Avrai una ragazza
Ryszard Kapuscinski
A La Paz, non
lontano da Plaza Murillo, negli scantinati di un vecchio edificio si trova la
bettola "El Canto". Vi si accede scendendo una scala di legno tarlata. L'ingresso
costa dieci pesos. Invece del biglietto ti mettono in mano un bicchiere di vino
rosso, con il quale devi addentrarti a tentoni all'interno della cantina e sempre
a tentoni cercarti un posto a sedere su una panca, perché nel locale è buio pesto.
La sera (ma l'ora non è mai certa) arriva un indiano con la chitarra, Diego Fernandez.
Si siede con le spalle alla parete e posa sul piccolo tavolo una candela accesa.
Diego suona la chitarra e canta canzoni. Le sue canzoni sono tristi, la sua faccia
è triste ed è triste anche la fiamma della sua candela. La canzone di Diego parla
di una ragazza che chiede a Rosendo, il suo uomo, di non morire, perché l'indomani
devono sposarsi. "Non farmi questo, Rosendo" supplica la ragazza. "Tutto è pronto,
gli inviti diramati, abbiamo ammazzato la nostra unica vacca, ho pulito la stanza
e riempito di birra le caraffe... Non farmi questo Rosendo, non morire Rosendo."
Diego canta la vita che va sempre a finir male e l'amore contrastato da un destino
avverso. La notte il locale è il punto d'incontro di animi inquieti: sovversivi,
cospiratori, studenti ribelli che tengono consiglio e progettano l'avventura partigiana.
Capo della cospirazione, il ventinovenne Chato Peredo. La famiglia Peredo
potrebbe fornire la materia per un romanzo. Romulo Peredo, padre di Chato, pubblicava
il quotidiano scandalistico "El Imparcial" a Cochabamba, seconda città della Bolivia
dopo La Paz. Se lo scriveva tutto da solo, accompagnando il lavoro con poderose
bevute. Sul giornale appariva la notizia: "Il parroco di Pocon violenta una bambina
di sei anni". L'indomani, impaurito e indignato, il parroco di Pocon si precipitava
a Cochabamba: "Ma come, signor Peredo? Io, una bambina di sei anni?". Peredo,
la faccia afflitta, cercava di trovare una soluzione: "Brutto affare" diceva.
"L'unica cosa che posso fare è pubblicare una rettifica: ma le costerà cento pesos."
Una cifra esorbitante. Il curato pagava e il giorno seguente "El Imparcial" annunciava:
"Ieri abbiamo pubblicato per errore la notizia che il parroco di Pocon ha violentato
una bambina di sei anni. Ce ne scusiamo con i nostri lettori. In realtà si trattava
del parroco di Colon". L'indomani arrivava il parroco di Colon, e la storia ricominciava.
Non tutti accettavano di pagare le rettifiche: molti protestavano e riempivano
di botte il direttore. Così stando le cose, Romulo Peredo nominò direttore del
quotidiano un famoso pugile boliviano, Ernesto Aldunate, che pestava chiunque
protestasse. In breve le proteste cessarono. Come padre, Romulo Peredo è
stato un personaggio tragico, un Giobbe boliviano. Aveva sei figli. Il primo,
anche lui di nome Romulo, era morto in una sparatoria tra ubriachi in un bar di
Trinidad: aveva trentadue anni. Il secondo, Esteban, di professione cow-boy, era
morto durante uno scontro tra vaccari per una mandria di buoi: aveva ventitré
anni. Il terzo, Pedro, faceva il poliziotto ed era morto colpito da una pallottola
dei banditi: aveva venticinque anni. Gli altri tre figli Romulo li aveva avuti
dalla sua ottava moglie. Di questi, Coco era morto a ventotto anni come partigiano
del reparto di Che Guevara. Suo fratello Inti, anche lui arruolato nel reparto
del Che, era sopravvissuto un anno vagabondando per la Bolivia come partigiano
isolato, unico rappresentante dell'Esercito di liberazione nazionale. Era morto
a La Paz nel settembre 1960, fucilato nel sonno dalla polizia. Il più giovane
della famiglia, Chato Peredo, decise di vendicare i fratelli. Chato aveva creato
un reparto partigiano di settantacinque uomini, quasi tutti studenti. Il 18 luglio
1970 il reparto era partito per la foresta.
"...Uscimmo da La Paz su due
autocarri. Ufficialmente la nostra brigata andava a combattere l'analfabetismo.
Ci fu una solenne cerimonia di addio davanti al palazzo del presidente, durante
la quale il ministro dell'Istruzione Mariano Gumucio fece uno splendido discorso.
Nessuno controllò l'interno dei camion, sul cui fondo stavano ammassate armi e
scatolette alimentari. Nel pomeriggio raggiungemmo la miniera d'oro South American
Placers, proprietà di un consorzio californiano. Facemmo saltare gli impianti
e rapimmo due tecnici della Rdt. Il vicecomandante Alejandro telefonò al palazzo
presidenziale a La Paz, dichiarando che li avremmo liberati se il governo avesse
rilasciato le dieci persone incarcerate per collaborazione con il reparto di Che
Guevara. Ci premeva soprattutto Loyola, la staffetta di collegamento del Che,
che veniva selvaggiamente torturata. In quell'occasione i militari estorsero trecentomila
dollari all'ambasciata, dicendo che li avevamo richiesti noi: una bugia. La mattina
presto arrivammo a Teoponte, a trecento chilometri a nord di La Paz. Ci fermammo
fuori, la città era già in mano all'esercito. Abbandonammo i camion e ci inoltrammo
nella foresta. L'esercito ci fu subito alle calcagna, gli aerei ci volteggiavano
sopra la testa. Sempre così dalla mattina alla sera e certe volte anche di notte.
Presidiavano strade e villaggi, dovemmo rifugiarci nella foresta e sulle montagne,
cambiando continuamente posto e marciando senza sosta, anche se nessuno di noi
conosceva il terreno. Metà del reparto era composta di persone che non avevano
mai lasciato la città. Nei suoi scritti il Che raccomandava di coinvolgere a tutti
i costi i contadini: ma come potevamo entrare nei villaggi, se erano occupati
dall'esercito? E poi da quelle parti non ci vive nessuno, è un mondo disabitato.
La foresta è esattamente come il deserto, a parte il fatto che è verde: niente
acqua, niente da mangiare. Lì il nemico peggiore è la natura. Certi alberi secernono
una resina più forte dell'acido muriatico: una goccia ti trapassa il cranio fino
al cervello; è pieno di vespe selvatiche, se ti pungono un occhio diventi cieco.
Serpenti dappertutto, il peggiore è il coralito: quando ti morde, il sangue ti
si trasforma in acqua e ti cola fuori dalle orbite. Di giorno non ti puoi sedere
perché ti mordono le formiche, la notte non dormi perché ti mangiano le zanzare.
Non resta altro che camminare e camminare. Da quelle parti ci sono dei campi di
concentramento dove il governo manda i prigionieri politici. Non hanno né mura
né fili spinati: dove scappi, se intorno ci sono solo paludi e foreste? Non esistono
strade, l'unico collegamento con il mondo è un aereo militare. Guardie e internati
vivono insieme, le prime non meno prigioniere dei secondi. Se per caso cambiava
il governo, quello nuovo ignorava completamente l'esistenza di campi del genere,
tenuti nascosti perché illegali: allora tutto l'accampamento moriva di fame. Certe
volte guardie e prigionieri si mettevano d'accordo per rubare un aereo e scappare
insieme da quell'inferno. Nessuno di noi sapeva esattamente dove ci trovassimo.
Passavamo da un burrone all'altro, da un'altura all'altra, ci addentravamo nel
folto della foresta dove la vegetazione sempre più fitta, spinosa e selvaggia
rendeva faticoso il cammino. Avevamo le divise a brandelli, le braccia e le gambe
insanguinate, non c'era niente da bere: però continuavamo a incalzarci a vicenda
per il timore di venire accerchiati. Solo due volte incappammo in un'imboscata,
in una delle quali perdemmo undici uomini; ma all'infuori di questo, non ci scontrammo
mai con l'esercito. I militari presidiavano strade e villaggi, costringendoci
con le incursioni aeree a spostarci da un posto all'altro e aspettando che morissimo
di fame e di sfinimento. In tutta la guerra persero un solo uomo. "All'inizio
le cose andavano abbastanza bene, eravamo pieni di forze. Ma dopo due settimane
i viveri finirono e non ci fu più niente da mangiare. Gli uomini cominciarono
a deperire. Mangiavamo germogli di bambù, radici, frutti della foresta. Nessuno
sapeva distinguere le piante commestibili da quelle velenose: a volte, dopo aver
mangiato qualcosa, l'intero reparto si ammalava e non poteva più muoversi. In
quei momenti avrebbero potuto catturarci tutti. Il giorno che ammazzammo una scimmia
fu una gran festa, perché ci toccò un pezzo di carne per uno. Poi, per tre mesi,
non riuscimmo a cacciare nient'altro. Gli uomini barcollavano, cadevano strada
facendo, la notte deliravano. Una volta non mettemmo niente in bocca per otto
giorni di seguito. Il nono giorno Quirito si sparò un colpo in testa. Il giorno
dopo morì di sfinimento Nestor Paz, il nostro commissario. Morì tra le braccia
del capo. Volevamo tutti molto bene a Nestor, era il compagno più amato del reparto.
Ci portammo dietro il suo corpo per cinque giorni finché, mentre guadavamo un
fiume, la corrente trascinò via le spoglie del commissario. "Il primo a scappare
dal reparto fu Sebastian. Accadde il secondo giorno dopo il nostro arrivo a Teoponte.
Fu catturato dai soldati e fucilato. Una settimana dopo fuggirono Freddy e Marcos.
Furono catturati dai soldati e fucilati. Il decimo giorno di marcia fuggirono
in sei: tutti fucilati. Poi fu la volta di Alfonso, seguito da Juanito. Fucilati
entrambi. Dopo un mese eravamo rimasti in quarantacinque. Ne fuggirono altri tre,
poi Carlos e Mongol. Tutti fucilati. Poi altri tre, pure fucilati. Poi fu la volta
di Kolla: lui venne prima torturato e poi ucciso. Nel giro di due mesi eravamo
rimasti in venti. Poi il vicecomandante Alejandro e altri quattro si smarrirono
nella foresta: loro però non tradirono, restarono fedeli sino alla fine. Dal nostro
gruppo ne scapparono prima quattro, poi altri due. Tutti fucilati. Poi arrivò
l'imboscata dove due dei nostri morirono. Quella stessa notte scapparono Perucho
e Forte: erano esausti anche loro e continuarono a vagabondare come noi per la
foresta, finché la sera successiva caddero nelle nostre mani. Avevano già buttato
le armi, legandosi un fazzoletto bianco attorno alla fronte: sembravano due scheletri
come noi. Noi stavamo sdraiati per terra dopo aver vagato per tutta la giornata
nella foresta: non toccavamo cibo da due settimane. Scottavamo di febbre, sentivamo
le membra pesanti come massi, quasi non ci appartenessero più. Vedevo tutto attraverso
una nebbia, la terra mi tremava sotto i piedi, la foresta si era trasformata in
una girandola di cerchi verdi. Udii in lontananza la voce del capo che diceva:
`Hermanos traidores! Fratelli traditori, avete abbandonato la causa nel momento
più difficile, coprendo di vergogna il nome del nostro reparto, un reparto dell'Esercito
di liberazione nazionale. Non ci sono scuse per quello che avete fatto. Il Tribunale
militare vi condanna alla pena di morte per mezzo della fucilazione'. "A
quel punto noi cinque dovevamo fucilare quei due: dovevamo fucilare Perucho e
Forte che non avevano nemmeno avuto la forza di trascinarsi fino al plotone di
esecuzione del battaglione Rangers ed erano finiti di nuovo nelle nostre mani.
Dovevamo fucilare i nostri fratelli traditori: era l'ordine. La foresta mi roteava
davanti come una girandola verde, sentivo il corpo pesante e vedevo tutto attraverso
una nebbia. Attraverso quella nebbia vidi Chato estrarre la pistola e, davanti
a lui, Perucho e Forte, troppo esausti per muovere un passo. Vidi noi quattro
sdraiati per terra, incapaci perfino di alzarci. L'unico che avesse ancora un
filo di forza era il capo: nelle sue vene scorrevano il sangue del fratello Coco
morto al fianco del Che, e il sangue del fratello Inti, che aveva combattuto come
partigiano isolato ed era stato ucciso nel sonno. Udii gli spari, vidi la foresta
roteare sempre più forte... "Insieme a Forte e Perucho lasciammo sul posto
anche Cristian, morto di sfinimento. Aveva delirato quasi tutta la notte, poi
era stato preso dai brividi, infine si era addormentato per non svegliarsi più.
La mattina dopo, per terra giacevano uno accanto all'altro Perucho, Forte e Cristian:
i due traditori e un compagno che invece era rimasto con noi sino alla fine. Adesso
erano tutti uguali, non c'erano differenze. Li lasciammo lì e riprendemmo la marcia
quotidiana. Camminammo in salita per tutta la giornata. Eravamo in quattro: Chato,
Mamerto, David e io. Dovevamo fermarci continuamente perché Mamerto non aveva
più forze. Ci pregò a più riprese di abbandonarlo e lasciarlo morire da solo,
ma noi gli ripetevamo che bisognava andare avanti per non finire accerchiati.
All'imbrunire giungemmo in cima alla collina più alta. Dalla vetta si scorgeva
una magnifica valle attraversata da un fiume. C'era anche un villaggio. Chato,
Mamerto, David e io lo vedevamo benissimo, eppure continuavamo a darci di gomito
l'un l'altro dicendo: `Guarda, un villaggio!', quasi volessimo accertarci che
non si trattava di un sogno. Per dieci settimane avevamo vagato per la foresta,
che è il peggior nemico dell'uomo; tempo due settimane i viveri erano finiti;
i soldati avevano occupato le strade e i villaggi in attesa che morissimo di fame
e di stenti; tutti quelli che erano scappati dal reparto erano stati catturati
e fucilati; Perucho e Forte li aveva giustiziati Chato. Alejandro e altri quattro
si erano smarriti nella foresta, ma non ci avevano traditi. Eravamo rimasti in
quattro: marciavamo da dieci settimane, spostandoci continuamente per non venire
accerchiati; nessuno ricordava più quando avesse mangiato per l'ultima volta.
Adesso stavamo in cima alla collina, e quella era la fine del viaggio: se non
altro ce l'avevamo fatta a salire fin lì e a vedere il villaggio. Mamerto agonizzava.
Gli mettemmo uno zaino sotto la testa in modo che potesse tenerla sollevata e
vedere i focolari che via via si accendevano. L'indomani saremmo scesi a valle.
'Mamerto,' disse il capo, 'domani saremo al villaggio.' Naturalmente mentiva:
nel villaggio c'erano i soldati, andarci significava tradimento e fucilazione.
Mamerto però aveva bisogno di quelle parole. 'Ci prepareranno carne e granturco'
disse il capo. 'Imbandiranno la tavola più grande che hanno e la copriranno di
roba da mangiare. Avrai tutti i polli che vuoi e una brocca di birra. Avrai anche
una ragazza.' Sapevamo tutti che stava mentendo; Mamerto lo ascoltava estatico.
'Potrai fare quel che ti pare, vedrai, farai una vita fantastica! Dirai a te stesso:
- Che vita, ragazzi!' Mamerto fissava la valle in fondo alla quale giaceva il
villaggio. Il capo gli teneva la mano continuando a parlargli. A un certo punto
smise di parlare: Mamerto non stava più a sentirlo, se n'era andato. "Due
giorni dopo fummo trovati da alcuni cercatori d'oro: il fiume nella valle si chiamava
Tipuani e nel suo letto si trovava l'oro. Il villaggio si chiamava Chima.
"Tutto quello per cui abbiamo combattuto sta scritto nel nostro ordine numero
1. Il nostro scopo era la vittoria della rivoluzione, la creazione di un governo
popolare e la nazionalizzazione di tutte le ricchezze che avrebbero dovuto appartenere
al popolo. "Da settantacinque che eravamo, siamo rimasti in otto: cinquantacinque
li hanno fucilati i soldati, dodici sono periti nel viaggio. Mi chiamo Guillermo
Veliz."
(Fine della registrazione.)
(Tratto
da La prima guerra del football e altre guerre di poveri, Feltrinelli,
Milano, 1978, traduzione di Vera Verdiani.)
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