Beatrix
( - brano del romanzo Rimini - )
Pier Vittorio Tondelli
Verso Oriente correvano le nuvole sospinte dal vento testardo di una limpida giornata estiva, quando il rinascere della bella stagione è ormai una certezza che dà aria ai polmoni e rende i pensieri frizzanti e facilmente eccitabili; quando l'odore dell'aria carica di profumi arriva in città dalla foresta del Grunewald sospinto dal vento e il Tiergarten esplode nella varietà delle specie arboree, dei colori freschi, dei fruscii allegri delle piante, del canto degli uccelli; e nei vialetti appartati, nel cuore di Berlino Ovest, gli studenti passeggiano tenendosi per mano, rincorrendosi fra i pontili e i laghetti; e le statue neoclassiche si spogliano dai muschi e dalle muffe invernali come altrettanti rettili per risplendere, con una nuova levigata pelle, al sole. Una giornata luminosa in cui era sufficiente passeggiare lungo la Sprea, accarezzare con lo sguardo le chiome dei salici curvati nell'acqua e dal lento scorrere dell'acqua resi ancor più sinuosi, per sentirsi crescere dentro le voglie e i desideri dell'estate, dei viaggi, di nuovi incontri sentimentali.
Il pungente freddo berlinese fatto di neve, pioggia acida che non lasciava scampo in quei pomeriggi bui fin da mezzogiorno, di nottate nei caffè e nelle Kneipen e nei salotti degli amici, s'era finalmente sciolto in un accavallarsi di giornate sempre più tiepide e calde e rigogliose nonostante le intemperanze meteorologiche della primavera: i caffè esponevano i tavoli all'aperto e già la sera era abitudine cenare nel mezzo del chiacchiericcio intellettuale di Savignyplatz o in riva alla Sprea, a Kreuzberg. E nei week-end prendere la prima delicata tintarella sulle spiagge del Wannsee riposando, la notte, in uno chalet nel cuore della foresta verde.
Era il pomeriggio del ventitré giugno e Beatrix guardava dalla vetrina del suo negozio di antiquariato il passeggio frenetico sulla Kudamm. Proprio nel tratto di marciapiede davanti al suo negozio posto tra la Giesebrechtstrasse e Clausewitzstrasse, due ragazzi avevano appoggiato al tronco di un ippocastano un grande registratore. Erano ragazzi turchi spintisi nella lunga via centrale per rimediare qualche soldo. Il registratore a tutto volume diffondeva musica rap e i due saltimbanchi si davano il cambio esibendosi in quella danza dinoccolata, slegata, frenetica e in fin dei conti comica nei suoi risvolti da pantomima. Beatrix guardò i ragazzi, i passanti e i turisti che formavano un semicerchio davanti a loro e, prima di andarsene, lasciavano una ricompensa dentro un canestro appoggiato di fianco al registratore. Aveva voglia di andarsene via, chiudere il negozio e partire. Da troppi mesi ormai quel pensiero la stava soffocando.
Beatrix era una donna né bella né brutta, alta, dai lunghi capelli neri e lisci che lasciava cadere sulle spalle strette e ossute. Aveva grandi occhi azzurri, labbra appena pronunciate e grandi denti che rendevano il suo sorriso simpatico, infantile, confidenziale. In quanto all'età appariva come una donna fra i trenta e i quarant'anni con la spigliatezza dei primi e la maturità dei secondi. Dieci anni prima era stata sposata con un americano, militare di carriera. Un matrimonio tiepido che era durato per lei anche troppo, cinque anni. Ora Roddy se ne stava in una base militare in Italia nei pressi di Udine. Aveva sempre amato vivere in Europa e una volta lasciata Berlino, avendo la possibilità di scegliere un altro paese dell'Alleanza Atlantica per svolgere il suo servizio, aveva optato per l'Italia. L'ultima volta che si erano sentiti, Beatrix aveva appreso che presto se ne sarebbe partito per gli USA poiché, come molti militari statunitensi, situazione a Beirut permettendo, avrebbe terminato la carriera in America. Roddy si era poi fatto vivo con una lettera natalizia. Aveva scritto, tra le altre cose, di essere diventato padre per la seconda volta. Beatrix sapeva perché Roddy le aveva scritto questo, per non risparmiarle una stoccata. Voleva figli e lei assolutamente no, non ne avrebbe mai voluti, non gliene avrebbe dati.
Beatrix abitava ora, di nuovo, in Leibnizstrasse, all'incrocio con Mommsenstrasse, a due passi dal negozio, in una zona costituita da abitazioni ordinate con la facciata dipinta in tinte pastello molto simili a quelle di Amsterdam. Erano palazzine ricostruite dopo la guerra, presuntuose e appariscenti. Avevano un'ampia scala davanti alla porta d'ingresso e una siepe che le separava dal marciapiede. Beatrix era nata in quella casa e anche Claudia, pur se venuta al mondo in modo drammatico in una clinica di Schöneberg, aveva sempre vissuto lì. Sempre. Non volendo considerare i sette mesi e più da quando era partita. O per meglio dire: sparita.
Dopo il fallito matrimonio, Beatrix era dunque tornata a viverre in Leibnizstrasse. Rolf Rheinsberg, suo padre, esercitava la professione di avvocato. Un uomo secco e scattante che lavorava ancora dieci ore al giorno nonostante i suoi sessantacinque anni e un cancro al polmone che lo avrebbe stroncato di lì a due anni. Era stato appunto Herr Rheinsberg a convincere Beatrix ad aprire il negozio sulla Kudamm. La vedeva infelice, stanca, disorientata. Aveva dapprima tentato di convincerla a riprendere gli studi ed entrare così nel corpo accademico dell'Università Tecnica, ma tutto era stato inutile.
"Ho solo due amori che mi legano alla vita, papà," aveva risposto Beatrix. "Occuparmi di arte e di te. Nient'altro." "Vorresti aprire una galleria?" chiese Herr Rheinsberg. "Oh, no, papà. Qualcosa di più solitario."
"Potresti avviare un negozio di antiquariato, allora." Beatrix si fece seria.
"Prova a farti venire in mente qualcosa. Non sarà poi così difficile per te."
"Art Nouveau. Credi che avrà successo?"
"Ah. Molto bene, Beate. Possediamo già ottimi pezzi." "Non vorrei disfarmene."
"Ne comprerai degli altri. Non preoccuparti."
Nel settembre del millenovecentosettantasette, Beatrix iniziò i lavori di ristrutturazione del negozio. Si trattava di due locali che avevano ospitato, dalla metà degli anni cinquanta, un laboratorio di alta moda. Beatrix scelse di mantenere i soffitti stuccati nel gusto dell'epoca, ma fece abbattere una parete in modo da ricavare un solo grande locale per l'esposizione. Quella parte che costituiva il laboratorio di sartoria vero e proprio fu smantellata e, al suo posto, Beatrix piazzò l'ufficio separato dal locale solo da un paravento viennese a tre ante del 1899. Mentre i lavori di ristrutturazione procedevano Beatrix cominciò a viaggiare per l'Europa in cerca di pezzi adatti. A Londra fece acquisti per oltre diecimila marchi portandosi a casa argenti e servizi da tè in porcellana d'epoca. A Parigi i prezzi le apparvero immediatamente proibitivi. Comprò alcuni quadri con la consapevolezza che non li avrebbe mai venduti per la loro bruttezza, ma costavano poco. Erano tele di piccolo formato e rappresentavano alcune marine, tre nudi femminili con chitarra e un ritratto di gentiluomo. Furono i pezzi che vendette per primi. Il colpo grosso comunque lo ebbe a Bruxelles. Si trovava in Belgio da qualche giorno. Aveva girato i mercatini provinciali di Bruges e di Gand senza trovare niente di particolare. Aveva ancora da spendere parecchi marchi e non voleva tornarsene a mani vuote. Raggiunse Bruxelles stanca e avvilita. Un sabato mattina girò fra i banchetti del Jeu de Balle. Guardò argenti, tazze, servizi sbeccati, gioielli, molte stampe, parecchi libri, qualche mobile. Comprò solamente un paio di scarpe, ma non per il negozio, per sé. Stava per scendere verso il Petit Sablon quando si imbatté in un piccolo banco che esponeva piastrelle di ceramica decorate con motivi floreali. Cominciò a guardare quelle piastrelle leggermente più piccole del consueto formato quindici per quindici. Si trattava, per la maggior parte, di oggetti recenti, ma fra questi esistevano almeno una trentina di pezzi ottimi, originali degli anni dieci-venti. Chiese alla ragazza della bancarella se fosse stata in grado di procurargliene delle altre, ma solo di quel certo tipo. La ragazza disse di sì, che poteva. Solo al momento di pagare Beatrix chiese disinvoltamente dove se le fosse procurate.
"Molte le stacchiamo dalle vecchie case," disse lei.
"Tu e chi altri?"
"Siamo un gruppo. Andiamo nelle case che devono essere demolite e facciamo traslochi, ripuliamo cantine, solai, cose di questo tipo. Io vedo quelle piastrelle ed è un peccato lasciarle li alle ruspe. Allora con Léon-Luis abbiamo pensato di staccarle."
"Sono bellissime," disse Beatrix.
"Ne vanno rotte molte. Non è facile staccarle bene."
Beatrix ebbe un sussulto. Pensò a quei ragazzi intenti a sbattere giù con scalpelli pareti in maiolica di ingressi e bagni e salotti. Lo facevano per aiutare i paesi del Terzo mondo, aveva detto la ragazza. Da brava berlinese di buona famiglia, Beatrix realizzò che forse, se ci avesse messo le mani lei stessa, sarebbero stati tutti più contenti, i ragazzi e il Terzo mondo.
Si trattenne a Bruxelles una settimana. Herr Rheinsberg telefonava tutti i giorni all'hotel. In negozio avevano bisogno di lei per decidere alcune questioni che l'architetto non si sentiva di risolvere da solo. Beatrix chiese tempo. Raccolse le sue piastrelle, trovò una fabbrica che aveva molte rimanenze di magazzino e fra queste alcune serie di piastrelle d'epoca. Beatrix comprò. Aveva fiutato la sua pista e la stava seguendo come un segugio.
L'inaugurazione dell'Art Nouveau avvenne quello stesso anno sotto le festività natalizie. Un improvviso successo, poi acque ferme. Beatrix non si lasciò scoraggiare. Non aveva bisogno di guadagnare. Collezionava piastrelle e le rivendeva ad architetti che se ne servivano per arredare o impreziosire appartamenti rimessi a nuovo. Con il passare del tempo, Beatrix si specializzò in questo settore. Continuava ad acquistare servizi di porcellana, gioielli e anche vetri dipinti, ma la sua passione erano esclusivamente quelle piastrelline decorate nei modi più strani e dai colori che, nonostante il tempo, mantenevano la loro brillantezza; e, più di questa, il fascino di una grande stagione del gusto calata intatta - come per magia - nelle piccole cose di uso domestico e quotidiano.
Il tintinnio dei campanelli appesi a fianco della porta di ingresso la avverti dell'arrivo di un cliente. Beatrix si voltò e scorse un uomo sulla cinquantina, di aspetto distinto, barba e capelli ben curati.
"Parla francese?" le chiese.
Beatrix annuì.
"Potrei dare un'occhiata ai suoi oggetti?"
"Bien sûr, Monsieur."
Tornò a sedersi dietro il tavolo di cristallo e finse di correggere alcuni appunti sulla carta. Ogni tanto controllava il visitatore con la coda dell'occhio. Se i loro sguardi si incontravano, lei sorrideva, come per dire prego, il negozio è suo. L'uomo parve attratto da un servizio di argenti, custodito in una vetrinetta in stile dagli stipiti laccati di nero.
"Posso aprirla, se vuole," disse Beatrix.
"Non si preoccupi, Madame," fece lui, "voglio solo guardare."
Beatrix ebbe l'impulso di mandarlo al diavolo. Erano giorni che turisti di ogni sorta entravano nel negozio e se ne uscivano senza acquistare nulla. Faceva parte del mestiere, beninteso. Lo sapeva. Ma non ci si era ancora abituata. Tornò con lo sguardo su quei fogli bianchi. Prese il lapis e scarabocchiò qualcosa: dapprima una linea circolare, poi una spirale e da questa altri vortici di segni che si sovrapponevano, si snodavano, ricomparivano come geroglifici incomprensibili. Finché da quel gomitolo confuso di grafite non risultò netto un percorso, una traccia, un nome. Il nome era Claudia e Beatrix altro non aveva fatto che scriverlo inconsciamente in ogni calligrafia, in ogni schizzo, in ogni disegno. Si alzò dal tavolo e si avvicinò all'uomo. Voleva dirgli di andarsene, che avrebbe chiuso il negozio e che, se fosse stato veramente interessato, avrebbe potuto ripassare un altro giorno. Invece si fermò al suo fianco e lo guardò come si guarda un complice atteso da lungo tempo.
"Le piace?" disse sommessamente .
"È un pezzo notevole," notò l'uomo. "Ormai è difficile trovare in commercio tanke di questa fattura."
"È molto bella," ammise Beatrix come la vedesse per la prima volta.
Si trovarono fianco a fianco, leggermente ricurvi con gli occhi puntati verso il basso. La tanka era appoggiata in terra, dietro una piccola sporgenza della parete, come fosse capitata li, per caso, da poche ore. Era ricoperta da un vetro sbeccato agli angoli e visibilmente fratturato verso il basso. In corrispondenza dell'angolo destro inferiore il vetro mancava completamente. L'uomo si chinò e introdusse le dita fino a sfiorare la miniatura di uno Yidam. Percorse con l'indice il contorno di fuoco che emanava dall'immagine della divinità, seguì le screpolature del lapislazzuli ossidato che rendeva l'originario colore azzurro intenso di un verde scuro e profondo. I contorni delle immagini sacre erano bordati di oro zecchino e rilucevano alla luce dei fari della galleria.
"L'ho avuta da mio padre," disse Beatrix. "Si è stancato di tenerla in casa."
"Quant'è il prezzo?"
"Tremilacinquecento marchi."
L'uomo si pizzicò la barba. Svolse mentalmente la cifra in franchi francesi. L'equivalente di diecimila franchi. Sì, era un prezzo interessante. "Potrei vedere il retro della tanka?" disse infine uscendo dai suoi calcoli.
Le sembrò una richiesta accettabile, ma fastidiosa. "Bisognerà smontarlo," disse.
"Temo proprio di sì. Ma non c'è altro modo per vedere se i cakra, i centri vitali, sono animati attraverso un Bijiamantra. Sarebbe la miglior prova della sua bellezza."
"Va bene," cedette Beatrix, "mi aiuti a portarlo di là."
Raggiunsero insieme il retrobottega. Era uno stanzino senza finestre colmo di cornici, piastrelle impilate su scaffali come tanti libri, attrezzi di falegnameria, barattoli di colle e vernici. Appoggiarono la tanka in terra. Fu necessario spaccare completamente il cristallo per estrarre il dipinto senza rischiare di ferirsi con le schegge. L'uomo maneggiò il cacciavite con molta destrezza per staccare i chiodi che stringevano il sottile cartone su cui la tanka era stata adagiata. L'uomo parlava descrivendo lo Yidam Yamantaka, il soggetto centrale della tela. Disse che la raffigurazione era canonica e perfetta, non solo per le dimensioni - settantacinque centimetri per cinquanta - ma soprattutto per l'iconografia. Il dio dalla testa di toro era stato dipinto con tutte le sue diciotto paia di braccia innalzanti gli attributi delle passioni umane dalle quali Yamantaka - "il distruttore" dall'aspetto terribile, dalle collane di teste umane mozzate e putrefatte, dal mantello di pelle di elefante appena scuoiato e grondante sangue, dal lingam infuocato conficcato nella vagina della compagna Paga stesa e sottomessa ai suoi piedi - liberava. Indicò con il dito il Buddha Bianco Vairocana posto in verticale rispetto alla testa di toro furente. Disquisì di colori e di famiglie asserendo che la discendenza dello Yidam Yamantaka poteva procedere più dalla famiglia del Buddha Vajra come dimostrava l'identico colore blu del corpo e la radice del nome in tibetano: Vajrabhairava - piuttosto che non dal Buddha Bianco. Beatrix lo ascoltò scrutando la tanka come fosse la prima volta. Erano dieci anni che la vedeva, ma quella era effettivamente la prima volta. L'avrebbe venduta e le sarebbe mancata. E solo allora l'avrebbe apprezzata e rimpianta. Come con Claudia.
Finalmente fu il momento di sollevare il dipinto per osservarne il retro. Beatrix era emozionata. La circospezione del francese l'aveva soggiogata fino a renderla partecipe di quella scoperta. L'uomo distese la tanka a rovescio. Dei piccoli segni color vermiglione erano sparsi al centro e agli angoli in gruppi di tre. Guardando in trasparenza, come l'uomo fece, era possibile notare che ogni sillaba era stata dipinta in corrispondenza della testa, della gola e del cuore delle divinità. Era questo che il francese voleva sapere. "Ho una carta di credito," disse, senza togliere gli occhi da quei mantra.
Beatrix disse che andava bene. Passarono nell'ufficio dietro il paravento e siglarono la vendita. Poi l'uomo raccolse la tanka e l'arrotolò con cura tra due veline. La mise sottobraccio e fece per uscire. Beatrix lo accompagnò verso la porta. Al momento di stringergli la mano per salutarlo, con un tono di voce assolutamente inadatto all'occasione, un tono drammatico e implorante, domandò: "Come ha fatto a sapere che la tanka che lei cercava era qui?" L'uomo non parve sorpreso. "Vuol dire perché il suo negozio vende antiquariato del novecento?" "Esattamente questo."
Gli aveva posto la mano sul braccio e glielo stringeva. La pressione aumentò, anche la forza, l'intensità. Beatrix voleva una risposta. L'uomo allora distaccò la mano, gliela prese tra le sue e la strinse amichevolmente come una carezza. Le sue parole furono: "Je ne cherchais guère cette tanka, Madame. C'est elle qui a cherché moi."
Nella sala da pranzo la luce era morbida e soffusa. Hanna stava servendo la cena a Beatrix scivolando silenziosamente fra la cucina e la sala; ma l'intuito di vecchia servitrice l'aveva già da tempo avvertita che il suo gulasch mit spätzle non sarebbe stato nemmeno sfiorato dalla forchetta di Beatrix. Nonostante ciò compariva di tanto in tanto in sala per accertarsi che la sua signora desiderasse qualcosa di diverso, magari qualche sottilissima fetta di prosciutto della Foresta Nera o una porzione di formaggio; ma Beatrix non alzava nemmeno la testa dando a intendere di avere qualcosa da chiedere. Solo percorreva con la punta del dito l'orlo del bicchiere, lo sguardo fisso alla trasparenza di quel vino del Reno.
Hanna tornò in cucina. Si sedette al tavolo, sull'orlo della sedia, e si versò un boccale di birra. Ne bevve un lungo sorso chiudendo gli occhi e alzando la testa all'indietro. Infine si alzò, afferrò il mestolo e versò nel piatto il gulasch. Silenziosamente, si mise a intingere una fetta di pane nero nel sugo denso e scuro. Nelle due stanze il silenzio era assoluto. Sotto la luce potente della lampada allogena, Hanna consumava la sua cena con le orecchie ben attente al minimo segnale proveniente da quell'altra stanza avvolta dalla penombra delle candele accese in cui Beatrix non mangiava, non si muoveva, non fiatava.
Erano rimaste sole. Oddio, Hanna era sempre stata sola in tutta la sua vita. Nata sessant'anni prima a Oberndorf am Neckar, nel Baden-Wurttemberg, da una famiglia poverissima, aveva sempre servito. Dapprima a Stoccarda, poi a Colonia e infine a Berlino da Herr Rheinsberg. Il buon Rheinsberg che preferiva la cucina sveva sopra ogni altra e che proprio per questo l'aveva presa con sé quindici anni prima. Il buon Rheinsberg rimasto vedovo con due figlie terribili sulle spalle: una ragazzina di appena sei anni, estroversa capricciosa, già invadente, e una signorina di vent'anni, Beatrix, che si sarebbe sposata solo per poi tornare in quella stessa casa a martoriarlo con il suo matrimonio fallito. E accanto a tutti lei, Hanna, con la sua saggezza tautologica di contadina sveva per cui la vita è la vita, l'amore è l'amore e il dolore soltanto e semplicemente il dolore; Hanna che fra pochi anni se ne sarebbe tornata nella sua Germania, in quella vera, e avrebbe abbandonato finalmente quell'isola bastarda che era Berlino Ovest: una città in cui aveva soltanto visto gente morire, donne crescere per poi tornare ragazze o addirittura sparire dalla faccia della terra come Claudia. "È il pensiero di Claudia," si disse, scrollando la testa come per darsi ragione. "È quella piccola vipera che torna a torturare la sorella come anni prima ha fatto con il padre, il povero Herr Rheinsberg. Ecco cos'è. Mica gli spätzle."
"Hanna?" disse in un soffio leggero Beatrix. L'aveva raggiunta in cucina. Si maledì per non aver prestato attenzione a quello scricchiolio del parquet, ma era troppo immersa nei suoi pensieri. "Hallo," rispose alzandosi.
Beatrix si sedette all'angolo del tavolo invitando la domestica a fare altrettanto. "Non stare in piedi, Hanna, ti prego." La sua voce era dolce e scivolava via come la linea dei suoi capelli lungo le spalle, pensò Hanna.
"Vuoi qualcos'altro per cena?"
"Non ho fame... Un goccio della tua birra."
Hanna si procurò un boccale e versò una abbondante dose della miglior birra di Berlino, la Schultheiss. Poi la guardò come aspettasse qualcosa.
"Dovrò partire fra qualche giorno," disse Beatrix.
"Capisco," fece Hanna. Non le sembrava ci fosse qualcosa di tanto eccezionale in quel discorso. Mise le mani in grembo e si accarezzò le dita grassocce e violacce. Era ancora in attesa.
Beatrix la guardò negli occhi, spostò lo sguardo verso la birra e poi verso la cucina. Accavallò le gambe e si avvicinò con il busto al tavolo come dovesse avvicinarsi ancora di più ad Hanna. Hanna la guardava e aspettava, ma cominciava a capire. Erano mesi e mesi che si chiedeva quando sarebbe giunto quello stesso momento. Infine Beatrix parlò.
"Andrò a cercare Claudia," disse.
Come se improvvisamente fra le due donne tutto fosse chiaro, come se la conversazione avesse imboccato un terreno su cui entrambe erano scese in lotta come alleate, un terreno di battaglia che le vedeva dalla stessa parte, Hanna parlò con impeto. "La polizia non ti ha saputo dir niente?"
"No."
"E quell'altra... Come si chiama?" "Nessuno mi ha saputo dir niente," tagliò corto Beatrix.
"Sono i turchi! Io lo so, Beate, che sono i turchi," fece Hanna. Era diventata paonazza e parlava con foga. Come tutti i berlinesi, o i tedeschi in generale, si sentiva minacciata dalla emigrazione turca benché, in quello stesso periodo, il Governo Federale iniziasse una massiccia campagna per favorirne il rimpatrio promettendo in cambio grosse somme di marchi.
"No, non credo che si tratti di questo," fece Beatrix. "È Claudia che ha scelto così. Ma adesso io so che devo partire."
Hanna si versò altra birra per essere pronta a soccorrerla.
"So cosa vuol dire fallire, sbagliare. Essere costretti a tornarsene indietro. So che non è mai un ricominciare. Si finge che sia così. Si dice: ora tutto riparte in una direzione nuova, e può anche essere vero. Ma certo non ricominci niente di niente. Continui proprio dal tuo vicolo cieco. Da nessuna altra parte se non a quel punto li... Claudia ha bisogno di me ed è troppo giovane per ammetterlo a se stessa."
"È sempre stata una ragazzina così testarda," ammise Hanna, in tono consolatorio.
Beatrix si alzò. Non poteva tollerare si parlasse di sua sorella come si parla in genere dei morti.
"Ti chiedo una sola cosa, Hanna," disse, uscendo dalla cucina. "Puoi restare in casa finché non sarò tornata? Te la senti?"
Hanna si stropicciò ancora più forte le mani. "Io spero, Beate, che quando verrà agosto tu e Claudia sarete di nuovo insieme."
Beatrix sorrise: "Non appena tornerò, potrai prenderti le tue ferie. Intanto puoi chiamare qui tuo fratello, o chi vuoi. C'è la camera degli ospiti."
"Non sarà necessario," fece Hanna con gli occhi lucidi. "Tornerai prima di agosto."
Beatrix guardò la donna seduta con il capo chino, i capelli grigi pettinati accuratamente in treccine arrotolate sulle orecchie, guardò il gulasch in cui galleggiavano, ormai freddi, alcuni pallidi spätzle.
"Sai, Hanna," disse. "Papà diceva sempre..."
"Che la cucina sveva è l'unica vera cucina tedesca." Hanna sorrise. "Lo so, Beate, lo so."
La camera di Claudia era rimasta esattamente uguale da quando se ne era andata, a sedici anni, per vivere in un appartamento di Hausbesetzer a Hallesches Tor. Allora c'era un ragazzo nella sua vita, un ventenne magro e allampanato, dai capelli candidi che si chiamava Emmett. Con lui rimase un anno o poco più. Emmett era un "politico", un giovane uomo pieno di ideali e di convinzioni e cause perse. Faceva parte di un gruppo violento, rabbioso, distruttivo. Aveva avuto noie con la polizia, ma in quegli anni tutti i ragazzi come lui erano passati sotto le forche caudine dei manganelli dei poliziotti. Emmett però reagì a quel pestaggio in modo diverso dagli altri. Con l'apatia e col cinismo. Claudia lo lasciò. Preferì Ossi, un amico che viveva nella stessa casa occupata. L'alba in cui la polizia li fece sfollare, l'alba che decretò la rinuncia di Emmett agli ideali e alle cause perse, li vide protagonisti di una occupazione feroce e inedita. Mentre la polizia pestava, Claudia, Ossi e altri ragazzi distrussero e incendiarono uno stabile sfitto in Ratiborstrasse. Di là dal muro, a poche decine di metri, i vopos guardavano, come sempre impassibili, le violenze di quell'altra incomprensibile parte del mondo.
Con Ossi, Claudia rimase qualche mese. Poi tornò a casa nella vecchia camera dal soffitto blu.
"Mi sono stancata di quella vita," disse una notte a Beatrix. "Ne sei sicura?"
"Non so... Ho avuto paura."
Si erano abbracciate e avevano dormito nella stessa stanza. Ma Beatrix sapeva che prima o poi Claudia avrebbe di nuovo abbandonato il nido. Era troppo giovane, troppo diversa. Tutto quello che le poteva offrire era la tranquilla vita borghese di Leibnizstrasse. Una vita senza uomini, senza emozioni: una calda placenta femminile che poteva sì difendere dall'ansia della vita, ma non preservarne gli effetti distruttivi. Cominciarono a litigare, sempre più spesso. Claudia era insofferente a tutto, detestava gli orari della vita in comune e Beatrix - nonostante le dicesse che non era importante sedersi a tavola tutte nello stesso momento - doveva continuamente sorbirne i sarcasmi e la violenza.
"Sei una povera zitella! Ecco quello che sei!" urlò Claudia una sera, a tavola. "Io non ti voglio, non voglio la tua protezione di fallita. Perché te la devi prendere con me se gli uomini ti mollano? Cristo, perché? Mi sembra di impazzire! Così benpensanti! E io devo star qui a scaldare il letto a una povera cretina di frigida che non ha capito niente di niente."
Intervenne Hanna, quella sera. L'afferrò con le sue forti braccia di contadina e la sbatté sulla poltrona. "Non azzardarti a parlare così a tua sorella!" minacciò, rossa in volto e feroce. Claudia ebbe paura che quella donna grassa, vecchia, liberasse tutta la sua forza e la picchiasse. La vide china su di lei, con i denti gialli, enormi, che le sbucavano dalle labbra tirate, i piccoli occhi grigi ancora più piccoli e feroci, le braccia grosse, dalla pelle vizza alzate sulla sua testa. E allora abbracciandosi il volto e rannicchiandosi gridò: "Beate! Beate!"
"Tornatene in cucina, Hanna," disse Beatrix, accorrendo in suo aiuto, la voce calma, lentissima, estranea. "Tornatene in cucina."
Qualche giorno dopo, Claudia lasciò la casa. Se ne andò apparentemente tranquilla dicendo ad Hanna che avrebbe telefonato in seguito per dare un recapito. In Leibnizstrasse le due donne attesero quella telefonata per oltre un mese. In certi momenti Hanna si avvicinava a Beatrix e la guardava interrogativa. Erano momenti che un estraneo non avrebbe riconosciuti tanto facevano parte di una comunicazione intima e consueta fra le due donne. Erano momenti che cadevano nel bel mezzo di una conversazione su cosa preparare per cena quando improvvisamente Hanna si ripiegava in un mutismo assoluto e solo i suoi occhi ripetevano incessanti quella domanda; oppure quando Beatrix, rincasando, chiedeva chi avesse telefonato e Hanna scuoteva la testa e la guardava e le sue braccia, abituate fin dalla fanciullezza a non conoscere mai un attimo di tregua o di riposo, tremavano per l'impazienza e l'impotenza, quasi volessero, a ogni costo, darsi da fare per cercare la piccola traditrice. Da quei giorni Beatrix cominciò a temere il silenzio che si creava fra lei e Hanna. Beatrix non era una donna abituata a parlare e discorrere. Il solo modo che conosceva per comunicare con gli altri era agire. Quando le sembrò che il suo matrimonio fosse sull'orlo del baratro, non cercò minimamente di rimetterlo sui binari giusti, prese la porta di casa e abbandonò Roddy. Mesi più tardi, quando la sua infelicità era diventata insopportabile non solo per se stessa ma anche per Herr Rheinsberg, non fece tante discussioni. Accolse il consiglio del padre e agì, aprendo il suo Art Nouveau. Non aveva mai temuto i silenzi dunque, eppure in quei faticosissimi trenta giorni la presenza muta di Hanna aveva cominciato a torturarla. E quando la domestica avviava il suo discorso, sempre quello: "Non abbiamo, Beate, notizie di Claudia?" lei, con fastidio rispondeva sempre nello stesso modo: "Io non so niente. E tu?" Ma ogni volta era sempre più difficile e ogni volta faceva sempre più male. Sapeva che non avrebbe resistito a lungo su quella strada, sempre calma, e forte, e serena a dire a Hanna che non c'era da preoccuparsi, Claudia avrebbe saputo badare a se stessa, era ormai una donna e loro invece due povere ansiose abbandonate. No, non avrebbe retto per molto. I piccoli occhi grigi di Hanna erano sempre più penetranti con lo sguardo del rimprovero e Beatrix avrebbe un giorno capitolato e fatto l'unica cosa che da tempo ormai, da quando era morto suo padre, avrebbe voluto fare: gettarsi nel grembo di Hanna e piangere e accarezzare quelle grandi dita di contadina passandosele sulle guance e sentire la sua vicinanza e domandarle infine, senza parlare, i segni e i gesti della sua protezione materna. E Hanna di certo non avrebbe risposto no alla sua bambina.
Un giorno, finalmente, il telefono squillò. Era la voce di Claudia modulata in un tono irriconoscibile, basso, gutturale e impastato di saliva. Disse che stava bene e che sarebbe presto partita per Amsterdam con alcuni amici. Beatrix le chiese di avere quel numero di telefono e Claudia glielo dettò velocemente. Non appena si furono salutate, Beatrix ripeté il numero sulla tastiera. Le rispose, imbarazzata, la donna che stava facendo le pulizie all'Art Nouveau. L'aveva persa di nuovo.
Un altro segnale di Claudia giunse in Leibnizstrasse con la posta del mattino, sotto Natale. Si trattava di una cartolina proveniente da Londra che raffigurava Piccadilly Circus. Diceva: "Sto partendo per Hammamet. Buon Natale." Beatrix la mostrò esultante a Hanna. "Vedi?" le disse. "Non c'è da preoccuparsi. Sta bene. Si diverte." Hanna ebbe molto da ridire su quella cartolina. Beatrix non capiva il perché. Finché un giorno Hanna, servendo delle Maultaschen ammise: "Non si è ricordata di me. È la prima volta che non mi fa gli auguri per l'anno nuovo."
Il terzo e ultimo segnale di Claudia giunse sotto forma di telegramma ai primi di aprile. Claudia chiedeva soldi e forniva come recapito l'indirizzo di un hotel di Roma. Beatrix consultò il centralino internazionale ed ebbe il numero di telefono dell'hotel. Chiamò Roma sforzandosi di parlare italiano. Furono necessarie quattro chiamate per sentirsi sgarbatamente rispondere che la signorina Rheinsberg non alloggiava più da quelle parti. La linea cadde e la quinta chiamata servì a Beatrix solamente per farsi dire il nome del direttore dell'albergo che si trovava però fuori Roma. Due giorni dopo, Beatrix riuscì finalmente a parlare con il signor direttore Toscanelli. Questi assicurò che poteva mandare il vaglia bancario e che garantiva sotto la propria responsabilità di custodirlo finché la signorina Rheinsberg non fosse passata a ritirarlo.
Beatrix non si fidò e non spedì i mille marchi che Claudia aveva chiesto. Hotel Tiberio, Via Nazionale, Roma. Le tracce di Claudia si perdevano li.
Senza accendere la luce, Beatrix entrò nella camera dal soffitto blu. La luce dei lampioni sulla strada entrava dalla finestra rischiarando gli oggetti, i mobili, le piccole cose di Claudia. Sulla parete opposta al letto brillavano decine di piccole stelle fosforescenti, di diversa grandezza, che solo il buio rendeva visibili. Erano disposte a caso su una superficie di circa un metro quadrato e davano l'impressione reale di una finestra aperta sul buio stellato della notte. Beatrix si distese sul letto e fissò le piccole stelle finché la decisione di mettersi alla ricerca di quella piccola seminatrice di guai fu talmente pressante da costringerla a muoversi. Si alzò, accese la luce, cominciò a frugare tra gli oggetti di Claudia fingendo con se stessa che fosse la prima volta. Ma tutto era già accaduto infinite altre volte, ogni volta che Claudia scompariva.
In un piccolo cassetto dello scrittoio Beatrix trovò il pacco di lettere. Sfece il nastro rosa che le teneva unite e cominciò a leggerle, una per una, meticolosamente. Impiegò più di un'ora per passarle al setaccio. Erano lettere di Emmett, biglietti di Britta, un'amica d'infanzia, altre lettere di amici, un paio sue, di Beatrix. Lesse tutto con attenzione e conservò, fuori dal pacchetto che aveva ricomposto, soltanto un biglietto di Emmett. Risaliva al periodo in cui lui e Claudia si erano separati. Era una lettera abbastanza breve, una facciata e mezzo, scritta con una calligrafia lenta e precisa. Emmett ricordava una notte di amore con Claudia, la loro prima notte d'amore, e lo faceva con una malinconia fredda e controllata del tipo "questo mi è stato dato e questo mi è stato tolto". La lettera terminava con una quartina di Kurt Tucholsky, un autore che Emmett, come tutti i ragazzi berlinesi della sua razza, non poteva non amare. Diceva:
Aus weiten Hosen seh ich dich entblättern,
halb keusche Jungfrau noch und halb Madame.
Ich laß dich sachte auf der Walstatt klettern...
Du liebst gediegen, fest, und preaisch-stramm.1
Beatrix la rilesse e la mise da parte. Cercò di concentrarsi su ciò di cui avrebbe avuto bisogno per la sua ricerca. Senza alcun dubbio, una fotografia di Claudia. Non ne possedeva di recenti. Cercò affannosamente fra i cassetti, i ripostigli, i libri, le riviste, i dischi, ma fu tutto inutile. Si gettò esausta sul letto. Il suo orologio segnava le tre e quaranta. Chiuse gli occhi per qualche istante, cercando di rilassarsi. Quando li riaprì, qualche minuto più tardi, sapeva dove cercare. Si alzò, aprì le ante dell'armadio, estrasse l'ultimo cassetto colmo di biancheria e ne rovesciò il contenuto sul parquet. Prese i due diari, strappò la linguetta fiorata che li sigillava e li aprì. Erano libri rilegati a mano, di buona carta, dura e color dell'avorio antico. La copertina era di chintz imbottito. Prese un tagliacarte e lacerò la stoffa. Nel primo diario non trovò niente. Ripeté l'operazione e già mentre la lama affilata penetrava stridendo nella tela, emerse l'orlo di una fotografia.
Beatrix tolse tutto il contenuto da quel singolare nascondiglio. Si trovò in mano un piccolo dente da latte la cui corona era rivestita di un sottile strato d'oro; una medaglietta, anch'essa d'oro, un tovagliolo da bar macchiato di chiazze marroni su cui Claudia aveva scritto una poesia, e tre fotografie. Sentì una fitta stringerle lo stomaco. Esaminò quelle foto. Erano in bianco e nero, stampate da un dilettante, probabilmente ingrandite parecchie volte. In una Claudia appariva nuda, con il suo corpo ancora adolescente, morbido e quasi pingue, di quella rotondità che hanno le ragazze prima di diventare donne. Stava in piedi e guardava verso uno specchio che rimandava il lampo di un flash.
Nella seconda fotografia Claudia era abbandonata su un letto sfatto, i lunghi capelli biondi le ricoprivano parte del viso, ma lasciavano intravedere le sue labbra truccate e aperte in un sorriso di imbarazzo, o di piacere, forse. Un braccio di Claudia era riverso dietro la testa e Beatrix notò che l'incavo dell'ascella era pulito e tenero, senza l'ombra di un pelo. Eppure, inequivocabilmente, Claudia era già donna. La terza fotografia, che tutto faceva supporre essere stata scattata insieme alle precedenti, ritraeva Claudia adagiata sul ventre eretto di un ragazzo magro, biondo, di cui si poteva scorgere solo la parte centrale del corpo poiché il viso era nascosto dalla macchina fotografica puntata verso lo specchio. Claudia si protendeva verso quel membro eretto, sproporzionato rispetto all'esilità del suo viso e del suo corpo. Aveva l'aria di divertirsi, di essere dentro a un gioco. Beatrix abbandonò la prima e più facile ipotesi: che si trattasse di foto rubate sul set di un qualche schifoso imbroglio pornografico. Pensò che fossero solamente i ritratti dei momenti d'amore, i primi, fra due ragazzi. In questo caso, quasi certamente, il biondo era Emmett.
Si alzò, ripose il resto del contenuto nel cassetto, prese la lettera e le fotografie e uscì dalla stanza. Ormai era decisa a partire. Avrebbe aspettato soltanto la fine di giugno per chiudere il negozio. Tutto quello che avrebbe portato con sé di Claudia sarebbero dunque stati un biglietto e tre fotografie erotiche, inutili feticci di un passato che forse Claudia stessa non avrebbe riconosciuto più.
1 Quando i tuoi bei mutandoni vai calando / sei un poco verginella e mezza una Madama. / Dal risalir la rena io ti sostengo... / oh mia dolce, volitiva, signorina prussiana
(Brano tratto
dal romanzo Rimini, RCS Libri, Milano, 1985)
Pier Vittorio Tondelli
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