Al tappeto da
Robert Frost
(
- brano del romanzo Quell'anno a scuola - )
Tobias
Wolff
(...) Quella sera
Frost lesse per noi in cappella. Fu l'unica volta negli anni che passai nella
scuola; chi veniva in visita parlava sempre in auditorium. Forse era un segno
dei riguardi speciali che gli usava il preside, o forse lo stesso Frost aveva
chiesto di leggere lí. Di sicuro era l'edificio piú bello della scuola, famoso,
come ci era stato detto spesso, per le sue vetrate istoriate, che qualche ex alunno
senza scrupoli aveva saccheggiato in Francia. Perfino nella flebile luce della
sera quei vetri rossi brillavano come rubini. Quando prendemmo posto, i banchi
scricchiolarono. Ci sedemmo ordinatamente, cupamente, guardando fisso davanti
a noi oppure osservando con aria ebete le arcate del soffitto che svanivano nel
buio. I lampadari di ferro diffondevano una luce appena sufficiente a proiettare
lunghe ombre medievali e a brunire il bronzo delle targhe commemorative, gli oggetti
di legno riccamente lavorato, la semplice croce dorata sull'altare. Frost sedette
davanti alla croce con il preside. Teneva le mani sui braccioli intagliati della
sedia e la testa china come se meditasse o pregasse, ma io ero seduto avanti e
colsi il bagliore del suo sguardo sotto le folte sopracciglia bianche. Stava guardando
noi che guardavamo lui. Quando finalmente il preside si alzò per fare la sua presentazione,
Frost trasalí e si guardò intorno come se fosse stato mondi e mondi lontano da
lì, e ritrovarsi in quel posto rappresentasse un vero enigma. Il preside salì
sul pulpito. Era un uomo allampanato, con il viso lungo e un grande porro sul
sopracciglio destro. Sembrava una vescica, e quando lo incontravi per la prima
volta non riuscivi a vedere nient'altro. In un attimo però lui ti distraeva, ti
catturava gli occhi con il suo sguardo acuto, attento, e con la evidente bellezza
della sua voce. Aveva un timbro di basso profondo e aspro che, con sua grande
soddisfazione, sapeva usare efficacemente. Quando ci divertivamo alle sue spalle,
dimenticavamo il porro e imitavamo la sua pronuncia lenta e tonante. Purcell,
non sei poi completamente ottuso, e forse puoi spiegarmi cosa significa solidità
di peyote o idrogeno asessuato... cerco di capire queste parole e non mi ci raccapezzo,
Purcell, non mi ci raccapezzo. Mi aspettavo che il preside usasse quel
momento per criticare i criminali del clan Ginsberg-Ferlinghetti, che aveva tra
di noi qualche militante, anche se non tanti quanti temeva lui. Aveva letto le
loro opere e fingeva di non vedere alcuna differenza tra Urlo e Coney
Island della mente. La vedeva di sicuro. Di Ferlinghetti non gli importava
granché, ma Ginsberg lo odiava. Sebbene lo screditasse con termini estetici quali
sdolcinato e incoerente, quello che detestava davvero era che secondo lui l'America
facesse strage di anime. Il preside era un democratico e un migliorista. Aveva
costantemente aumentato il numero dei borsisti, e si diceva che tormentasse i
membri del consiglio di amministrazione per togliere il bando contro gli studenti
di colore. Forse avvertiva in Ginsberg l'araldo delle furie, che il migliorismo
aveva fatto arrabbiare ulteriormente; furie che nulla avrebbe soddisfatto se non
la morte dell'imperfetta repubblica e di quelle promesse che al preside stavano
tanto a cuore e cercava di mantenere. Nascondeva la sua avversione per Ginsberg
mettendolo in ridicolo, citandolo con un disprezzo cosí affettato e implacabile
- Moloch in cui mi siedo solo! Moloch in cui sogno Angeli! - che mi ci
vollero parecchi anni per capire che Urlo era un bellissimo poemetto.
Qualunque fossero le sue ragioni, il preside temeva che Ginsberg ci influenzasse
a un livello che sembrava quasi una forma di rispetto. Frost sarebbe stato un
randello perfetto. Colsi lo sguardo di Bill White: sapevamo entrambi che cosa
stava per succedere. E invece no. Il preside raccontò la storia di come,
quando era un ragazzo di campagna completamente digiuno di poesia, avesse preso
in mano la copia che aveva il suo insegnante di North of Boston e letto
la poesia Dopo la raccolta delle mele. L'umore con cui si era avvicinato,
disse, era scontroso. Se ne intendeva, lui, di raccogliere mele, ed era sicuro
che quella poesia avrebbe reso quell'atto fantasioso e romantico, fraintendendolo
in pieno. Ma la prima cosa che lo colpì fu quanto fosse fisicamente vera la poesia,
fino a quel dolore che viene all'arco del piede dopo essere stati tutto il giorno
su una scala; e non solo il dolore, ma la persistente pressione del piolo. Poi,
una volta che ebbe approvato i dettagli, fu attratto dalle riflessioni piú misteriose
della poesia. Cosa significava quella lastra di ghiaccio? Quale parte della poesia
era sogno, e quale ricordo? Quando aveva preso in prestito il libro non si era
reso conto di dove l'avrebbe portato quel gesto. Statene certi, disse: la vera
scrittura è pericolosa. Può cambiarvi la vita. Fu tutto. Ridiscese gli scalini.
Senza aver elencato le onoreficenze e i premi ricevuti da Frost, senza aver tirato
fuori qualche brillante, raffinato aneddoto degli anni ad Amherst. Mai prima d'allora
avevo sentito il preside parlare di se stesso come di qualcuno con un passato
specifico, e non lo fece mai piú; con noi era tutto libri e idee e quello che
gli piaceva chiamare, citando Jane Austen, il complimento dell'opposizione razionale.
Era sposato, ma veniva difficile immaginarlo tra le braccia di sua moglie, perché
sembrava consacrato a un rapporto col mondo che non concedeva nulla alla carne,
e per me la continua soddisfazione della carne era il fulcro del matrimonio. Il
preside era un mistero per noi e, come i grandi generali o le attrici, difendeva
quel mistero e il potere che rappresentava. Aiutò Frost a salire la scala
a chiocciola poi, invece di tornare al proprio posto, si sedette nei banchi con
noi. E Frost restò solo nella parte anteriore della chiesa, sull'alto pulpito.
Sistemò i suoi libri e dei fogli sciolti in un certo ordine, poi li risistemò,
con la carta che frusciava rumorosamente sotto il microfono. A quel punto si fermò
per controllarlo, come se fosse un aggeggio nuovo per lui. Gli diede sospettosamente
dei colpetti, producendo un rimbombo che lo fece indietreggiare. Raccolse un libro,
lo sfogliò, lo riappoggiò e ci osservò. Mi sentite? Mi sentite, là in fondo?
Bene allora. Bene. Va bene. Immagino di dovervi leggere una poesia. Ma stavo giusto
pensando a una cosa che ha detto Shelley... lo conoscete Shelley, quello che ha
scritto Ozymandias. Ce l'avete sui libri. Amico di Byron. Amico di Keats.
Sua moglie ha scritto Frankenstein. Comunque, Shelley diceva che noi
poeti siamo i misconosciuti legislatori dell'umanità. Parlavano così a quei tempi,
erano un po' pomposi. I misconosciuti legislatori dell'umanità. Mi chiedo se è
vero. Mi chiedo cosa significa. Significa che siamo pericolosi, come dice il vostro
preside? Che ne pensa il vostro caro Kellogg? E qui il signor Kellogg, stasera?
Frost attese, e ci fissò finché George non si alzò, un paio di posti alla
mia destra. Aveva un'aria furtiva e abbattuta. Sembrava un peccatore in un dipinto
del Giudizio Universale, sul punto di ricevere ciò che gli spetta. E Frost,
Frost sembrava Dio, lassú sul pulpito. La luce fredda dei lampadari sotto cui
si trovava gli inargentava i capelli e creava delle ombre sul suo viso segnato
dal tempo. Non sembrava vecchio; sembrava eterno. Guardò George con attenzione.
Allora, disse. Signor Kellogg. Quello che ha scritto, praticamente è un pezzo
di legislazione. Scommetto che ci ha anche provato gusto a mettergli il fuoco
al sedere, al vecchio. Bravo, bravo. I vecchi devono avere il sedere sul fuoco,
cosí stanno svegli. Bene, ragazzi, se mi hanno portato fin qua è perché devo cantare
per guadagnarmi la cena, quindi è meglio che canti un po'. Eccovi una poesia.
Senza neve, signor Kellogg, ma forse piú tardi possiamo trovargliene un po'. L'ho
scritta molti anni fa in Inghilterra, quando mi mancava casa mia. Immagino che
sappiate cos'è la nostalgia di casa. Si chiama La riparazione del muro.
Abbassò gli occhi per leggere e George si riafflosciò tra i banchi.
Qualcosa c'è che non sopporta un muro, che sotto vi incunea le zolle rigonfie
di gelo, e al sole fa cadere le pietre piú alte... |
Lesse il primo verso con cautela e lentezza, come se gli fosse appena venuto in
mente, poi la sua voce roca si gonfiò come una vela e divenne gioiosa, naturale,
e giovane. Sorrisi quando il suo agricoltore disse Che seccatura per me la
primavera, perché avevo già capito che il male lavorava dentro di lui: nella
calda giornata in cui era venuto al mondo, mentre portava pietre al muro e guardava
il suo vicino fare la stessa cosa, colpito dall'inutilità della loro fatica e
incapace di resistere alla tentazione di stuzzicare il suo vicino al proposito.
Quando avevo letto la poesia, avevo creduto di capire: tutti i muri devono
cadere. Ma nella voce di Frost quella scena prendeva nuova vita, e colsi qualcosa
che mi ero perso; e cioè che, nonostante l'ironica superiorità del narratore,
anche il vicino aveva la sua verità. L'immagine di quell'uomo che si muoveva nell'ombra
come un bruto dell'età della pietra armato era già un buon motivo per
avere un muro, la prova vivente della convinzione che buone recinzioni fanno buoni
vicini. Forse c'è qualcosa che non sopporta un muro, ma abbattilo a tuo rischio
e pericolo. Frost nascondeva bene gli occhi sotto quelle sopracciglia sporgenti,
ma di quando in quando lo vedevo spostare lo sguardo dalle pagine a noi senza
perdersi una parola. Non leggeva: recitava. Conosceva quelle poesie a memoria,
eppure continuava a ostentare di leggerle, fino al punto di fingere di perdere
il segno o di avere problemi con la luce. Tanta goffaggine non toglieva nulla
alle sue poesie. Le staccava dalle pagine e le restituiva alla voce, una voce
pensosa, a volte capace, a volte incerta. Stampate sotto quel nome importante,
le sue poesie assumevano l'aspetto dell'ineluttabilità; dette a voce, si coglievano
le esitazioni e le perplessità che vi stavano dietro, il suono di un uomo che
le portava alla vita. Frost continuò a leggere, poesia dopo poesia, finché
alcune matricole non cominciarono a tossire e a far scricchiolare i banchi. A
quel punto, sollevò la testa e ci osservò. A star seduti, disse, voi ragazzi siete
dei campioni. Avete Sitzfleisch1, come direbbero i nostri
nuovi amiconi, i tedeschi. Basta e avanza per una sera sola, eh? Forse ancora
una, che ne dite? Per il vostro Kellogg. Sí? Allora d'accordo. Ho la poesia proprio
sotto mano. Credo che il signor Kellogg la conosca. Senza smettere di guardarci,
Frost recitò Fermandosi nel bosco in una sera di neve. Poi, mentre noi
applaudivamo, radunò i suoi libri e fogli sciolti. Il preside salì la scala, parlò
con Frost, ridiscese e alzò la mano per fare silenzio. Il professor Frost, disse,
ha accettato di rispondere a qualche domanda, se ne abbiamo. Io ne avevo.
Come aveva saputo di essere un bravo scrittore nel corso di tutti quegli anni
in cui nessun altro lo sapeva? Che cosa si provava a scrivere qualcosa di veramente
grande? Perché aveva scelto la poesia di George? Signore, se posso...
Mi guardai intorno. Era il professor Ramsey. Si era alzato in piedi dietro al
suo banco. Perfino in quell'oscurità le sue guance paffute mostravano la loro
giovane freschezza inglese. La signora Ramsey si stava togliendo qualcosa da una
manica. L'aveva sposata quattro anni prima, appena uscito dal college femminile
del Sud in cui aveva insegnato una volta lasciata Oxford. All'epoca lei era solo
una matricola, e il professor Ramsey aveva perso il lavoro e se l'era portata
al Nord, prima a Putney poi da noi. La signora Ramsey lavorava in biblioteca e
non le mancavano mai dei ragazzi che avevano bisogno del suo aiuto. Aveva lunghi
capelli color miele e si faceva le trecce, come una ragazzina; aveva un buon odore,
e la sua voce era bassa e aveva un piacevole accento meridionale. Aveva dei modi
maliziosi, e ci guardava come se sapesse a cosa pensavamo. Quando erano arrivati,
due anni prima, era ancora innamorata del professor Ramsey. Lo vedevamo tutti.
Pendeva dalle sue labbra, citava ciò che lui aveva detto. Poi però le cose erano
cambiate. Da ottobre ero stato assegnato al loro tavolo per cena, e avevo visto
lo sguardo annoiato che aveva quando il professor Ramsey parlava di qualcosa.
A volte si girava anche se lui non aveva ancora finito e si metteva a chiacchierare
col ragazzo seduto accanto a lei. Era facile parlare con lei. La sua opera,
signore, proseguì il professor Ramsey, segue una certa tradizione. Non la tradizione
di Whitman, il piú americano dei poeti, ma una tradizione piú vincolata, potremmo
dire formale, come nell'ultima poesia che ha letto, Fermarsi nel bosco.
Mi domando... Fermandosi nel bosco in una sera di neve, disse Frost.
Appoggiò entrambe le mani sulla balaustra del pulpito e fissò gli occhi sul professor
Ramsey. Sí, signore. Ora, non è che quella poesia sia insolita nella sua
opera solo perché le sue stanze sono composte di versi giambici legati dalla rima.
Bravo, disse Frost. Ve ne insegnano di cose qui, ragazzi. Ci fu un gran
scoppio di risa, piú caustiche che allegre. Il professor Ramsey aspettò che si
spegnesse, mentre Frost faceva scorrere il suo sguardo sornione lungo la cappella.
Il signore del disordine2. Non gli spiaceva che il suo errore
avesse causato tutto quel caos, era evidente, e c'era da chiedersi se si fosse
realmente trattato di un errore. Aveva una domanda? disse infine. Sì, signore.
La domanda è se un'organizzazione così rigidamente formale del linguaggio sia
adatta a esprimere la coscienza moderna. Ovvero, la forma dovrebbe lasciare il
posto a modi d'espressione piú spontanei, anche a costo di un certo disordine?
La coscienza moderna, disse Frost. Cos'è? Ah! Bella domanda, signore.
Be'... in termini molto approssimativi, la descriverei come la risposta della
mente all'industrializzazione, alla propaganda a tappeto di governi e pubblicità,
a due guerre mondiali, ai campi di concentramento, all'oscuramento della fede
da parte della scienza, e naturalmente alla costante minaccia dell'annientamento
nucleare. Di sicuro queste cose hanno cambiato il nostro pensiero. Di sicuro
niente. Frost fissò il professor Ramsey. Se quello fosse stato il Giudizio
Universale, il professor Ramsey e la sua coscienza moderna ne avrebbero costituito
un momento saliente. Non sarebbe potuto sembrare piú solo, là in piedi. Non mi
parli di scienza, disse Frost. Io stesso sono una specie di scienziato. Scommetto
che non lo sapeva. Botanica. Voi ragazzi sapete cos'è il tropismo, è ciò che fa
crescere una pianta verso la luce. Ogni cosa aspira alla luce. Non vi serve schiacciare
una mosca per liberarvene: basta fare buio nella stanza, lasciare aperto uno spiraglio
della finestra, e lei esce. Funziona sempre. Ce l'abbiamo tutti questo istinto,
questa aspirazione. La scienza non può... che parola ha usato? oscuramento? La
scienza non può oscurarlo. La scienza non può far altro che spegnere
le luci false perché quella vera ci porti a casa. Il professor Ramsey fece
per dire qualcosa, ma Frost proseguì. Quindi non mi parli di scienza, e non
mi parli di guerra. Ho perso il mio migliore amico nella cosiddetta Grande Guerra.
Anche Achille perse il suo amico in guerra, e Omero non ha fatto torto al suo
dolore parlandone in esametri dattilici. Ci sono sempre state guerre, e sono sempre
state schifose quanto siamo riusciti a renderle. È fantastico, è piacevole pensare
a noi stessi come ai piú maltrattati della storia. Ma è quello che hanno pensato
tutti, fin dall'inizio. È un ottimo pretesto per ogni forma di pigrizia. Ma torniamo
al mio amico. Ho scritto una poesia per lui. Scrivo ancora poesie per lui. Renderebbe
omaggio al suo amico, se buttasse giú quattro parole alla bell'e meglio, come
le vengono, senza pensare al suono che hanno, al significato del loro suono, al
suono del loro significato? Darebbe un'idea reale della perdita? Mentre parlava,
Frost aveva fissato il professor Ramsey. In quel momento smise e lasciò vagare
lo sguardo per la stanza. Sto pensando al dolore di Achille, disse. Quel
famoso, atroce dolore. Lasciate che vi dica una cosa, ragazzi. Un simile dolore
può soltanto essere espresso dalla forma. Forse esiste davvero unicamente nella
forma. La forma è tutto. Senza la forma, non avremmo che un grido mozzo. Sincero,
forse, per quel che vale, ma senza profondità e senza portata. Senza eco. Si ottiene
una lamentela ma non un lamento, e le lamentele vanno bene per le petizioni, non
per la poesia. Ho risposto alla sua domanda? Non ne sono sicuro, ma grazie
per averci provato. A vedere il professor Ramsey che si risedeva comodo comodo
con un sorriso, non si sarebbe detto che fosse appena stato messo al tappeto da
Robert Frost davanti all'intera scuola. Era stato il mio insegnante di inglese
al quinto anno, e anche se non mi era piaciuto lo trovavo interessante, proprio
come avevo trovato interessante la domanda che aveva rivolto a Frost. Ma molti
suoi studenti lo ritenevano artefatto per il suo linguaggio ampolloso e la sua
passione per contorti scrittori europei. Sicuramente si erano goduti quel piccolo
show. (...)
Note
1 - Costanza (N. d. T.)
2 - Lord of Misrule era un titolo che
anticamente si dava al cerimoniere delle feste natalizie. L'espressione si trova
anche in un racconto di Nathaniel Hawthorne, L'albero del maggio a Mont Wollastam
(N.d.T.)
(Brano
tratto dal romanzo Quell'anno a scuola, Einaudi, Torino, 2005. Traduzione
di Alessandra Montrucchio.)
Tobias Wolff
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