Evghenij che torna
Ingrid B. Coman
“Qui ci sono le opere dell'artista del popolo Evghenij Ivanov”, disse la
donna, mostrandogli le statue sistemate secondo un sofisticato criterio di simmetria.
Erano passati vent'anni da quando aveva ceduto i suoi lavori all'Unione. Ora li
ritrovava lì, nel Museo del Popolo, con nomi scelti da altri, come pezzi
di vita abbandonati su piedistalli rossi.“Questo è il primo, del 1918.
Si chiama Primavera . Questa forma attorcigliata è un albero e
qui s'intravedono degli uccelli”. ( Quanto tempo, Dio mio. Avevo ventidue
anni. Non ricordavo più di essere stato così giovane. E quello no,
non è un albero, compagna. Gli alberi non si attorcigliano così
su loro stessi. Solo gli uomini, a volte, lo fanno . Era rimasto solo.
Se n'erano andati tutti. Lontano, là dove faceva così freddo che
anche i ricordi congelavano. Suo padre, che voleva insegnare storia e religione
in un paese che aveva perso la sua memoria e il suo Dio. Sua madre, che leggeva
poesie reazionarie in lingua francese. Tutti mestieri inutili in un posto
in cui solo il buio poteva aiutarti a rimanere in vita). “Per dieci anni
non ci risultano opere. Probabilmente sono andate perse”. ( Non, non sono
andate perse. Semplicemente non ci sono . Ripercorse quegli anni passati
nel quartiere operaio di Leningrado. Nel giro di pochi giorni si era trovato senza
famiglia e senza casa. Anonimo inquilino della pensione per non familisti,
era rimasto confinato in quella stanza in cui il buio era di casa,
perché la luce andava solo quattro ore al giorno, il freddo gli paralizzava
le ossa e la solitudine si annidava nel suo cuore per non andarsene più.
Non aveva ancora la tessera per mangiare e faceva bollire nell'acqua avanzi di
farina bianca per ingannare la fame. In tutto quel tempo non aveva toccato l'argilla.
Era come se improvvisamente non avesse avuto più nulla da dire. Nei guanti
di lana dalle dita mozzate, le sue mani tremavano come quelle di un alcolizzato).
“Questa é un'opera del 1928. Raffigura un gruppo di operai”. (Già.
Nel 1928. Aveva ripreso a lavorare, quella sera in cui aveva capito che più
del silenzio, la fame, la solitudine, c'era solo la morte. Le sue dita si erano
riavvicinate all'argilla con timore, come alla pelle di un'amante abbandonata.
E così per settimane aveva lavorato a quel groviglio di corpi che s'intrecciavano
in uno strano abbraccio, con le schiene piegate e il mento appoggiato sul petto.
Erano cinque, ma se si guardava da una certa angolazione, dal basso verso l'alto,
si poteva distinguere una sesta figura, chiusa su se stessa e più piccola.
E no, non sono operai, compagna. Sono io. Evghenij che ha fame, Evghenij
che ha paura, Evghenij che è solo, Evghenij che piange, Evghenij che muore.
E quello in mezzo, quello che voi non potete vedere, è Evghenij che torna).
“Qui siamo nel 1932. La sua scultura diventa più astratta,
ma i temi emergenti rimangono gli stessi. Quest'opera si chiama Ode al lavoro
”. (Avrebbe riso se ne fosse stato ancora capace. La statua dalle tante
mani alzate, allungate verso il cielo come se fossero state risucchiate dall'alto,
tante mani svuotate di tutto, inutili, che si alzavano per pregare. L'aveva chiamata
Chiesa , ma non poteva scriverci quella parola che da sola valeva il
viaggio verso la Siberia. Quella sera Serghei gli aveva portato la
roba . “Ti farà andare in pappa il cervello, ma almeno non senti
più la fame” gli aveva detto, porgendogli il sacchetto di quella droga
a buon mercato che si erano passati per tutta la serata. Alla fine, quel misto
di bronzo e solvente li aveva storditi al punto che si erano smarriti nei suoi
vapori, perdendo la cognizione del tempo. Si erano svegliati la mattina dopo,
sul pavimento, paralizzati dal freddo. Avevano più fame di prima e un mal
di testa che li stordiva più della droga stessa. Si erano guardati, senza
parlare, ognuno spaventato e inorridito dalla faccia dell'altro. “Stiamo morendo
dentro, Evghenij”, gli aveva detto Serghei tristemente, toccandogli la spalla.
Poi se n'era andato, trascinandosi dietro la sua fame, la sua tristezza e la sua
sempre rinnovata voglia di morire. Sentiva una stretta al cuore ogni volta che
Serghei usciva dalla porta, perché non sapeva mai se l'avrebbe ancora rivisto.
Dopo aver fatto ribollire le bustine di tè già usate il giorno
prima, si era buttato sul pezzo d'argilla dal quale aveva strappato quel gesto
di disperata preghiera universale. Chiesa rinchiudeva le mani di suo
padre, predicatore di cose oscurantiste , di sua madre, adoratrice
di poesie nemiche , del suo amico Serghei, con la morte sempre in tasca,
sue, folle modellatore di oggetti inutili, alzate in preghiera verso un Dio che
nessuno voleva più). Questa è una statua del 1937.
Si chiama Lenin che pensa ”. ( Qui hai ragione, compagna. Questo
è davvero Lenin . Ci aveva lavorato per quattro mesi. Era come
se l'essenza di quella statua gli sfuggisse continuamente. Modellava, poi distruggeva,
per giorni incapace di trovare una forma a quell'idea che oscillava nella sua
mente come la fiamma di una candela storta. Poi finalmente ce l'aveva fatta
e l'argilla si era assestata in quella figura. Il suo Lenin non era diritto in
piedi a vegliare sulla folla, il suo pugno non era alzato in segno di vittoria
e la sua mano non mostrava la via al popolo. Lenin era piegato in ginocchio,
i pugni appoggiati a terra come se volesse reggersi per non cadere. Sgualciti,
gli abiti s'intravedevano appena sulle forme stanche del suo corpo. La barba era
lunga e la testa gli cadeva, pesante, sul petto. Le palpebre su cui si era soffermato
con abbondante argilla gli coprivano gli occhi. Era come uno strano rito di magia
nera in cui la statua fungeva da bambola di cera. Lenin che capisce ,
avrebbe voluto chiamarlo, ma neanche questo si poteva).
“Qui siamo nel 1941.
E' l'ultima opera che conosciamo di questo scultore. Si chiama Monumento all'eroe
anonimo ”. (Poteva andare, questo, per una figura distesa con gli occhi
aperti verso il cielo che riposa, serena. “Praschai, moi drug. Addio, amico”,
disse, piano, accarezzando le linee di quel viso, rilassate nell'argilla come
non lo erano mai state nella carne. L'aveva fatta in una notte. La notte più
allucinante della sua vita, in cui aveva lavorato come posseduto da uno spettro
di fuoco senza fermarsi fino a che l'ultima linea, l'ultima curva e l'ultima piega
non fossero state perfette. Per ore si era concesso a quell'orgia dei sensi acuiti
dal dolore, in cui guardava, respirava, toccava e assaggiava l'argilla per essere
sicuro di fissare tutto alla perfezione e non dimenticare nulla. Al suo viso
aveva dato la dignità e la lucidità che aveva negato a Lenin. I
suoi occhi non guardavano al futuro né conoscevano la strada, ma le palpebre
erano ben aperte, quasi invisibili, e le sue pupille riflettevano la luce anche
nell'argilla. Lui guardava là dove agli altri non era concesso, lui andava
là dove gli altri avevano paura anche di guardare. Lui sì che era
un uomo… Dio, maledizione … Com'era difficile reggere tutto quello.
La tragedia nascosta dentro le pieghe di una normalità assurda, surreale.
“Il compagno Serghei è morto”, gli aveva detto seccamente la portinaia
della pensione. Lui che balbettava, lui che non capiva, lui che non se ne andava,
quasi aspettando che la donna scoppiasse a ridere come di un macabro scherzo.
Ma la donna era fin troppo seria e sulla faccia che sembrava scolpita malamente
nella roccia non si muoveva un muscolo. “Com'è successo?” aveva trovato
la forza di chiedere. “Un incidente. Il compagno Serghei ha dimenticato il
gas aperto”. Strana ironia della sorte: un uomo si era ammazzato con il gas
fornito per una sola ora al giorno, giusto il tempo per morire… “Grazie, compagna”
le aveva detto e i pensieri gli cadevano addosso come valanghe di piombo: Brutta
strega, un'ora di gas non basta neanche per morire! Il compagno Serghei si è
ucciso per non vedere più lo schifo che aveva intorno, compresa la tua
faccia! Ma neanche questo si poteva dire, perché suicidio
era un'altra parola bandita dal vocabolario…) “Vi sentite bene, compagno?”
chiese la donna, toccandogli il braccio. “Sì, certo. Sono solo un po'
stanco. Perdonatemi”. Si sedette sulla piccola panchina vicino alla finestra.
Non aveva più la forza di ribellarsi a nulla, neanche a sé stesso,
ma là fuori c'era il sole, le ombre degli alberi appoggiavano dolcemente
sui muri bianchi e le dita gli prudevano di una fame remota. Lì dentro,
sotto gli abiti consumati, nel cuore stanco che a volte perdeva il ritmo, una
nuova statua già prendeva forma…
Ingrid
Beatrice Coman è nata in Romania nel 1971. A ventitre anni si
è trasferita in Italia, dove ha continuato i suoi studi e frequentato laboratori
di narrativa, tra cui quello dello scrittore Raul Montanari, e di sceneggiatura
cinematografica, tra cui la Holden di Torino. I suoi racconti sono stati inseriti
in antologie come Onda lunga (Archivi del ‘900 ed. 2001, a. c. di R.Montanari)
e Il Laboratorio del Segnalibro (Roma 2002). La Città del
Tulipani , il suo primo romanzo tuttora inedito, è dedicato al popolo
afgano: storia di gente comune, anonimi eroi di una guerra quotidiana da vincere
o da perdere in silenzio, lontano dalla luce dei riflettori.
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