielo.
Grazie al fatto che aveva sempre continuato a mantenersi in allenamento, non si
era mai ammalata, non aveva mai avuto problemi fisici degni di nota, né
aveva messo su chili. Naturalmente, non aveva le forme snelle e definite di quando
era giovane. Soprattutto i fianchi erano un po' piú rotondi di quanto avrebbe
desiderato. Ma era perfettamente nei limiti. E d'altra parte non doveva fare la
modella negli spot pubblicitari. Dimostrava cinque anni meno della sua età,
e questo per lei era già un buon risultato.
Quando si fece ora di pranzo,
Nimit le servi tè freddo e sandwich su un vassoio argentato. I sandwich,
piccoli, triangolari, tagliati con cura, erano ripieni di verdure e formaggio.
-
Li ha fatti lei? - gli chiese sorpresa.
A quella domanda, ci fu un impercettibile
mutamento nell'espressione di Nimit.
- No, dottoressa, io non mi occupo di
cucina. Li ho fatti preparare.
Da chi?, avrebbe voluto chiedere Satsuki, ma
non lo fece. Ricordò le parole di Rappaport: Non dire niente e lascia fare
a lui, e vedrai che andrà tutto benissimo. I sandwich erano ottimi. Dopo
mangiato fece un riposino, e con il walkman che si era portata dietro ascoltò
una cassetta del Benny Goodman Sextet, presa in prestito da Nimit, e si mise a
leggere il suo libro. Nel pomeriggio, nuotò ancora un po' e verso le tre
ritornò in albergo.
Tutto questo si ripeté in modo identico per
cinque giorni. Nuotava tutto il tempo che voleva, mangiava i sandwich di verdure
e formaggio, ascoltava la musica e leggeva. A parte la piscina, non andò
in nessun altro posto. Quello che Satsuki desiderava era riposo assoluto, e soprattutto
non pensare a nulla.
A nuotare lí, era sempre lei sola. Forse perché
la piscina, incastonata in quella valle tra le montagne, era alimentata da fonti
sotterranee, l'acqua era gelida, cosi gelida che quando Satsuki cominciava a nuotare
le mancava il respiro. Ma dopo aver fatto alcune vasche, il corpo si riscaldava
e raggiungeva la giusta temperatura. Quando si stancava di fare il crawl, si toglieva
gli occhiali di protezione e nuotava sul dorso. Nel cielo fluttuavano nuvole bianche,
attraversate da uccelli e libellule. Magari potessi continuare questa vita in
eterno, pensava Satsuki.
- Dove ha imparato l'inglese? - chiese a Nimit in
macchina sulla via del ritorno.
- Ho lavorato trentatre anni a Bangkok come
autista per un norvegese che commerciava in pietre preziose, e con lui parlavo
sempre in inglese.
Ecco cosa mi ricordava, pensò Satsuki. Quando aveva
lavorato all'ospedale di Baltimora, c'era un collega, un medico danese, che parlava
esattamente lo stesso tipo di inglese. Corretto dal punto di vista grammaticale,
quasi senza accento e privo di espressioni gergali. Facile da capire, pulito e
magari un po' impersonale. Certo, era curioso ritrovare quell'inglese di scuola
scandinava proprio in Thailandia!
- Il mio capo amava il jazz, e quando eravamo
in macchina, ascoltava sempre delle cassette. Cosi anch'io, facendogli da autista,
ho imparato a conoscere il jazz in modo naturale. Quando tre anni fa è
morto mi ha lasciato l'auto e tutte le sue cassette. Anche questa che stiamo sentendo
adesso, è una delle sue.
- Quindi è dopo la morte del suo principale
che lei ha cominciato a lavorare per conto suo come guida e autista per i turisti
stranieri?
- Si, è proprio cosí, - disse Nimit. - In Thailandia
di guide e autisti ce ne sono tanti, ma credo di essere il solo ad avere una Mercedes
di sua proprietà.
- Il suo principale doveva avere grande fiducia in
lei. Nimit restò per un lungo momento in silenzio. Sembrava indeciso su
come rispondere. Poi disse:
- Dottoressa, io sono un uomo solo. Non mi sono
mai sposato. Per trentatre anni ho trascorso tutte le mie giornate con il mio
capo, diventando, se così si può dire, la sua ombra. L'ho sempre
accompagnato ovunque andasse e lo aiutavo un po' in tutto. Sono diventato una
parte di lui. Facendo questa vita per tanto tempo, a poco a poco si finisce col
non capire piú che cosa veramente si desidera.
Nimit aumentò
leggermente il volume dello stereo: era l'assolo di un sax tenore dal timbro profondo.
-
Per esempio, il discorso vale anche per questa musica. "Nimit, ascolta bene
questo brano. Segui attentamente l'improvvisazione di Coleman Hawkins, nota per
nota. Tendi bene l'orecchio per capire che cosa cerca di dirci con quelle note.
Racconta la storia di uno spirito libero che tenta in tutti i modi di fuggire
dal suo petto. Uno spirito come quello è dentro di me e dentro di te. Senti?
Lo riconosci? Il suo sospiro caldo, il tremito del suo cuore?", diceva. Io
ascoltavo quella musica infinite volte e tendendo l'orecchio riuscivo a riconoscere
i suoni del suo spirito. Ma non so dire con certezza se io li percepissi davvero
con le mie orecchie. Stando tanto a lungo con una persona, eseguendo i suoi ordini,
in un certo senso si diventa un corpo e un'anima. Capisce cosa intendo dire?
-
Credo di si, - rispose Satsuki.
Mentre ascoltava Nimit parlare, a un tratto
aveva pensato che tra lui e il suo principale potesse esserci stata una relazione
omosessuale. Naturalmente era solo una congettura, senza alcun vero fondamento.
Eppure aveva la sensazione che questo avrebbe chiarito quello che lui cercava
di dire.
- Ma io non ho nessun rimpianto. Se potessi ricominciare la mia vita
da capo, so che rifarei tutto nello stesso modo. Nello stesso identico modo. E
lei, dottoressa?
- Non lo so, Nimit, - rispose Satsuki. - Non ne ho la piú
pallida idea.
Nimit non disse altro. Attraversarono la montagna con le scimmie
dal manto color cenere, e ritornarono all'hotel.
L'ultimo giorno prima del
suo ritorno in Giappone, dopo la piscina, sulla via del ritorno Nimit portò
Satsuki in un villaggio vicino.
- Dottoressa, avrei un favore da chiederle,
- disse, guardandola attraverso lo specchietto retrovisore. - Un favore personale.
-
Di che si tratta? - chiese Satsuki.
- Potrebbe darmi un'ora del suo tempo?
C'è un posto che vorrei mostrarle.
Satsuki disse che non aveva nulla
in contrario. Non chiese nemmeno quale fosse il posto dove voleva portarla. Aveva
già deciso da tempo di affidarsi a lui in tutto e per tutto.
La donna
viveva in una piccola casa all'estremità del villaggio. Il villaggio era
povero, e cosi la casa. Un susseguirsi di stretti campi di riso a terrazze lungo
un pendio, animali magri e sporchi. La strada era piena di pozzanghere, e l'aria
impregnata dell'odore di escrementi di mucca. Un cane vagava li intorno, il sesso
penzolante, e una moto cinquanta di cilindrata correva con un frastuono assordante
sollevando fango al suo passaggio. Dei bambini seminudi, fermi al lato della strada,
seguirono con lo sguardo la macchina con a bordo Nimit e lei. Satsuki era stupita
che a poca distanza da quel lussuoso hotel ci fosse un villaggio cosi povero.
La
donna era molto anziana. Forse ormai vicina agli ottanta. La pelle era scura come
cuoio logoro, e rughe profonde come dirupi le ricoprivano il corpo. Aveva la schiena
curva e portava un vestito dalla fantasia floreale, troppo grande per lei. Appena
Nimit la vide, la salutò giungendo le mani, e lei gli rispose con lo stesso
gesto.
Satsuki e la vecchia si sedettero al tavolo una di fronte all'altra,
e Nimit di lato. Dapprima lui e la vecchia parlarono brevemente tra loro di qualcosa.
La donna aveva una voce piuttosto squillante per la sua età, e sembrava
avere ancora tutti i denti. Poi a un tratto la vecchia guardò dritto di
fronte a sé, e fissò gli occhi su quelli di Satsuki. Aveva uno sguardo
fermo e penetrante, senza uno sbattere di ciglia. A sentirsi fissata cosi, Satsuki
fu presa da un senso di ansia, come un piccolo animale imprigionato in una stanza
stretta senza alcuna possibilità di fuga. Poi si accorse di essere tutta
bagnata di sudore. Si sentiva il viso in fiamme, e il respiro affannoso. Avrebbe
voluto tirar fuori dalla borsa le sue pillole e ingoiarne una. Ma non c'era acqua.
L'acqua minerale era rimasta in macchina.
- Metta entrambe le mani sul tavolo,
- disse Nimit. Satsuki obbedí. La vecchia allungò le mani e prese
la destra di Satsuki. Aveva mani piccole ma vigorose. La vecchia le tenne stretta
la mano fissandola negli occhi in silenzio per una decina di minuti (ma avrebbero
anche potuto essere solo due o tre). Satsuki sosteneva senza energia quello sguardo,
e ogni tanto si asciugava il sudore dalla fronte con il fazzoletto che teneva
nella sinistra. Poi finalmente la vecchia tirò un profondo sospiro e le
lasciò la mano. Quindi, rivolta a Nimit, parlò per un po' con lui
in thailandese. Nimit tradusse in inglese.
- Ha detto che dentro il suo corpo
c'è una pietra. È una pietra bianca e dura. Della grandezza del
pugno di un bambino. Da dove sia venuta, lei non sa dirlo.
- Una pietra? -
chiese Satsuki.
- Sulla pietra c'è scritto qualcosa, ma siccome è
in giapponese, non è in grado di leggerlo. Sono dei caratteri piccoli,
scritti con inchiostro nero. Siccome sono cose vecchie, è probabile che
lei abbia vissuto per molti anni con loro. Lei deve buttare quella pietra da qualche
parte. Se non lo fa, anche dopo che lei sarà morta e cremata, solo quella
pietra resterà ancora.
La vecchia, rivolgendosi questa volta a Satsuki,
parlò a lungo, lentamente, in thailandese. Satsuki capi, dal tono della
sua voce, che doveva trattarsi di un discorso importante. Nimit tradusse in inglese.
-
Presto farà un sogno, un sogno in cui apparirà un grande serpente.
Il serpente verrà fuori piano piano da un buco nel muro. Un serpente verde,
tutto ricoperto di squame. Quando sarà venuto fuori di almeno un metro,
lei dovrà afferrarlo per il collo. Tenerlo stretto e non lasciarlo andare.
Avrà un aspetto spaventoso, ma è innocuo. Perciò non dovrà
aver paura. Lo tenga ben stretto con tutt'e due le mani. Lo stringa piú
forte che può, pensando che è la sua vita. Dovrà tenerlo
stretto fino a quando non si sveglierà. Quel serpente ingoierà la
sua pietra. Ha capito, vero?
- Ma che cosa...
- Dica: Ho capito, - disse
Nimit con tono grave.
- Ho capito, - disse Satsuki.
La vecchia annui in
silenzio. Poi, di nuovo rivolta a Satsuki, aggiunse qualcosa.
- Quella persona
non è morta, - tradusse Nimit. - Non ha subito nessuna ferita. Forse non
è quello che lei si augurava, ma per lei questa è una grande fortuna.
Dev'essere grata di avere avuto questa fortuna.
La vecchia disse brevemente
qualcosa a Nimit.
- È finito, - disse Nimit. - Possiamo tornare in albergo.
-
È una specie di divinazione? - chiese Satsuki a Nimit quando furono in
auto.
- Non è divinazione, dottoressa. Come lei cura il corpo, così
quella donna cura la mente. Soprattutto, prevede i sogni.
- Ora che ci penso,
avrei dovuto lasciare qualcosa come ringraziamento. È stato talmente improvviso,
mi ha colto così di sorpresa che me ne sono completamente dimenticata.
Nimit
manovrò il volante con i suoi movimenti esatti e precisi, e l'automobile
fece una curva difficile lungo la strada di montagna.
- Ho pagato io. Non è
una cifra per la quale debba preoccuparsi. Lo consideri un mio personale segno
di simpatia nei suoi confronti.
- Lei porta li tutti i suoi clienti?
- No,
dottoressa, lei è l'unica persona che ci ho portato.
- Potrei sapere
come mai?
- Lei è una bella persona, dottoressa. Forte, e dalle idee
chiare. Ma sembra che si trascini sempre un peso nel cuore. È tempo che
lei cominci a prepararsi per affrontare la morte con dolcezza. Se lei continuerà
a investire troppe energie solo nel vivere, non riuscirà a morire bene.
Un poco alla volta è necessario fare questo cambiamento. In un certo senso
vivere e morire si equivalgono, dottoressa.
- Senta, Nimit, - disse Satsuki,
togliendosi gli occhiali da sole e sporgendosi in avanti verso di lui.
- Cosa,
dottoressa?
- Lei è riuscito a prepararsi per morire bene?
- Io sono
per metà già morto, dottoressa, - rispose Nimit, come se dicesse
qualcosa di ovvio.
Quella sera, nel suo grande letto immacolato, Satsuki
pianse. Riconobbe il fatto che si stava dolcemente avviando verso la morte. Riconobbe
di avere una pietra bianca e dura dentro il suo corpo. Riconobbe che da qualche
parte nel buio si nascondeva un serpente verde tutto ricoperto di squame. Pensò
al bambino che non era mai nato. Lei se n'era liberata e l'aveva gettato in un
pozzo senza fine. E aveva continuato a odiare un uomo per trent'anni. Gli aveva
augurato di morire fra atroci dolori. Per quello nel fondo del cuore aveva sperato
persino in un terremoto. In un certo senso, si disse, sono stata io a provocare
quel terremoto. Lui ha trasformato il mio cuore e il mio corpo in una pietra.
Le scimmie color cenere in quella montagna lontana l'avevano guardata in silenzio.
In un certo senso vivere e morire si equivalgono, dottoressa.
All'aeroporto,
dopo aver fatto il check-in, Satsuki diede a Nimit una busta contenente cento
dollari. - La ringrazio veramente di tutto. Grazie a lei ho trascorso una bellissima
vacanza. Questo è un piccolo regalino da parte mia, - disse.
- La ringrazio
molto per il pensiero, - rispose Nimit prendendo la busta.
- Senta, Nimit,
ha un po' di tempo per prendere un caffè insieme?
- Certo, con molto
piacere.
Entrarono in un bar e ordinarono due caffè. Satsuki lo bevve
nero, Nimit mise nel suo un'abbondante quantità di latte. Satsuki fece
ruotare a lungo la tazza nel piattino.
- A dire il vero, io ho un segreto,
un segreto che finora non ho mai rivelato a nessuno, - cominciò. - Non
sono mai riuscita a tirarlo fuori. Ho vissuto portandolo sempre con me. Ma oggi
vorrei che lei lo ascoltasse. Tanto probabilmente non ci vedremo mai piú.
Dopo la morte improvvisadi mio padre, mia madre, senza neanche chiedere la mia
opinione...
Nimit sollevò le palme delle mani verso di lei. Poi scosse
con forza la testa.
- La prego, dottoressa. Non deve aggiungere altro. Come
ha detto quella donna, deve aspettare il sogno. Capisco quello che prova, ma se
lo mette in parole, tutto si trasformerà in una bugia.
Satsuki si ricacciò
in gola le parole, e chiuse gli occhi in silenzio. Tirò un profondo sospiro,
poi espirò.
- Deve aspettare il sogno, dottoressa, - disse dolcemente
Nimit, come se cercasse di farla ragionare. - In questo momento è necessario
resistere. Butti via le parole. Le parole diventano pietre.
Poi allungò
la mano e prese con dolcezza quella di Satsuki. Era stranamente liscia, e dava
una sensazione di freschezza giovanile. Satsuki apri gli occhi e lo guardò.
Nimit lasciò andare la mano e intrecciò le dita sul tavolo.
-
Il mio capo norvegese era lappone, - disse Nimit. - Come forse saprà, la
Lapponia è la regione piú a nord della Norvegia. E vicina al Polo
nord, e ci sono molte renne. D'estate non vi è notte, e d'inverno non vi
è giorno. Può darsi che lui sia venuto in Thailandia proprio per
sfuggire a quel freddo. Perché in un certo senso sono proprio i due estremi
opposti. Lui amava la Thailandia e ha voluto essere seppellito qui. Eppure, fino
all'ultimo giorno della sua vita ha sempre avuto nostalgia per il villaggio della
Lapponia in cui era nato. Mi ha parlato tante volte di quel piccolo paesino. Ma
ciononostante, per trentatre anni non è mai tornato in Norvegia. Sicuramente
laggiú doveva essere accaduto qualcosa. Anche lui era una persona che aveva
una pietra dentro di sé.
Nimit prese la tazza di caffè nella
mano, ne bevve un sorso, poi tornò a posarla sul piattino, attento a non
fare rumore.
- Una volta mi parlò degli orsi polari. Di quali creature
solitarie essi siano. Non si accoppiano che una volta all'anno. Una volta sola
in un anno! Nel loro mondo non esistono relazioni, diciamo così, matrimoniali.
Su quelle grandi distese ghiacciate due orsi, un maschio e una femmina, si incontrano
per caso e lí avviene l'accoppiamento. Non si va tanto per le lunghe. Una
volta consumato l'atto, il maschio si allontana di corsa dalla femmina come se
fosse arrabbiato, e fugge via dal luogo dell'accoppiamento. Scappa via a tutta
velocità, e non si volta mai indietro. Dopodiché trascorrerà
un anno in totale solitudine. Non esiste nessun rapporto di comunicazione, o di
scambio. Nessun contatto di spirito. Questa è la storia degli orsi polari.
Almeno secondo quanto mi raccontò il mio capo.
- Beh, è certamente
una storia singolare, - commentò Satsuki.
- Si, una storia davvero singolare,
- ripeté Nimit con un'espressione molto seria. - Quando la sentii, gli
chiesi: "Allora, per che cosa vivono gli orsi polari?" A quella domanda,
un sorriso divertito apparve sul suo volto, e infine disse: "E noi, Nimit,
noi per che cosa viviamo?"
L'aereo decollò, e dopo qualche istante
l'avviso di cinture allacciate si spense. Ed eccomi di ritorno in Giappone, disse
fra sé Satsuki. Tentò di pensare a quello che avrebbe fatto dopo
il suo arrivo, ma poi cambiò idea. Le parole diventano pietre, aveva detto
Nimit. Si lasciò sprofondare nel sedile e chiuse gli occhi. Poi rivide
il colore del cielo come le appariva quando, nuotando sul dorso, guardava in alto.
Ricordò
la melodia di "I'll Remember April", nell'esecuzione di Erroll Garner.
Proviamo a dormire, si disse. Dormire, nient'altro. E aspettare che arrivi il
sogno.