Nascono alcuni al soave diletto
Nadine Gordimer
Nascono
alcuni al soave diletto, Nascono alcuni ad infinita notte.
WILLIAM
BLAKE, Presagi di innocenza |
Lo accolsero nella loro casa. Da quando il figlio aveva firmato un contratto di
diciotto mesi per lavorare su una piattaforma per ricerche petrolifere, l'accogliente
cameretta del ragazzo era libera e i soldi dell'affitto erano una manna. I galloni
della divisa da portiere del padre sfioravano i soprabiti e le ventiquattrore
dei membri del circolo e quando si avvicinava a loro per toglierglieli, quel contatto
aveva fatto sì che anche in lui affiorasse una leale coscienza del pericolo di
bombe sotto le macchine di parlamentari e finanzieri. Quando i proprietari della
casa, nel cui seminterrato lui abitava insieme alla sua famiglia, avevano posto
come condizione: "Niente irlandesi", il padre aveva detto: "Niente in contrario".
Però ogni discriminazione nei confronti di altri stranieri del vecchio Impero
era contraria ai principi degli stessi proprietari, i quali erano anche i datori
di lavoro della madre - pulizie tre volte la settimana nonché cura per tutta la
durata dell'infanzia di tre maschietti che lei considerava come suoi. Così era
stato per far piacere a Quelli-Di-Sopra se avevano deciso di affittare la stanza
a quel giovane, uno straniero che con tutta probabilità si era già visto chiudere
la porta in faccia da altri avvisi sulla bacheca del supermercato. Era pulito
e in ordine quanto bastava; e non ciondolava in cucina nella speranza che la famiglia
lo invitasse a cena, come avrebbe senz'altro fatto uno come loro. Non aveva messo
gli occhi su Vera.
Vera aveva diciassette anni ed era un'archivista con buone prospettive di promozione;
il padre era riuscito a farle ottenere un posto in una importante azienda grazie
alla cortesia di uno degli illustri signori che frequentavano il circolo. Una
buona parola nel posto giusto; e adesso dipendeva solo da lei diventare una segretaria,
forse un giorno addirittura la segretaria personale di qualcuno come i membri
del circolo, e se ne sarebbe andata in giro per l'Europa, per l'America - dappertutto.
"Devi vestirti decorosamente in una ditta così. Lascia che a mostrare il fondoschiena
siano altre." "Papà!" - L'appartamento era piccolo, le pareti sottili - pensa
se lo sentiva l'inquilino. Era arrossita e le pupille le si erano dilatate, un
po' per la vergogna, un po' perché si era seccata. Il venerdì e il sabato sera
la ragazza si metteva una T-shirt con delle scritte fatte di lustrini e andava
in discoteca con le amiche, anche se aveva dovuto rinunciare alla ciocca rosa
tra i capelli. La domenica si sedevano sulle panche di legno fuori del pub con
i ragazzi del quartiere bevendo, tra frizzi e lazzi, boccali di birra mista a
limonata. Una volta le avevano dato della birra corretta con qualcosa e l'avevano
fatta ubriacare, ma il padre era stato ingaggiato come portiere a un party e la
madre aveva portato i bambini di Quelli-Di-Sopra allo zoo, così nessuno l'aveva
sentita vomitare in bagno. Così almeno pensava. Ma quando era andata in
cucina a bere, pulendosi la bava dalla bocca ancora ansimante, lui era lì. Le
si rivolgeva sempre chiamandola "signorina": "Buon pomeriggio, signorina." Si
stava versando un bicchiere d'acqua. Si fermò di colpo dov'era; nella bocca
e nel naso sentiva una forte acidità; era ricoperta di sudore, non voleva fare
un passo verso quell'estraneo, quello straniero. Un formicolio di vergogna coprì
la nausea e le lacrime. La vergogna le gonfiò lo stomaco, la gola si schiuse,
ebbe giusto il tempo di raggiungere il lavello per rigettare gli ultimi rimasugli
di una pizza ridotta in poltiglia dai denti e dai succhi gastrici e che ora galleggiava
sulla birra. "Va via. Va via!" La mano dietro la schiena gli fece segno di allontanarsi.
Aprì entrambi i rubinetti per far naufragare la sua vergogna giù per il tubo di
scarico. "Vattene!" Era lì accanto a lei, immersa in quel suo tanfo disgustoso,
aveva inumidito un asciugapiatti e glielo stava passando sul viso, sulla bocca
sporca, sulle lacrime. Reggendola col braccio, la fece sedere al tavolo della
cucina. E intanto lei pensava che quelli come lui non bevono nemmeno, probabilmente
non aveva mai neppure sentito l'odore degli alcolici. Con qualcuno della sua compagnia
sarebbe stato diverso. Ricominciò a piangere. Con dolcezza, adagio, lui le
posò una mano sulle sue prendendole il polso come un dottore che si prepari a
contare il numero delle pulsazioni. Adagio - il ritmo era quello di lui - e Vera
si calmò; senza muovere il capo guardò in basso, verso la mano. Adagio, lei ritrasse
la sua, per separarsi. Mentre usciva, qualche insignificante eco di quanto
era successo risuonò nella stanza - tutto bene sì tutto bene proprio certa sì
tutto bene. Quando i genitori tornarono, Vera dormiva e il mattino dopo disse
che aveva l'influenza. Lui non era più una presenza sconosciuta nella casa, al
di fuori delle sue occupazioni, il lavoro e gli amici che si era fatta tra gli
altri neo-assunti e dei suoi pensieri durante il tempo libero, la discoteca e
il cinema dove avevano luogo le schermaglie amorose, mano nella mano, con i ragazzi
del quartiere. Lui diceva: Buon pomeriggio, quando si incontravano nel corridoio
tra l'ala della casa destinata alla famiglia e la sua camera, oppure quando non
potevano fare a meno di imbattersi l'uno nell'altra nel minuscolo giardino dove
venivano allineate le bottiglie vuote del latte e i gerani della madre erano in
piena fioritura. Non diceva più "signorina"; era come se l'omissione fosse lì
ad assicurare: Sta' tranquilla, non lo dirò a nessuno, anche se io so tutto quello
che fai, proprio tutto, non parlerò di te ai miei amici - ma ne aveva poi di amici?
La madre le aveva detto che lavorava nelle cucine di un ristorante alla moda -
sua madre doveva accertarsi che un inquilino avesse uno stipendio fisso prima
di accoglierlo nella sua casa. Vera vedeva in giro altri stranieri come lui, in
gruppi sparsi qua e là come se non sapessero dove andare; naturalmente non andavano
in discoteca e non facevano parte della compagnia di visi noti che frequentava
il cinema. Erano insieme ma sembravano soli. Una cosa, quella, che aveva notato
nel modo in cui avrebbe osservato, senza pretendere di capire fino in fondo, la
strana espressione di un animale in gabbia, lontano dal luogo cui apparteneva.
Gli doveva qualcosa, un segnale, in cambio della sua affidabilità. La volta successiva
in cui s'imbatterono l'uno nell'altra in casa, lei disse: "Mi chiamo Vera".
Come se lui non lo sapesse, come se non avesse mai sentito sua madre e suo padre
chiamarla. Lui fece di nuovo la cosa giusta, si limitò ad annuire educatamente.
"Non sono ben certa di aver capito come ti chiami tu." "I nostri nomi sono
difficili per voi. Chiamami Rad." Il suo inglese era rigido, scandiva sillaba
dopo sillaba con un tono di voce basso. "È la forma contratta di che?" "Come
hai detto?" "È un soprannome? Come Bob invece di Robert." "Più o meno."
Vera pose fine a quel primo incontro su nuove basi nel solo modo che le era familiare:
"Be', ci vediamo," il vago modo di liquidare qualcuno che usava con gli amici
quando non sussisteva nessun impegno. Ma una domenica, mentre stava uscendo per
andare a vedere chi c'era al pub, salendo i gradini che dal seminterrato portavano
al giardino lo vide. Stava leggendo i giornali - tre o quattro ammucchiati accanto
a lui sull'erba impiastricciata di fango. Per la prima volta usò il suo nome,
lo raccolse come una chiave che gira in una serratura ben oliata: "Ciao, Rad."
Si alzò dalla poltroncina che aveva portato fuori dalla sua stanza: "Tua madre
non avrà niente in contrario, spero. Volevo chiederglielo, ma non è in casa."
"Oh no, non è il tipo, quella poltroncina ce l'abbiamo da una vita, una boccata
d'aria non la concerà peggio di come è già." Lei era ferma sul vialetto, lui
dietro la vecchia poltroncina di rattan; poi si risedette affinché lei
potesse andarsene senza offenderlo - lei per raggiungere i suoi amici, lui per
riprendere la lettura. Disse Vera: "Non glielo dirò". E così era venuto
fuori, ciò che nella casa esisteva solo tra loro due. Risero, sorrisero, tutti
e due. Lei gli si avvicinò: "Sei libero oggi? Lavori in un ristorante, vero, com'è?"
"Oggi ho il turno serale." Fece una breve pausa, il capo reclinato con noia distaccata.
"Niente di particolare. Un lavoretto. Quello che si trova." "Lo so. Ma immagino
che se lavori in un ristorante, ti tirino praticamente dietro la roba da mangiare,
no?" Per un istante guardò oltre l'inferriata, distogliendo lo sguardo: "Io
non mangio quella roba". Si sentì invadere da una forte riluttanza all'idea
di varcare il cancello, svoltare l'angolo, arrivare al Mitre dove sarebbe stata
accolta dai fischi e dai pizzicotti di apprezzamento per i nuovi bermuda a fiori,
gli occhi neri di lui l'avrebbero seguita per tutto il tragitto, anche se lui
si fosse rimesso a leggere, ormai dimentico di lei. Per guadagnar tempo lanciò
un'occhiata ai giornali. Quello che teneva in mano era inglese. Quanto a quelli
per terra, si trovò di fronte a una scrittura fluida fatta di svolazzi e ghirigori,
il segreto della lingua di qualcun altro. Non poteva andare al pub; non poteva
fargli sapere che era diretta lì. Gli inganni che andavano bene per i genitori
non erano per lui. Ma il fatto era che non c'erano inganni: lei non ci sarebbe
andata al pub, tutt'a un tratto aveva deciso di non andarci. Si sedette a gambe
incrociate sul supplemento motori del giornale inglese che lui aveva scartato:
"Tutto bene a casa?" Con un piede lui fece un cenno verso i quotidiani in
quella sua lingua segreta; il suo piede scalzo era un oggetto intimo, un altro
segreto. "A casa mia no, non va tutto bene." Vera capì che doveva trattarsi
di politica, laggiù - la politica la impauriva, ignorava molte cose, non aveva
niente a che fare con lei: "Allora è per questo che te ne sei andato". Non c'era
bisogno che rispondesse. "Andarmene: sai, non riesco proprio a immaginarmelo."
"Non vuoi lasciare i tuoi amici." Colse l'allusione, fece una smorfia infantile,
liquidandoli: "La mamma e il papà... tutto". Lui annuì, solidale con quella
sua perdita immaginaria ma senza ammettere quale fosse la sua. "Anche se viaggiare
mi piace un sacco. Cioè, è per questo che ho scelto il lavoro che faccio. Per
vedere altri posti - tanto per andarci, no? Se ci riesco, sai, magari mi va bene.
In ufficio da noi c'è una segretaria che va dappertutto col suo capo, al ritorno
ci porta sempre dei souvenir, è generosissima." "Vuoi vedere il mondo. Ma
adesso i tuoi amici ti aspettano..." Con una risata si scrollò via la sua insistenza:
"E tu vuoi tornare a casa!" "No." La guardò con l'espressione distante di
un adulto di fronte all'innocenza di un bambino: "Non ancora". L'autorevolezza
del suo carattere su quello di Vera, stabilito quella volta in cucina, era di
nuovo lì. Quando Vera cambiò argomento, era umile ed esitante, non flirtava: "Potremmo...
ti va un tè se lo faccio? Eh?" Il giovane non aveva mai mangiato in casa; forse
quello che la famiglia mangiava e beveva era tabù nella sua religione, come la
roba che avrebbe potuto avere gratis al ristorante. Sorrise: "Sì, va bene".
Si alzò e a passi felpati la seguì in cucina muovendo uno dietro l'altro i piedi
scarni. Come un panno passato sopra le linde superfici del lavello e del tavolo
della madre, quest'altra volta la cucina venne ripulita dalla normale routine
di preparare il tè e di tirare fuori le tazze. Gli disse di affettare il panpepato:
"Dài su, assaggialo, l'ha fatto la mamma". Lo osservò con un sorriso ansioso,
con curiosità, mentre i bei denti del giovane affondavano in una morbidezza fatta
di mille briciole. Con la testa fece cenno di sì, dando a bocca piena il suo grave
assenso. Lei gli rifece il verso, annuendo con un sorriso; e come una cerbiatta
accanto a una foglia, gli prese dalla mano la fetta fragrante con il semicerchio
lasciato dai suoi denti, e vi affondò i propri.
Vera non andò più al pub.
Dapprima vennero a cercarla - le amiche del cuore, gli amici più cari - ma nessuno
credeva alle scuse che lei adduceva. La domenica restava in casa ad aiutare la
madre: "Non avrete mica litigato, eh?" Come diceva sempre alle amiche più
intime, era fortunata con una mamma così, per niente severa e sospettosa come
certe madri: "No, mammina. È tutto OK, ma sono sempre le stesse cose, ci diciamo
sempre le stesse cose ogni weekend." "Be'... si vede che stai diventando grande,
che stai cambiando - è normale. Troverai nuovi amici, più interessanti, più adatti
a te." Vera tendeva l'orecchio per sentire se lui era nella sua stanza o se
era dovuto andare al lavoro - i turni al ristorante, lo aveva imparato cronometrando
la presenza e le assenze, erano irregolari. Se ne stava molto tranquillo, non
accendeva la radio né metteva su una cassetta, però lei sentiva sempre se lui
era di là, in camera sua. Quell'estate era veramente estate, una volta tanto;
se era di riposo portava la vecchia poltroncina di rattan in giardino
e leggeva, oppure stendeva le gambe e levava il volto verso il sole umido. Doveva
pensare al luogo da cui veniva; molto caldo, si immaginava Vera, deserto e case
come cubi bianchissimi tra le palme. Lei usciva con una stuoia - nulla di strano
nel voler prendere il sole nel proprio giardino - e chiacchierava con lui come
se, essendo lì, fosse inevitabile. Osservava il movimento dei suoi occhi da destra
a sinistra lungo le volute stampate sui suoi giornali, e quando si fermava - sbadigliando,
reclinando il capo e chiudendo le palpebre per la luce - lei gli faceva delle
domande sul luogo dove si trovava la sua casa. Lui descriveva le vie e le città
e i caffè e i bazar - non corrispondeva affatto all'idea che Vera aveva del deserto
e delle oasi: "Ma le palme ci sono?" "Sì, e poi nightclub, e i palazzi dei
ricchi da mostrare ai turisti, ma ci sono anche fabbriche e campi di prigionia
e tanti poveri che vivono di una manciata di fagioli al giorno." Lei cercava di
afferrare un filo d'erba: Capisco. "Anche tu... anche la tua famiglia... vi piacciono
i fagioli?" Non ci cascava; non ci cascava mai. "Se sai come farli, sono
buoni." "Se li compriamo, ci dici come si fanno?" "Ve li faccio io."
Così una domenica Vera disse alla madre che Rad, l'inquilino, avrebbe preparato
un piatto tipico. I genitori ne furono commossi; carino, un modo delicato di esprimere
gratitudine, un tipo così malinconico, non aveva mai mostrato di volerlo fare
prima di allora. Il padre si preparò a sopportare qualcosa che con tutta probabilità
gli sarebbe risultato sgradito: "Altra gente, altre usanze. Forse è una loro abitudine,
quando li accogli nella tua casa, come portare un mazzo di fiori." A tavola andò
tutto bene. Il piatto era una delizia e nemmeno troppo speziato; dopo tutto anche
nel panpepato c'erano le spezie. Quando il padre stappò una bottiglia di birra
e la posò davanti a Rad, Vera con mossa fulminea la tolse: "Non beve, papà".
La gentilezza suscita gentilezza; la madre di Vera restituì l'invito: "Una domenica
verrà a pranzo da noi - deve assaggiare il mio pollo, e poi ci sarà la torta di
mele." Ma l'invito andava inteso come il "Be', ci vediamo" di Vera. Non ci
tornarono mai più su. Una domenica Vera si alzò scuotendo l'erba dalla stuoia:
"Vado a fare una passeggiata". Allora l'inquilino si levò adagio dalla poltroncina,
ripose il giornale e insieme varcarono il cancello. I vicini con tutta probabilità
la videro insieme a lui. La coppia si avviò nella direzione indicata da Vera,
camminavano uno di fianco all'altra, senza toccarsi, nel modo in cui lei aveva
visto andare in giro altri giovani come lui. Fecero una lunga passeggiata, svoltarono
un angolo dopo l'altro e infine entrarono in un parco. Le piaceva guardare la
gente rincorrere gli aquiloni; adesso era lui a guardare lei che guardava. Sembrava
che quello fosse il suo modo di conoscerla; di conoscere ogni cosa. Non era il
modo degli altri ragazzi - quelli che conosceva lei - ma dopo tutto lui lì era
uno straniero, dovevano essere tante le cose da scoprire. Un altro fine settimana
le venne l'idea di fare un picnic. Sarebbero stati fuori tutto il giorno. Preparò
mele, pane e formaggio - niente prosciutto, si ricordò - sotto gli occhi della
madre. Tra loro regnava il silenzio. Implicito in esso il riconoscimento da parte
della madre dell'accusa che lei, Vera, sapeva di dover rivolgere a se stessa:
stava "dando la caccia" a un uomo; quell'uomo. Tutto quello che la madre disse
fu: "Andate con altri amici?" Lei non mentì: "No. Non ha mai risalito il fiume.
Ho pensato che potremmo fare una gita in barca." Poi cominciò a rimpiangere
il cinema. Senza troppi stratagemmi gli domandò se aveva visto questo o quel film;
presumeva che quando lo sentiva uscire la sera fosse per andare a vedere un film,
con amici - delle sue parti - che lei non aveva mai visto. Che cosa facevano sennò?
Senz'altro non si infilavano in un bar, e l'istinto le diceva neppure in una discoteca,
non riusciva a immaginarselo a dimenarsi e a scalpicciare sotto luci colorate
intermittenti. Non aveva visto nessuno dei film nominati da Vera: "Ti va di andarci?"
Fu come la prima volta che fecero una passeggiata insieme. La guardò di nuovo
come aveva fatto allora: "Se insisti..." "E perché no? Tutti vanno al cinema."
Ma Vera sapeva perché no. Sedette accanto a lui nella sala con aria solenne.
Fu diverso da tutte le altre volte, in quel familiare luogo di piacere. Non le
tenne la mano; solo quella volta, quella volta in cucina. Da allora andarono regolarmente
al cinema. Il silenzio tra lei e i genitori cresceva sempre più; la madre era
come un uccellino gioioso a cui avessero coperto la gabbia. Qualunque cosa i genitori
pensassero, qualunque cosa temessero - non era successo nulla, non successe nulla
finché un giorno festivo, in cui sia Vera sia l'inquilino erano a casa dal lavoro,
andarono a fare una delle loro lunghe passeggiate in campagna (era quanto potevano
fare insieme, lui non praticava sport, non c'erano altre attività giovanili che
trovasse divertenti). In occasione di quella festività che celebrava il compleanno
di un membro della famiglia reale oppure un anniversario religioso che non aveva
nessun significato per lui, tra l'erba alta nel folto degli alberi, il giovane
fece per la prima volta l'amore con Vera. Non l'aveva mai neppure baciata, prima
di allora, né la sera tornando dal cinema, né quando erano soli in casa dove le
possibilità erano ovvie quanto la discrezione dell'orologio della cucina che risuonava
nel corridoio vuoto, e l'occhio cieco del televisore in salotto. Tutto quello
che non aveva mai fatto con lei venne cominciato e portato a termine con passione
irrefrenabile, chiamata a raccolta come con un semplice comando; tra questo e
la mano posata su quella di Vera in cucina, mesi addietro, non c'era stato nulla.
Ora lei aveva le labbra che, come una cerbiatta, aveva assaggiato quando aveva
staccato un boccone toccato dalla sua saliva, aveva il corpo nudo promesso la
prima volta che aveva lanciato un'occhiata ai piedi scalzi. Come tutte le sue
compagne di classe, aveva perso la verginità a quattordici o quindici anni; un
paio di volte qualche ragazzo del quartiere un po' impacciato l'aveva scopata,
mentre lei si dibatteva, in macchina o nel retro di un bar. Ma ora si sentiva
sopraffatta, colma di stupore, risucchiata da una impetuosa sensualità che lei
non sapeva affatto di avere dentro di sé, inaspettata e sconosciuta che prorompeva
da lei come il canto che sgorga da chi si crede non abbia voce. Pianse per il
timore che forse non sarebbe mai, mai giunto fino a lei, che forse mai sarebbe
riuscito a trovarla venendo da tanto lontano. Pianse perché ebbe paura che quanto
era successo avrebbe potuto non succedere mai. Lui le asciugò le lacrime, la rivestì
con la confortante rassegnazione alle sue emozioni che una madre mostra di fronte
a un bambino sovraeccitato. Non sperava di nascondere alla madre quanto facevano;
sapeva che sua madre sapeva. Nel cuore della notte la sentiva scivolare silenziosa
lungo il corridoio dalla sua camera a quella dell'inquilino, la stanza dove ancora
si sentiva l'odore del fratello, e la sentiva ritornare nelle primissime ore del
mattino. Nel buio Vera conosceva lo scricchiolio di ogni asse, sapeva come evitare
il fruscio del pigiama contro la parete; all'alba, da una fessura della finestra
entrava un raggio obliquo del sole nascente, non si era mai accorta che da lì
si vedesse ogni fase del passaggio del sole nella volta celeste. Tutto era cambiato.
Che cosa avrebbe potuto dire la madre? Forse lui aveva altre parole nella
sua lingua; le sole che lei e la madre avevano non andavano bene, non erano adatte
a una situazione non prevista dalle loro vite. Sai quello che fai? Sai chi è?
Non abbiamo proprio niente contro di loro, ma insomma. Che ne sarà della tua vita?
E quel buon posto che ti ha trovato tuo padre? Cosa diranno, là? L'innocente
sensualità che si sprigionava dalla ragazza le conferiva un'autorità che s'imponeva
nella casa. Adesso, all'ora dei pasti lo conduceva a tavola; mangiava quel che
poteva. Nel codice dei genitori quella presenza aveva un significato ben preciso:
era il segnale con cui la figlia 'fidanzata'' portava in casa il moroso. Ma esternamente
Vera e i genitori salvavano le apparenze, il suo ruolo era ancora quello dell'inquilino,
un inquilino che in qualche modo era entrato a far parte del nucleo familiare.
Non c'era nessun bisogno che lui assumesse alcun ruolo specifico; non mostrava
mai alcuna supponenza verso la figlia, le rivolgeva la parola con la stessa discrezione
con cui lui, uno straniero, la rivolgeva a loro. Quando si alzavano da tavola
per uscire insieme, era sempre come se lui si limitasse ad accompagnarla, senza
interesse, seguendo la volontà della ragazza. Poiché il padre era un uomo,
anche se anziano e per giunta suo padre, sapeva riconoscere il potere della sensualità
in una donna e si sentiva sconfitto, intimidito dalla sua ostinazione. Lui non
riusciva proprio a parlare di quella faccenda con la figlia; doveva pensarci la
madre. Litigarono per questo. Così lei affrontò Vera. Come andrà a finire? Madre
e figlia si capirono: tornerà là da dove viene, e tu che farai? Ti scaricherà
non appena avrà avuto quello che voleva. Come sarebbe andata a finire? Rad
di tanto in tanto ora l'ammetteva al cospetto dei suoi amici - era saltato fuori
che sì, qualche amico l'aveva, giovani come lui, delle sue parti. Si incontravano
per strada, e invece di scusarsi e di lasciarla in obbediente attesa come uno
di quei cagnolini legati davanti al supermercato, come faceva di solito quando
attraversava la strada per parlare con i suoi amici, ora la portava con sé e come
se si ricordasse di colpo della sua presenza, dopo un paio di minuti di conversazione
s'interrompeva: Questa è Vera. I loro saluti, il modo in cui la guardavano, le
facevano capire che lui, dopo tutto, aveva parlato di lei, e si sentiva felice.
Facevano delle osservazioni nella loro lingua e lei era certa che si riferissero
a lei. Era riuscita a cambiare, a non andare più al pub, in discoteca, a non preoccuparsi
dei genitori, e ora era stata accettata, apparteneva ad altro. E poi si accorse
di essere incinta. Non aveva un'amica a cui rivolgersi, qualcuno che non avrebbe
detto quelle cose: tornerà là da dove viene ti scaricherà non appena avrà avuto
quello che voleva. Al termine del secondo mese andò in farmacia e, tornata a casa,
si fece un test. Poi andò da un dottore perché quel fai-da-te non la convinceva.
"Avevo capito che non c'erano problemi." Fu tutto quello che Rad disse,
dopo aver riflettuto un attimo, quando lei glielo comunicò. "Sta' tranquillo,
troverò il modo. Farò il possibile. Mi dispiace, Rad. Ti prego, dimentica tutto."
Temeva che avrebbe smesso di amarla - il termine che lei usava per `fare l'amore'.
Quando quella notte andò da lui, un po' incerta, lui la accarezzò con più tenerezza
e con più serietà che mai mentre la possedeva. Ricordò di aver letto in un
settimanale femminile quanto fosse pericoloso cercare di sbarazzarsi di quella
'cosa' (non dava nessun'altra identità alla sua gravidanza) dopo il terzo mese.
Con domande indirette trovò infine un dottore che procurava aborti e fissò un
appuntamento, chiedendo un anticipo sulla tredicesima per pagare la parcella.
"A proposito, sabato prossimo sarà tutto finito. Ho trovato qualcuno." Timidamente,
quella settimana, tornò sull'argomento che aveva sempre evitato. La guardò
come se riflettesse con grande attenzione prima di parlare, pensando separatamente
nella sua lingua, come lei era spesso sicura che facesse. Forse se ne era dimenticato
- dopo tutto era una faccenda sua, era tutta colpa sua, lo sapeva. Poi lui profferì
la parola che nessuno dei due aveva mai pronunciato: "Il bambino?" "Be'..."
concesse, e restò in attesa. Non la prese tra le braccia, non la toccò: "L'avrai,
il bambino. Ci sposeremo." Le scappò in modo maldestro, incredula, impietrita
dalla gioia: "Vuoi sposarmi!" "Sì, sarai mia moglie." "Per questo...
per il bambino?" La fissò con sguardo intenso, mangiandola con gli occhi:
"Perché ti ho scelta". Certo, essendo uno straniero non aveva detto le cose
nel modo in cui le avrebbe espresse chi parla inglese. "Ti amo," disse Vera,
"ti amo, ti amo," balbettando tra i giuramenti e le lacrime. Lui le posò una mano
sulla sua, come aveva fatto nella cucina di sua madre; una volta, e poi mai più.
In uno sceneggiato televisivo vide una coppia mano nella mano che diceva:
"Presto ci sposeremo" - risa e abbracci. Ma ai genitori lo disse da sola,
senza di lui. Era più sicuro a quel modo, pensò, per lui. Diede l'annuncio a riprova
delle buone intenzioni di Rad, come una risposta trionfante agli ammonimenti materni,
espliciti e impliciti: "Rad ha intenzione di sposarmi". "Vuole sposarti?"
La corresse la madre. Un grido improvviso, stridulo. Il padre scoccò un'occhiata
irritata alla moglie. Era giunto il momento perché la scena si conformasse
allo standard dell'annuncio televisivo: "Presto ci sposeremo". Il padre drizzò
il capo e poi lo riabbassò lentamente; lo voltò dall'altra parte. "E tu vuoi
sposarlo?" La madre si portò il palmo sul petto a parare il colpo. La ragazza
traboccava di sentimenti, tutta tesa verso di loro. Il padre scuoteva il capo
come un cane bastonato. "Sono incinta e lui è felice." La madre si girò
verso il padre ma lui non le andò in aiuto. Parlò con tono impaziente e senza
espressione: "Dunque è così". "No, non è così. Non è affatto così. - Non avrebbe
detto loro 'Lo amo,' non avrebbe permesso loro di rovinare tutto facendole provare
vergogna: "È quello che voglio". "È quello che vuole." La madre si era rivolta
al padre. Adesso toccava a lui. Fece un gesto verso il corpo della figlia,
dove non c'erano ancora tracce della vita che in esso stava crescendo: "Niente
da fare allora". Quando la ragazza ebbe lasciato la stanza, guardò la moglie
furioso: "Sporco bastardo". "Zitto. Sta' zitto." Sarebbe arrivato il bambino,
povero innocente.
E fu, infatti, la nuova vita che il padre aveva indicato
nel ventre di Vera a cambiare tutto. Lo straniero, l'inquilino - adesso dovevano
pensare a lui come al futuro genero, il moroso di Vera - disse a quest'ultima
e ai suoi genitori che l'avrebbe mandata a casa sua per farle conoscere la sua
famiglia: "Nel tuo paese?" Rispose con la gravità con cui, si resero conto,
il matrimonio veniva considerato dalle sue parti: "La sposa deve conoscere i genitori
dello sposo. Loro la devono conoscere come io conosco i suoi." Se qualcuno
aveva dubbi sulla serietà delle sue intenzioni - ebbene, si sarebbe dovuto vergognare
di quei dubbi, ora; la mandava a casa sua apertamente e pieno di orgoglio, lo
straniero, per poter essere accettata dai suoi: "Ma gli hai detto del bambino,
Rad?" Non aveva espresso il suo imbarazzo di fronte alla madre e al padre: "Cosa
credi? È per questo che stai andando là." S'interruppe, poi continuò: "È figlio
della nostra famiglia". Così avrebbe fatto un viaggio finalmente! Oltre a
tutte le altre gioie! In uno stato di continua eccitazione tra il desiderio per
Rad - che ora condivideva apertamente la sua stanza - e l'orgoglio di raccontare
ai colleghi perché prendesse le ferie proprio allora, si diede da fare per rivedere
gli amici di un tempo che ormai evitava. Per dire loro che avrebbe fatto un viaggio
per conoscere la famiglia del suo fidanzato; tra qualche mese si sarebbe sposata,
aspettava un bambino - sì - la prova stava nel rigonfiamento sotto la tuta a fiori
che portava per mostrarlo a tutti. Anche per la madre, un genero che non era uno
di loro divenne un tratto distintivo più che una vergogna: "La nostra Vera è una
ragazza che ha sempre saputo quel che voleva. Il mondo cambia, e lei non è tipo
da fare la vita che abbiamo fatto noi." La sola cosa di questo mondo a non essere
cambiata era la gioia per il piccolo in arrivo. Vera era emozionata, erano tutti
emozionati all'idea del bambino, il primo nipotino. Oh come l'avrebbero viziato!
La futura nonna sferruzzava, anche se Vera rideva dicendo che ormai i bambini
non li vestiva più nessuno così, il suo avrebbe portato quelle coloratissime tutine
unisex da ranocchia. Avevano già versato l'anticipo per una carrozzella degna
di un principino o di una principessina. Sembrava di capire che se il moroso
di Vera poteva permettersi di mandare la sua ragazza fin laggiù a conoscere i
suoi prima delle nozze, doveva aver fatto carriera nel ristorante in cui lavorava,
malgrado tutti gli svantaggi a cui i giovani come lui andavano incontro in un
paese tanto inospitale. Quelli-Di-Sopra si rallegrarono alla notizia; Quelli-Di-Sopra
una sera andarono giù con una bottiglia di champagne per brindare a Vera, che
conoscevano sin da piccola, e al suo ragazzo - e le risate si fecero ancora più
allegre quando, dopo aver riempito a tutti il bicchiere, il promesso sposo si
versò del succo d'arancia nel proprio. Anche il portiere si sentiva ormai abbastanza
sicuro da confidare a uno dei signori del circolo che sua figlia presto si sarebbe
sposata, ma prima si sarebbe recata all'estero per conoscere i genitori dello
sposo. I figli di quei signori erano sempre in viaggio; ogni giorno gli giungevano
alle orecchie stralci di destinazioni - "in bicicletta in giro per la Cina, si
figuri"... "due mesi in Perù, niente affatto male..." ..."hanno fatto i sub lungo
la barriera corallina, questa è l'ultima". Andare a trovare i futuri suoceri dove
ci sono le palme e il deserto; mica male! I genitori avrebbero voluto organizzare
una festicciola, prima del viaggio di Vera, combinando il fidanzamento e la partenza.
Vera aveva pensato ad alcuni dei suoi amici di un tempo e a quelli di lui a cui
era stata presentata e con cui sapeva che lui ogni tanto trascorreva qualche ora
- non si aspettava che le dicesse di andare con lui, lei era una donna, non rientrava
nelle loro usanze, e poi comunque non capiva la lingua. Ma lui non ritenne che
quella della festa fosse una buona idea. Vera aveva i soldi della tredicesima
(nel sentire il bambino dare teneri colpetti dentro di lei, non riusciva a credere
a cosa li avesse originariamente destinati) e continuava a chiedergli cosa avrebbe
potuto portare in dono alla sua famiglia - ai genitori, alle sorelle e ai fratelli,
aveva imparato il nome di ciascuno. Rad disse che ci avrebbe pensato lui, sapeva
cosa comprare. Il giorno della partenza si avvicinava, e non lo aveva ancora fatto:
"Ma io voglio fare le valigie! Devo sapere quanto spazio devo lasciare, Rad!"
Lui acquistò alcuni capi di vestiario maschile che lei non era in grado di giudicare
e dei vestiti e dei foulard che non le piacevano ma su cui non osò esprimere pareri
- gli abiti che dovevano piacere alle sorelle di Rad erano assai diversi da quelli
che amava mettersi lei, pensò - meno male che non li aveva scelti lei. Non
volle che la madre andasse all'aeroporto; si sarebbero emozionate troppo tutte
e due. Lasciare Rad fu stranamente diverso; non era tanto lasciarlo quanto andare
incontro, con il suo bambino dentro di lei, al mistero di Rad, a quello che era
contenuto nei suoi silenzi, nel suo fare l'amore alla cieca, nel modo in cui la
guardava pensando nella sua lingua, sicché lei non riusciva a seguirne il filo
negli occhi. Ogni cosa sarebbe stata svelata quando lei fosse arrivata là da dove
lui veniva. Il giorno della partenza Rad dovette lavorare finché non giunse
il momento di accompagnarla all'aeroporto. Due suoi amici, che lei non seppe dire
se aveva già visto o meno, arrivarono insieme a lui sul taxi che uno dei due guidava.
Tenne la mano di Rad stretta nella sua, un doppio pugno abbandonato sulla coscia
di lui, mentre gli uomini parlavano nella loro lingua. All'aeroporto gli altri
lo lasciarono entrare nell'edificio da solo con lei. All'ultimo momento, lui le
diede un altro dono da portare a casa: "Oh Rad... e dove lo metto? Il biglietto
dice solo un bagaglio a mano!" Ma gli strinse il braccio felice all'idea che lui
avesse di quei pensierini per la sua famiglia. "Ci sta... piano, fai piano." Mentre
erano in fila al check-in, lui tirò la cerniera della borsa di Vera. Lei s'inginocchiò
a gambe divaricate per via del pancione e lo aiutò: "A proposito, che cos'è? Spero
niente che si rompa." Lui stava sistemando il pacchetto: "Solo giocattoli per
il bambino di mia sorella. Plastica." "Avrei potuto metterli nella valigia...
oh Rad... non mi resterà posto per il duty-free!" Tutta presa dall'eccitazione,
parlava rivolta alle persone in coda per salire sul volo della compagnia aerea
americana che l'avrebbe trasportata fino alla prima tappa del suo viaggio. Quei
passeggeri erano un altro genere di stranieri - americani - ma le sembrava di
conoscerli tutti; avrebbero viaggiato nella sua felicità, lei se li sarebbe portati
con sé. Lo abbracciò con quanta forza aveva e lui la tenne stretta a sé;
non riuscì a vedergli il volto. Rimase a guardarla mentre passava il controllo
passaporti; Vera continuava a fermarsi per fargli ciao con la mano ma si accorse
che Rad non riusciva a farle nessun cenno, nessun cenno. Rimase solo a guardarla
finché non riuscì più a vederla - E Vera portò dentro di sé l'immagine di Rad
che la guardava, come all'inizio, quando le sarebbe sembrato di sentire i suoi
occhi su di sé se fosse andata al pub una domenica mattina. L'aereo esplose
in volo mentre sorvolava il mare. Tutti coloro che si trovavano a bordo morirono.
La scatola nera fu rinvenuta in fondo al mare e rivelò che nella classe turistica
si era avuta un'esplosione seguita da un incendio; i messaggi finivano lì; silenzio,
la disintegrazione del velivolo. Nessuno sa se tutti morirono sul colpo oppure
se qualcuno annegò in mare. Aprirono un'inchiesta che si protrasse per un anno.
Ricostruirono il passato di ogni passeggero nonché le circostanze che avevano
portato al viaggio di ciascuno. Ci furono degli arresti; alcune persone vennero
interrogate quindi rilasciate. Tutti innocenti - ma erano stranieri, naturalmente.
Poi ci fu un altro disastro della stessa natura e un comunicato di un gruppo dal
nome apocalittico, in rappresentanza di una fazione di tutti coloro che nel mondo
subiscono ingiustizie, il quale rivendicava la distruzione di entrambi gli aerei
in segno di vendetta per guerre sante, annessioni di terre, invasioni, imprigionamenti,
raid oltre frontiera, dispute territoriali, bombardamenti, affondamenti, rapimenti
che nessuno a parte gli iniziati era in grado di comprendere. Un membro del gruppo,
un giovane noto tra molti altri pseudonimi anche con il nome di Rad, aveva piazzato
nel bagaglio a mano della figlia della famiglia presso cui aveva alloggiato, e
che aspettava un figlio da lui, un congegno esplosivo. Plastica. Una bomba al
plastico che le consuete misure di sicurezza aeroportuali non erano state in grado
di individuare. Vera era stata scelta. Vera se li era portati tutti
con sé, si era portata con sé il bambino dentro di lei; giù, insieme alla sua
felicità.
(Tratto dalla raccolta Il salto, Feltrinelli editrice, Milano, 1991,
traduzione di Franca Cavagnoli.)
Nadine Gordimer è Premio Nobel per la Letteratura 1991.
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