Essere già stati
Claudio Magris
A Luca Doninelli  
E così Jerry è morto, pazienza, non è questo il guaio, né per lui né per nessuno,
neanche per me che l'ho amato e dunque l'amo, perché l'amore non si coniuga -
diomio, in quel senso sì, certo, ci mancherebbe altro, però l'amore ha la sua
grammatica e non conosce tempi ma solo modi verbali, anzi uno solo, l'infinito
presente, quando si ama è per sempre e via tutto il resto. Qualsiasi amore, di
qualsiasi tipo. Non è vero che ti passa, niente ti passa, e proprio questo è spesso
una bella disgrazia, ma te la porti dietro con te, come la vita, che anche quella
non è che sia proprio una fortuna, solo che l'amore passa ancora meno che la vita,
è là, come la luce delle stelle, chi se ne frega se sono vive o morte, splendono
punto e basta e anche di giorno non le vedi ma sai che ci sono. Così non sentiremo
più quella chitarra e pazienza anche per questo, si può fare a meno di tutto.
Dio, come la suonava. E quando la mano non gli ha funzionato più, ha tirato giù
la saracinesca e addio baracca e burattini. Su questo, nulla da obiettare. Prima
o dopo succede e non importa più che tanto come, comunque deve succedere e chissà
quanti di noi qui intorno stasera, signore e signori, saranno vivi fra un mese,
certo non tutti, è statisticamente impossibile, qualcuno che sta spingendo il
vicino e protestando perché quello davanti gli toglie la vista del palcoscenico
è già andato per l'ultima volta dal barbiere, ma pazienza, anno più anno meno
fa poca differenza, non compiango chi sta per tirare i cracchi e non invidio chi
tira avanti né m'interessa tanto sapere in quale gruppo sono. Amen per Jerry,
come per tutti e per tutto. Come dicevo, non critico la sua decisione; quando
uno vuoi scendere dal bus è giusto che scenda e se preferisce fare un salto dal
bus in corsa, prima della fermata, affar suo. Uno può essere stufo, stanco, non
poterne più o che ne so io. Ma quando, vedendolo giù perché non suonava più come
prima, gli ho detto, così, per fargli coraggio, che era stato un grande della
chitarra, lui ha risposto che non gli bastava essere stato. Voleva essere - poco
importa cosa, un musicista, un innamorato, qualsiasi cosa, ma essere. Ah, signore
e signori, in quel momento ho capito che grande fortuna è nascere, come me, o
avere uno zio o un nonno o chi ti pare, nato a Bratislava o a Leopoli o a Kalocsa
o in qualsiasi altro buco di questa scalcagnata Mitteleuropa, che è un inferno,
un vero cesso, basta sentire quell'odore stantio, quella puzza che è la stessa
da Vienna a Czernowitz, ma almeno non ti impone di essere, anzi. Ah, se Jerry
avesse capito, quando la mano non gli ha funzionato più, la grande fortuna di
essere stato, la libertà, la vacanza, la grande licenza di non dover più essere,
di non aver più bisogno di suonare, la libera uscita dalla caserma della vita!
Ma forse non poteva, perché non era nato né vissuto in quell'aria pannonica
stagnante e spessa come una coperta, in quell'osteria fumosa in cui mangi male
e bevi peggio ma stai bene quando fuori piove e tira vento - e fuori, nella vita,
piove sempre e il vento è tagliente. Sì, qualunque droghiere di Nitra o di Varazdin
potrebbe insegnare a tutta la Quinta Strada - a parte quelli arrivati là magari
da Nitra o da Varazdin o da un altro pezzo di fango pannonico - la felicità di
essere stati. Ah, la modestia, la leggerezza di essere stati, quello spazio
incerto e cedevole dove tutto è lieve come una piuma, contro la presunzione, il
peso, lo squallore, lo sgomento di essere! Per carità, non parlo di nessun passato
e tantomeno di nostalgia, che è stupida e fa male, come dice la parola, nostalgia,
dolore del ritorno. Il passato è orrendo, noi siamo barbari e cattivi, ma i nostri
nonni e bisnonni erano selvaggi ancor più feroci. Non vorrei certo essere, vivere
alla loro epoca. No, dico che vorrei essere sempre già stato, esonerato dal servizio
militare di esistere. Una piccola menomazione talvolta è salvifica, ti protegge
dall'obbligo di partecipare e di rimetterci le penne. Essere fa male, non
dà tregua. Fa' questo, fa' quest'altro, lavora, lotta, vinci, innamorati, sii
felice, devi essere felice, vivere è questo dovere di essere felici, se no che
vergogna. Sì, ce la metti tutta per obbedire, per essere bravo e buono e felice
come è il tuo dovere, ma come si fa?, le cose ti cascano addosso, l'amore ti piomba
sulla testa come un cornicione dal tetto, una brutta botta o peggio, cammini rasente
ai muri per scansare quelle automobili impazzite ma i muri sono sbrecciati, pietre
aguzze e vetri che ti scorticano e ti fanno sanguinare, sei a letto con qualcuno
e per un attimo capisci cosa potrebbe e dovrebbe essere la vita vera ed è uno
schianto insostenibile - raccogliere i vestiti buttati a terra, rivestirsi, via,
uscire, per fortuna lì vicino c'è un bar, che buona cosa un caffè o una birra.
Ecco, bere una birra, per esempio, è un modo di essere stati. Sei là, seduto,
guardi svaporare la schiuma, ogni bollicina un secondo, un battito del cuore,
un battito in meno, riposo e promessa di riposo al cuore stanco, tutto è alle
tue spalle. Ricordo che la nonna, quando andavamo a trovarla a Subotica, copriva
con del panno gli spigoli dei mobili e toglieva un tavolo di ferro, così noi bambini
non ci facevamo male quando correndo per la casa andavamo a sbattervi contro,
e copriva anche le prese della corrente elettrica. Essere stati è questo, vivere
in questo spazio dove non ci sono spigoli, non ti sbucci le ginocchia, non puoi
accendere la lampada che ti fa male agli occhi, tutto è fermo, fuori gioco, nessun
agguato. Ecco, signore e signori, è questa l'eredità che abbiamo avuto dalla
Mitteleuropa. Una cassetta di sicurezza, vuota ma con una serratura che scoraggia
gli scassinatori desiderosi di metterci dentro chissà cosa. Vuota, niente che
prenda il cuore e morda l'anima, la vita è là, già stata, sicura, al riparo da
ogni accidente, una banconota scaduta di cento vecchie corone che appendi al muro,
sottovetro, e non teme nessuna inflazione. Anche in un romanzo, la più bella cosa,
almeno per chi lo scrive, è l'epilogo. Tutto è già accaduto, scritto, risolto,
i personaggi vivono felici e contenti o sono morti, è la stessa cosa, in ogni
caso non può succedere più niente. Lo scrittore tiene l'epilogo fra le mani, lo
rilegge, magari cambia una virgola, ma al riparo da ogni rischio. Ogni epilogo
è felice, perché è un epilogo. Vai sul balcone, un po' di vento passa tra i gerani
e le viole del pensiero, una goccia di pioggia scivola sul viso, se piove più
forte ti piace ascoltare il tambureggiare dei goccioloni sulla tenda, quando cessa
vai a fare due passi, scambi qualche parola col vicino che incontri sulle scale,
né a lui né a te importa cosa dite ma è piacevole intrattenersi un momento e dalla
finestra del pianerottolo vedi laggiù, in fondo, una striscia di mare che il sole,
uscito dalle nuvole, accende come una lama. "La settimana prossima andiamo a Firenze,"
dice il vicino. "Ah sì, bello, ci sono già stato." E così ci si risparmia la fatica
del viaggio, le code, il caldo, la ressa, la ricerca di un ristorante. Due passi,
nell'aria della sera rinfrescata dalla pioggia, poi a casa. Non bisogna stancarsi
troppo, se no va a finire che ci si agita e non si riesce a prender sonno. E l'insonnia,
signore e signori, credetemi, è terribile, ti schiaccia ti soffoca ti incalza
ti insegue ti avvelena - ecco, l'insonnia è la forma suprema dell'essere, essere
= insonnia, per questo bisogna dormire, dormire è solo l'anticamera del vero essere
già stato, ma intanto è già qualcosa, un respiro di sollievo...
(Tratto da Storie, antologia a cura di Nadine Gordimer, Feltrinelli editori, Milano, 2005.)
Claudio Magris
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