Da
Sarajevo a Hiroshima Bozidar
Stanisic'
Descrivere
un viaggio sotto forma di lettera (ad un amico, un parente, ecc.), anche se si
tratta, come nel mio caso, di qualcuno che non si fa intimorire dalla scrittura,
sicuramente non è un compito facile. Andare in Giappone? (E, per fortuna,
anche ritornare!) In realtà, il viaggio, per me, è iniziato a Milano, dove
avevo fatto due "visite" al Consolato giapponese per ottenere il visto. Oltre
al caldo del mese di luglio, ho dovuto letteralmente lottare con la rigida burocrazia
del Sol Levante. (Evidentemente la Bosnia, , per "ragioni" di sicurezza del mondo
più ricco e forte, è nella lista "nera" dei paesi i cui cittadini, tutti, sono
da sottoporre a controllo). Per la verità sono passato solo in parte sotto le
vere e proprie torture mentali alle quali, già da anni, sono sottoposti i miei
connazionali quando, a Sarajevo, devono bussare alle porte degli uffici delle
rappresentanze diplomatiche, volendo semplicemente far visita ai loro cari, amici
ecc. dispersi per il mondo. Il "centro "Balducci" di Zugliano, dove sono
già stato ospitato nel 1992/93, da anni è in contatto con i testimoni della bomba
A. I loro rappresentanti sono stati più volte presenti ai convegni annuali del
mese di settembre. Poiché partecipo attivamente alle loro iniziative, li avevo
già conosciuti. E così, nell'elenco degli invitati per il 60° anniversario dalla
bomba A, c'era anche il mio nome. Insieme ad altre cinque persone, fra cui don
Pierluigi di Piazza, responsabile di questo centro per gli immigrati, i profughi
e i rifugiati politici, e Makiko Yamada, l'amica da sempre "ponte" fra noi e i
testimoni di Hiroshima e di Nagasaki. Siamo stati in Giappone dal 1 al 17 agosto,
a visitare, oltre che le città della memoria della bomba A, anche Kyoto, Nara
e Tokyo. Un volo intercontinentale non faceva assolutamente parte dei miei piccoli
progetti, eppure mi è capitato con i suoi lati più o meno gradevoli. Quest'ultima
considerazione fa parte della mia convinzione (ma anche di molte persone che conosco)
che siamo figli dell'epoca degli spostamenti; quindi non dei viaggi veri e propri!
L'incontro con i vecchi amici ci ha commosso. Suzuko Numata era ormai ottantaduenne
(quel 6 agosto aveva ventidue anni e due settimane dopo avrebbe dovuto sposarsi
con il fidanzato della cui sopravvivenza nella giungla del sud-est asiatico non
aveva certezza). L'abbiamo incontrata vicino al suo albero di aoghiri
- oggi nel Parco della pace a Hiroshima, lo stesso che allora si trovò nell'epicentro
dell'esplosione. Nonostante fosse stato carbonizzato, alcuni anni dopo incominciò
a dare segni di vita, gli stessi che incoraggiarono Suzuko. Suzuko, "Cuore di
Hiroshima" (è il titolo del libro che abbiamo tradotto a Zugliano), benché provata
dalle difficoltà di salute, appena dimessa da un ricovero ospedaliero, sempre
in carrozzella (ha perso una gamba sessant'anni fa, ma si è miracolosamente salvata),
ci ha abbracciati con un'incredibile tenerezza. Ci sono davvero persone alle quali
non serve conoscere altre lingue, che si esprimono con gli sguardi, i gesti, l'espressione
del volto! Subito si è ricordata subito di Marco, mio figlio che 10 anni
fa, in occasione della sua prima visita in Italia, era piccolo. Abbiamo avuto
come nostro ospite il sig. Tadafumi Yamada dell'Hiroshima Asian Friendship Academy,
una associazione per la pace piccola ma molto attiva, evidentemente molto conosciuta
nei circoli di queste attività. Lui è una persona gentile che ci ha assistiti
fino alla fine della nostra visita a Nagasaki. In queste due città abbiamo
passato delle giornate fitte di incontri, dibattiti, conferenze. Pierluigi, oltre
a rappresentare che cosa significasse per noi avere dei testimoni della bomba
A a Zugliano, ha tenuto dei discorsi sulla pace in cui nominava i suoi grandi
maestri: padre Balducci e don Milani. Quest'ultimo pure per il senso dato alla
responsabilità negli atti come quello della bomba A: dietro la responsabilità
del pilota dell'Enola gay, c'erano molte altre persone che avevano dato
il loro consenso per l'impiego della bomba A. Io ho parlato su alcuni aspetti
della guerra in Bosnia, particolarmente sull'uso dell'uranio impoverito negli
interventi della NATO. Sia Hiroshima che Nagasaki hanno Musei della memoria
molto ricchi di testimonianze e sono stati pensati con una misura e una modestia
esemplari. Il monumento alle vittime di Hiroshima è più semplice: assomiglia ad
una U rovesciata, sotto cui c'è una bara ricavata dalla roccia con incisi i nomi
di tutti i morti di quel 6 agosto. A Nagasaki è un po' diverso: nel Parco c'è
un'enorme scultura (assomiglia ad uno Schwarzeneger seduto), che con una mano
indica la terra e con l'altra il cielo. Solo il Museo di Nagasaki mostra l'intera
cronologia della guerra. Il Giappone era uno degli aggressori. Le cerimonie
del 6 e del 9 agosto in entrambe le città sono state un po' troppo cerimonie.
Oltre agli interventi dei due sindaci, molto concreti e chiari nella richiesta
dell'abolizione di tutte le armi nucleari, seguiti dal ricordo degli hibakusha
(sopravvissuti), ci sono stati i discorsi del primo ministro giapponese e
di altri, tutti molto incolori e ufficiali. In buona sostanza, sarà stata soltanto
la preoccupazione di un momento giacché alle celebrazioni mancavano i rappresentanti
degli stati detentori delle armi nucleari? E i rappresentanti delle grandi religioni
monoteiste? Siamo davvero lontani da un grande e decisivo NO a quelle armi, pure
come segno della prepotenza umana? Delle molte cose che in genere evito per
non essere noioso, citerò solo quelle che mi hanno colpito per la loro drammatica
essenza. Il Monumento ai bambini, vittime a Hiroshima, contiene una campana sotto
cui c'è una gru alla quale è attaccata una corda. Molti visitatori tirano quella
corda. Ho pensato che almeno una volta al giorno, in tutto il mondo, si dovrebbe
sentire sia il silenzio di Hiroshima (alle 8.15) e di Nagasaki (alle 11.05) che
il suono di quella campana. La gru è più di un simbolo della vita di una ragazzina,
Sadako, che aveva 2 anni al momento dell'esplosione. Alcuni anni dopo si ammalò
di leucemia. Con le ricette e i foglietti con le istruzioni per l'uso dei medicinali
faceva delle gru di carta pensando di poterne fare 1000. Ma non andò bene con
la sua salute e prese a confezionarne altre 1000. Morì a dodici anni. Una foto
la ritrae nella bara, circondata da fiori. Sembra una ragazza addormentata. Da
molti anni in Giappone gli scolari fanno delle gru di carta e le portano a Hiroshima
e a Nagasaki. Entrambi i Musei, ciascuno in modo diverso, sono circondati
dall'acqua. Dicono, lì: I sopravvissuti, in quel momento invocavano la madre
e cercavano l'acqua... Tutti gli oggetti, semplici, di una quotidianità a
cui spesso non diamo sufficiente valore, esposti nei Musei, pare che contengano
la pura presenza dell'ombra umana; non sono soltanto un monito, ma un messaggio
che richiede una profonda riflessione sul costruire e sul distruggere. Di una
persona, trovatasi nell'epicentro, è rimasta soltanto l'ombra; un'ombra su una
scala. La sera del 6 agosto, a Hiroshima, sotto i ponti di uno dei sette fiumi
di questa città, la gente mette nell'acqua delle lanterne di carta. Si crede che
sia più di un ricordo dei morti: è un aiuto per le loro anime. Mi ha colpito
il fatto che nessuno degli hibakusha (ne abbiamo sentiti molti!) nutra
odio verso coloro che hanno colpito le loro città con l'arma più prepotente, ma
che abbiano come un sensi di rassegnazione per non aver conosciuto il mondo senza
le armi atomiche. A questo punto vorrei fare una considerazione critica, sia riguardo
il resto del Giappone, che il resto del mondo: ci è parso che la memoria di quei
terribili eventi non sia diventata un vero messaggio di pace. Ora vorrei
dire qualcosa di meno drammatico, cioè riferire sugli aspetti "interessanti" del
Giappone. Ma non mi azzardo a dire molto; non sono un esperto. E poi, bisognerebbe
vivere dentro un paese, essere presenti nella sua quotidianità, per capirlo meglio,
vedere come è la sua gente. (Questo me l'ha insegnato anche il lungo periodo da
"turista" in Italia!) Abbiamo visto molti templi (per me ripetitivi) e i giardini
di sua eccellenza l'imperatore, ma io non ho capito come davvero viveva la gente
mentre l'imperatore contemplava nelle sue passeggiate, sotto baldacchino, i laghi
con i fior di loto e le carpe dorate. Sì, abbiamo visto un paese organizzatissimo
(i treni sono davvero da invidiare!), la gente è laboriosa, abbiamo assaggiato
la loro la cucina delicatissima, ma io non so che ne pensano i giapponesi di quella
loro vita, come si sentono, ad esempio, di fronte ai macchinari automatici parlanti
oppure quando, in primavera, vanno sotto i ciliegi in fiore per celebrare la loro
festa. Poi, troppi contenuti lungo il percorso in pochi giorni saturano occhi
e animo. Abbiamo vissuto pure un terremoto. Poco allegro! Ma loro non si emozionano...
(Oppure è solo apparenza?) I loro buddismo e shintoismo non sono religioni complicate,
mi sembra. I templi attirano un turismo spaventosamente di massa. Perciò è difficile
capire dove è il senso religioso e dove è la pura curiosità. A questo punto parla
il fatto che a Tokyo chiedere dei barboni o di altri emarginati non fa parte dei
discorsi graditi. Abbiamo assistito in un grande parco ad un concerto organizzato
da una chiesa evangelica, che dopo ha distribuito aiuti. Il prete era un coreano.
(Pierluigi mi ha detto che la circostanza lo faceva assomigliare al buon Samaritano!
Quindi straniero in terra altrui, per dare un segno...) Il caldo che abbiamo
trovato era tropicale. È sempre così in questo periodo. Anche se avessimo rinunciato
a Tokyo, non saremmo tornati meno "ricchi". Siamo stati davvero fortunati
ad avere la Makiko con noi che, con la sua ricchezza culturale e la conoscenza
del suo paese, ci ha avvicinato a una terra davvero lontana. (Lei è rimasta in
Giappone, dai genitori, in Hokaido, al nord. Ed è chiara quando parla ai suoi
cari del ritorno in Italia: "Allora, torno a casa!") Che dire, alla fine?
È stata forse solo una semplice esperienza?
Bozidar Stanisic' è nato a Visoko (Bosnia) nel 1956. Già professore di lettere
a Maglaj, località a nord di Sarajevo, dal 1992 vive con la sua famiglia a Zugliano,
in Friuli. Oltre ad offrire il suo attivo contributo letterario, pubblicistico
ed educativo a diverse iniziative di pace e non violenza per i diritti civili
dei rifugiati e degli stranieri, Stanisic ha sempre collaborato alle inizative
culturali dell'Associazione - Centro di accoglienza "E. Balducci", con cui ha
pubblicato le raccolte poetiche Primavera a Rugliano (1994), Non-poesie
(1995) e Metamorfosi di finestre (1998). Diverse di queste liriche sono
state incluse nel Quaderno Balcanico I della collana Cittadini della
poesia, diretta da Mia Lecomte (Loggia de' Lanzi ed. 1998) e in Conflitti
- Poesie delle molte guerre, a cura di Idolina Landolfi, (Avagliano ed. 2001).
In prosa, oltre a numerosi contributi letterari e saggistici in riviste e quotidiani,
ha pubblicato le raccolte di racconti I buchi neri di Sarajevo (Trieste
1993), uno dei quali è stato inserito nel Dizionario di un paese che scompare,
a cura di Nicole Janigro (Roma 1994), Tre racconti (Associazione - Centro
di accoglienza "E. Balducci ed. 2002) e Bon voyage ( nuova dimensione
ed.2003); ed è presente con un racconto in Provincia pagana, Storie dell'estremo
Nord-Est - un'antologia di fine millennio, a cura di Gianni Spizzo (Trieste
1999). Alcuni dei suoi lavori sono tradotti in sloveno, francese e albanese.
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